Le comunità terapeutiche democratiche nel territorio pratese: uno studio pilota sulla prospettiva degli operatori
Autori
Ricevuto il 16 dicembre 2024; accettato il 30 dicembre 2024
Riassunto
Il presente studio si propone di valutare l’attitudine e l’atteggiamento nei confronti della recovery degli operatori attivi presso le strutture residenziali; per fare ciò, sono state utilizzate scale psicometriche che permettano di avere un riscontro preciso della prospettiva dell’operatore e del modo in cui si fa promotore degli interventi socio-riabilitativi residenziali.
Oggetto dello studio sono le strutture del territorio pratese. Nello specifico, si porrà particolare attenzione ad alcune di esse, in cui viene attualmente implementato il modello delle comunità terapeutiche democratiche per definire l’organizzazione delle residenze. La tesi è che questo modello possa rappresentare una buona pratica per tutti gli stakeholders: non solo gli utenti, ma anche gli operatori.
Summary
This study aims to evaluate the attitudes and perspectives toward recovery of professionals working in residential facilities. To achieve this, psychometric scales were employed to obtain precise insights into the operators' viewpoints and their role as promoters of socio-rehabilitation interventions within residential settings. The study focuses on facilities in the Prato area, with particular attention given to those currently implementing the model of democratic therapeutic communities to structure their organization. The hypothesis is that this model can represent a good practice for all stakeholders—not only for service users but also for the professionals involved.
Introduzione
La residenzialità è centrale nel concetto di recovery: se è vero che le pratiche orientate alla riabilitazione psichiatrica hanno trovato una più ampia diffusione in seguito alla marea montante dei movimenti di de-istituzionalizzazione, questo non necessariamente significa che la recovery debba prescindere da un contesto residenziale. In questo, la prima e più importante linea di demarcazione da tracciare è proprio quella fra le “istituzioni totali” e le strutture residenziali: queste ultime devono rivestire la funzione di strumenti moderni al servizio dell’utente, volte a favorire l’integrazione o la re-integrazione piuttosto che la marginalizzazione. Ad illustrare bene la distanza fra strutture e istituti manicomiali sono gli studi condotti a Trieste immediatamente dopo la Legge 180/78 (Kramar, 1990); emerge subito una caratteristica fondamentale di questi luoghi, ovvero la connotazione di strutture “intermedie” o, al limite, “alternative”, dove l'utente permane temporaneamente nell'ottica di una transizione dello stesso in lunghi abitativi a maggiore grado di indipendenza. Già negli anni ottanta si era rilevato come le strutture residenziali costassero di meno e ottenessero risultati clinico-riabilitativi migliori rispetto agli Ospedali Psichiatrici (OP), soprattutto quelle più piccole e con programmi individualizzati.
L’unico dato in controtendenza con la tesi di questo studio era quello secondo il quale un modello residenziale supportivo, basato su residenzialità non a termine ma “cronicizzante”, ottenesse risultati migliori di un modello transizionale, volto all’invio verso una dimissione. Era tuttavia spiegabile con il fatto che alcuni servizi territoriali dell’epoca fossero “impreparati” ad accogliere la domanda di pazienti ex-OP transitati per strutture residenziali. Un altro dato dissonante all'epoca era il ruolo predittivo negativo delle aspettative degli operatori quali generatrici di "pressione" (De Luca & Frattura, 1996).
Entrambe le considerazioni ci permettono di introdurre alcuni dei punti cardine di questo studio: per strutturare una residenzialità volta alla recovery non basta superare lo stigma, riporre fiducia negli utenti e proporre piani terapeutici articolati. Occorre adottare modelli di lavoro che permettano di dare voce a tutti gli stakeholder; solo così i programmi terapeutici e di abilitazione possono essere davvero personalizzati.
Secondo le linea guida del National Institute for Health and Care Excellence “Rehabilitation for adults with complex psychosis” (National Institute for Health and Care Excellence (Great Britain), 2020), riprese dall’ultimo report dell’Istituto Superiore di Sanità (Scattoni, 2023): “la necessità di un percorso riabilitativo di comunità è una componente essenziale dell’offerta di cura, e la residenzialità viene messa in connessione con l’abitare supportato e con interventi domiciliari di sostegno limitati e commisurati ai bisogni, in un approccio volto all’ottenimento della massima autonomia e recovery”. Il report ISTISAN 23/9 ripercorre la storia, l’evoluzione e lo stato dell’arte delle Strutture Residenziali Psichiatriche (SRP di qui in avanti) in Italia in modo molto fedele. Nel presente riprenderemo solo alcuni punti esplorati nell’analisi e ne approfondiremo altri di interesse per la nostra indagine, che cercherà di rispondere ai nostri quesiti: posto che la prospettiva e le aspettative degli operatori che ci lavorano influenza inevitabilmente il funzionamento delle SRP, quali sono i fattori che correlano con una migliore disposizione degli operatori? Può un’organizzazione del lavoro impostata sul modello delle Comunità Terapeutiche Democratiche generare un clima migliore anche per i professionisti della salute mentale e, di rimando, migliorare il percorso degli utenti in struttura?
La storia e gli obiettivi delle SRP
Il tentativo di migliorare l'efficacia terapeutica, abilitativa e riabilitativa delle strutture residenziali per utenti della salute mentale è stato un argomento centrale fin dagli albori di questa disciplina. Già all’inizio dell’’800, Pinel auspicava l’adozione di un modello di “trattamento secondo morale” (cfr.) in luogo di quello offerto dalle tradizionali istituzioni psichiatriche. All’epoca risalgono anche le prime considerazioni e principi propri della “psicologia sociale”, in cui si dà risalto al concetto di individualità nel contesto gruppale e viceversa. I primi esempi di comunità terapeutiche al di fuori dei manicomi si ebbero per i giovani con difficoltà sociali nel periodo fra le due guerre; si chiamavano “leaving and learning communities” (Bridgeland, 1971), in cui veniva proposto un regime di cura chiamato “Planned Environment Therapy” (Franklin, 1945). Queste prime proposte di residenzialità in forma embrionale aprirono poi allo sviluppo di comunità terapeutiche più strutturate per dare asilo ai sopravvissuti della seconda guerra mondiale. In queste strutture si osservava un ordinamento più solido e dei principi più chiari, tra cui quello dell’adozione della gruppanalisi. A fornire il contributo maggiore nel periodo immediatamente successivo furono Rapoport e, soprattutto, Jones, che posero le basi per un approccio socio-riabilitativo nelle comunità terapeutiche (Whiteley, 2004). I concetti di responsabilità condivisa per la manutenzione fisica dello spazio vitale, partecipazione e decisioni democratiche nel governo della struttura erano già comuni a tutti questi progetti; tuttavia, si evince dai nomi e dai principi sottesi a queste pratiche che vigesse ancora un certo grado di subordinazione tra le opinioni degli operatori e quelle degli utenti. Modelli di lavoro a carattere orizzontale - e non gerarchico - si sarebbero sviluppati solo con il tempo.
In Italia, le SRP sono state istituite dal Piano Obiettivo del 1998-2000, nonostante fossero già presenti sul territorio in altra forma e con altri nomi. Questo è importante specificarlo, perchè in seguito al graduale svuotamento degli OP dopo la Legge 180/78, aveva cominciato a prendere piede un graduale processo di re-istituzionalizzazione, che le strutture psichiatriche avrebbero dovuto contrastare, non assecondare.
Kramar nel parlare di de-istituzionalizzazione ha proposto un'evoluzione del concetto di libertà: “da qualcosa” (il manicomio) a “per qualcosa” (il territorio) (Kramar, 1990). È auspicabile l'estensione di questa prospettiva anche alle strutture residenziali: non una libertà “dall’abbandono” quale mera acquisizione di una sistemazione, che presuppone in automatico uno stato di dipendenza, ma una libertà “per la riacquisizione dell’autonomia” in una prospettiva abilitativa. Ha anche sottolineato come le strutture si qualifichino per la qualità e la quantità di connessioni territoriali che riescono a creare.
Sul tema dei rischi della re-istituzionalizzazione, invece: "Costa, alla psichiatria, rinunciare all'idea di un progetto totale e controllato (ieri il manicomio, oggi il sistema delle infinite strutture non residenziali, semiresidenziali, residenziali,ecc.): costa, infatti, pensare di dovere 'solo' facilitare la creazione di luoghi per vivere senza tuttavia ritenersi autorizzati a programmarli" (Saraceno, 2000).
Lo stato dell’arte in Italia
Il tema delle strutture è quanto mai attuale nella psichiatria Italiana: nel Piano Nazionale di Azioni per la Salute Mentale del 2013 sono stati definiti i tre livelli di intensità in cui si classificano le Strutture Residenziali Psichiatriche (intensivo, estensivo e socio-riabilitativo sulle 6, 12 e 24 ore). Il loro ruolo si divide quindi in tre livelli:
- Le SRP 1 servono per garantire un adeguato approccio terapeutico, sia psichiatrico che psicoterapico e psicoeducativo; si focalizzano sull’adozione di uno stile di vita sano e hanno una durata di massimo 3 mesi per le acuzie e di massimo 18 mesi per i cronici. Queste strutture sono destinate ai casi più gravi di malattia (sintomatologia produttiva, forte contrazione della spinta volitiva nei disturbi affettivi).
- Le SRP 2 e 3 possono ospitare un utente per un massimo di 3 anni, e puntano a fornire strumenti per garantire un’autogestione a livello di risorse e sociale.
Inoltre, ci sono luoghi di co-abitazione, di cui l’abitare supportato e i “gruppi appartamento” sono l’esempio più calzante, con un elevato grado di autosufficienza. L’invio e il progetto del percorso in struttura (il “governo clinico”) sono di competenza del Centro di Salute Mentale di riferimento: il percorso residenziale prevede la sottoscrizione di un accordo tra l’utente e il Dipartimento di Salute Mentale nella forma di un Piano Terapeutico Riabilitativo Individualizzato (PTRI). L’equipe in struttura dev’essere multidisciplinare; ciascuna struttura adotta una propria Carta dei Servizi, per il regolamento interno.
Secondo i dati dell'ISS, in Italia ci sono circa 3.7 strutture residenziali per 100.000 abitanti, corrispondenti a circa 51.2 posti letto sullo stesso rapporto. La Toscana ha un numero di strutture in linea con questi valori, tuttavia la durata media di permanenza al loro interno è più del doppio rispetto alla media nazionale, l la quale nel 2023 era di 963.5 giorni (in netto aumento rispetto al 2015, anno in cui risultava essere di 756 giorni). L’estesa permanenza all’interno delle strutture residenziali toscane costituisce infatti ben il 60% della spesa della salute mentale della regione ed inoltre comporta che il numero di “ammissioni” annue sia più basso, poiché genera un ritmo di ricircolo più lento. Esempi alternativi alla residenzialità sono l’inserimento eterofamiliare supportato di adulti (IESA), diffuso in Piemonte, in cui l’utente versa una quota alla famiglia ospitante, e i “cluster housing” (gruppi di case) in Friuli, dove in virtù del retaggio basagliano non esistono strutture residenziali psichiatriche.
Come e cosa studiare per valutare il rendimento delle SRP
Diversi studi sono stati condotti per valutare i trend di permanenza e la salute degli utenti nelle strutture; gli indicatori di esito e di processo utilizzati solitamente si basano sul sistema PRISM (PRocess Indicator System for Mental Health). In Italia, i focus principali vertono su “sintomi”, “funzionamento”, “qualità della vita”, “soddisfazione” e “costo/efficacia” (Picardi et al., 2014); tali focus devono essere speculari ai “bisogni” espressi dagli utenti (Veronese, 2020). Si sono susseguiti diversi progetti sulle strutture territoriali negli anni, tutti con questi indicatori di esito come denominatori:
- PROGRES (De Girolamo et al., 2002)
- DIAPASON (Martinelli et al., 2022)
- QUADIM (Lora et al., 2022)
Diapason, stante per DAily time use, Physical Activity, quality of care and interpersonal relationships in patients with Schizophrenia spectrum disorders), (Martinelli et al., 2022) si proponeva di valutare la qualità della vita e il funzionamento sociale di utenti con sintomatologia psicotica residenti in strutture residenziali sul territorio italiano. Lo strumento principale utilizzato in quel caso era il questionario Quality Indicator for Rehabilitative care for supported accomodation services (QuIRC-SA) (Killaspy et al., 2016). Quest'ultimo consiste in una scala di valutazione che “fotografa” sette aree di interesse: Ambiente di Vita, Ambiente Terapeutico, Trattamenti e Interventi, Autogestione e Autonomia, Interfaccia Sociale, Diritti Umani, Pratica Orientata alla Recovery. Si tratta di uno strumento unico nel suo genere: non esistono altri strumenti ad hoc per valutare la qualità delle strutture residenziali psichiatriche. La valutazione viene effettuata dal responsabile della struttura.
Diapason prevedeva anche la somministrazione di test psicometrici e, in parallelo, di due questionari più legati all’esperienza della residenzialità:
- Il Ward Atmosphere Scale-patient version (WAS-P), per valutare l’atmosfera dell’ambiente terapeutico (Rossberg & Friis, 2004);
- Il Service Satisfaction Scale (VSSS-32), attestante la soddisfazione per le cure e il supporto ricevuto (Ruggeri, 1994).
Gli studi citati forniscono informazioni fondamentali su tutti gli aspetti della vita degli utenti e del loro percorso in struttura, ma non prendono in esame il modo in cui si modifica la prospettiva degli operatori a seconda del modello di lavoro adottato in struttura.
La prospettiva degli operatori, appunto
Secondo il rapporto del 2022, nelle strutture residenziali psichiatriche in Italia lavorano circa 12.000 persone. Il ruolo di queste persone è quello di affiancare gli utenti nella vita di tutti i giorni, contribuendo al già citato “governo clinico”, ma anche fornendo supporto in tutte le aree di funzionamento fondamentali per raggiungere un buon grado di indipendenza. Troppo spesso dimentichiamo che educatori ed operatori socio-sanitari sono coloro che trascorrono il tempo ad un contatto più stretto con gli utenti, essendo quindi più direttamente esposti ai loro bisogni, sogni e difficoltà. Se da una parte auspichiamo che approccino questo difficile compito con la migliore disposizione d’animo, ci sono comunque delle variabili soggettive e interpersonali che possono influenzare in modo significativo il loro lavoro e il loro influsso sugli utenti. E’ quindi fondamentale creare per loro un ambiente in cui si sentano a proprio agio, in cui percepiscano di poter operare con efficacia, di non essere oppressi da eccessive responsabilità, ma neanche vincolati da troppe restrizioni.
La tesi è che il modello di lavoro utilizzato influenza la prospettiva e la qualità di vita dell'operatore, e può condizionare la modalità di approccio verso il paziente e, di conseguenza, gli outcome terapeutici. Il contesto pratese offre l'opportunità di un'analisi e un confronto approfonditi tra modelli di lavoro differenti, quindi ha costituito un ottimo terreno di indagine.
Modelli di lavoro alternativi per le SRP
Le strutture residenziali sono da tempo tra i principali ambiti di applicazione delle tecniche di recovery: forniscono un ambiente protetto in cui l’utente può affrontare un percorso di sperimentazione e di crescita, ricevendo al contempo supporto continuativo per colmare le lacune nelle aree più problematiche.
In Toscana sono stati inaugurati diversi progetti pionieristici in termini di recovery. Uno di questi riguarda la Green Care a l’Aia di Ramarella: questo progetto di agricoltura sociale è un’iniziativa costola del più ampio disegno previsto dal Patto Territoriale sviluppato per la salute mentale della Toscana Centro. Questo Patto, inaugurato nell’area del Valdarno Aretino nel 2013, si basa sui principi di programmazione negoziata. È importante comprendere come la Fattoria Sociale Aia di Ramarella sia il punto di arrivo del Patto, quello in cui ne convergono le politiche e le idee, votate alla resilienza e alla capacitazione sociale (Cardamone & Zorzetto, 2000). Il metodo vede la persona nella sua soggettività al centro, e gli accordi a sancire le azioni da intraprendere. L’obiettivo è quindi lo sviluppo delle capacità individuali e del capitale sociale (Barone, 2020) tramite la proposta di percorsi abilitativi e riabilitativi, che non solo svolgono la funzione di “laboratorio protetto”, ma possono anche dare luogo ad inserimenti lavorativi stabili. Se ne deduce quindi che oltre alla risposta abitativa viene fornita anche un’occasione di connessione sociale e di sinergie produttive. Introdurre ed estendere il concetto di Agricoltura Organica Riabilitativa a tutta la Toscana Centro è stato il proposito più recente di promozione di modelli alternativi di SRP.
Un altro approccio innovativo è invece l’utilizzo del modello di Comunità Terapeutica Democratica, implementato nel territorio pratese a partire dal 2019. Il termine Comunità terapeutica (CT) si fa risalire a Tom Main (Main, 1946), che la descrive come un tentativo di utilizzare l’ospedale come una comunità il cui scopo immediato era la partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre l’obiettivo finale la reintegrazione dell’individuo nella vita sociale. Dal primo esperimento di Northfield ad opera di Bion, nei paesi anglosassoni la riflessione sulla Comunità Terapeutica si è ampliata, connettendosi alle trasformazioni politico-sociali ed economiche contemporanee. Le Comunità terapeutiche sono state portate in Italia inizialmente da Franco Basaglia e Peppe Dell’Acqua e successivamente da Sergio Piro (Orsini, 2019), il quale ha inaugurato un modello altamente collaborativo nel territorio di Nocera Superiore, pionieristico nel suo approccio alla malattia mentale. Nel 2002 Haigh e Worral hanno definito la Comunità Terapeutica come un Ambiente di Vita e di Lavoro Pianificato in senso Terapeutico, che utilizza il valore terapeutico dei processi sociali e gruppali (Haigh et al., 2012). Essa promuove una convivenza gruppale, egualitaria e democratica in un ambiente mutevole, permissivo, ma sicuro. I problemi emotivi ed interpersonali sono affrontati discutendone apertamente ed i membri possono così costruire relazioni di fiducia. Essi hanno individuato i Principi della Comunità Terapeutica, rivisti ed aggiornati dal Community of Communities Advisory Group nel 2013 (Haigh et al., 2012), che sono così descritti:
- Democrazia, Partecipazione. Permette alle parti sane della personalità di emergere ed essere usate.
- Permissivismo, Tolleranza. Permette che i comportamenti difficili si verifichino. Incoraggia l’espressione, rivelazione di sé e l’assunzione di responsabilità individuale e collettiva.
- Sicurezza, Confini. Il contenimento psicologico può essere sperimentato e interiorizzato.
- Comunicazione, Apertura alla Discussione Autentica. Facilita l’espressione della sofferenza e la comprensione delle sue cause.
- Facilitazione del Confronto con la Realtà. Le conseguenze delle azioni sono chiare per gli individui e per il gruppo.
- Fiducia, Informalità. Permette che si sviluppi la fiducia e incoraggia la giocosità terapeutica.
- Uguaglianza, Assenza di Gerarchia. Tutti i membri hanno ugual valore.
- Ambiente variabile. Permette l’interazione in diverse situazioni e il reciproco esame delle varie sfaccettature della personalità.
- Comunitarismo, Vita di Gruppo. Aiuta i clienti membri ad esplorare tutte le loro interazioni e fornire opportunità per la sperimentazione di nuovi comportamenti in situazioni reali.
I principi delle Comunità Terapeutiche sono stati ripresi ed implementati - integrandoli con Buone Pratiche di lavoro - in quello che è stato chiamato il modello delle Comunità Terapeutiche Democratiche (CTD). Nate anch’esse in Inghilterra, possono essere concepite oggi come “ambienti abilitanti” (Haigh et al., 2012) in grado di coniugare le funzioni di cura, sostegno abitativo ed inclusione sociale nell'ambito della comunità locale. Ad importarle in Italia più di 10 anni fa è stato il “Visiting DTC Project”, un programma di costruzione e diffusione di una rete di servizi di Comunità Terapeutica e Sostegno all’Abitare, capace di contribuire alla ricerca empirica in salute mentale cercando di implementare le Procedure di Buona Pratica, i Dispositivi Gruppali Comunitari e le Reti di Ambienti Abilitanti (Bruschetta, 2022). Questi principi si rifanno a degli standard condivisi per orientare in maniera efficace i percorsi di cura nelle comunità terapeutiche (Haigh & Pearce, 2017; Paget, 2008). In questo senso, incarnano un accadere terapeutico/abilitativo che rende i luoghi degli autentici spazi di esperienze vitali, capaci di operare le trasformazioni possibili, identificando e rinforzando i fattori terapeutici aspecifici (Magnani et al., 2024). La Toscana, nei primi 10 anni del progetto, è stata la regione in Italia con più Comunità Terapeutiche partecipanti al progetto; tuttavia, meno della metà hanno applicato le Buone Pratiche di Comunità continuativamente. Si tratta di un modello di lavoro articolato, che richiede tempo perché i suoi principi vengano assorbiti ed adottati stabilmente. L’applicazione delle Procedure di Buona Pratica si esplica su più livelli; le misure vengono proposte in forma di PDTA speculari ai principi delle Comunità Terapeutiche.
Alcuni strumenti ben strutturati che caratterizzano le CTD sono:
- Community meeting: una riunione di gruppo giornaliera dedicata al dialogo, rivolta sia al personale che ai pazienti, per garantire lo scambio emotivo e la comprensione necessari al contenimento psicologico. Questo elemento salta subito all’occhio, in quanto rivolto contemporaneamente ad operatori ed utenti: l’idea è che sia proprio questo tipo di interazioni a garantire maggiore benessere all’operatore all’interno del luogo residenziale.
- Partecipazione dei familiari: la rete sociale e familiare deve essere vista come risorsa integrata nel processo di recovery.
È lo stesso Bruschetta, nel parlare del “Visiting DTC Project”, a sottolineare come le CTD offrano un modello di residenzialità alternativo di cui possono beneficiare tutti gli stakeholders, a partire dagli utenti e dai familiari e arrivando agli operatori della salute mentale (Bruschetta, 2022).
Obiettivo
L'obiettivo primario dello studio è quello di confrontare gruppi di operatori delle SRP che lavorano con modelli operativi diversi, nell'ottica di una caratterizzazione di alcune variabili relative all'operatore - l’ottimismo terapeutico, l’attitudine alla recovery, lo stigma interiorizzato, la soddisfazione sul lavoro e la qualità della vita - potenzialmente significative rispetto agli esiti del percorso degli utenti.
Lo studio è stato inaugurato in concomitanza con il termine delle restrizioni legate alla pandemia da SarS-CoV 2. In questo senso, anche alla luce del rapporto ISTISAN 23/8, possiamo dire che le valutazioni fatte si riferiscono ad un nuovo inizio, o quanto meno ad un nuovo assetto delle SRP italiane, che hanno avuto modo di riorganizzarsi in questo momento di criticità, nonostante abbiano continuato ad operare quasi a pieno ritmo durante la pandemia (The Executive Committee of The Italian Society of Psychiatry et al., 2020); d’altro canto, è presumibile che i dati sulla permanenza in struttura siano stati viziati dalle misure straordinarie resesi necessarie durante la pandemia (Scattoni, 2023), che potrebbero aver rallentato il ritmo di turnover nelle strutture.
Il presente lavoro risulta essere innovativo per tre motivi: abbraccia una regione precedentemente poco studiata, si propone di studiare gli esiti di un programma di lavoro ancora poco diffuso in Italia, e si rivolge ad un campione diverso da altri studi, nella figura degli operatori delle strutture.
Metodi
L’area di interesse per questo studio sono le strutture residenziali associate al Dipartimento di Salute Mentale di Prato.
Gli invii in struttura rispondono alle logiche e ai principi suggeriti dai PDTA sui disturbi psichiatrici gravi, e coinvolgono principalmente utenti affetti da disturbi dello spettro psicotico, bipolare, o gravi disturbi di personalità.
I criteri di inclusione per l’analisi hanno previsto l’appartenenza ad un gruppo di lavoro dedicato ad una struttura residenziale, oltre che la maggiore età (criterio comunque imprescindibile per lavorare in struttura) e il consenso informato a partecipare allo studio. I dati sono stati raccolti in forma anonima ai sensi del Regolamento Europeo 679/2016 (“Regolamento generale sulla protezione dei dati” o “General Data Protection Regulation”) e dei Decreti Legislativi 196/2003 e 101/2018.
Il campione di studio è stato quindi rappresentato dagli operatori, a prescindere dal loro ambiente di formazione. È stato proposto loro un questionario che constava di due sezioni: la prima, dopo una breve raccolta di dati socio-demografici, serviva a ricavare informazioni sulla struttura di pertinenza dell’operatore e sulla sua formazione, nonché sui possibili fattori che potessero predire un’attitudine diversa ai problemi di salute mentale e alla recovery. Tramite questo primo screening gli operatori sono quindi stati suddivisi in tre gruppi, rispettivamente “SRP CD” (per gli operatori su residenze che adottano i principi della Comunità Terapeutica Democratica), “SRP standard” (per operatori stanziati su strutture aderenti alle linee guida per le SRP di secondo e terzo livello) e “Strutture alternative” (per operatori su strutture e spazi altri da quelli già citati, come le R.S.A.).
Per la seconda parte dell’indagine è stata selezionata una serie di questionari utili a valutare l’attitudine degli operatori nel contesto del lavoro presso le strutture residenziali psichiatriche. I questionari sono stati selezionati basandosi sugli studi citati in precedenza, cercando di traslare le aree di indagine dagli utenti agli operatori. L’obiettivo era cercare di valutare quanto osservato e vissuto direttamente da questi ultimi, tramite l’utilizzo di test psicometrici che, nella sostanza, andassero a valutare “l’atmosfera” della struttura più che il suo funzionamento, come il WAS-P e il VSSS-32. I test inclusi sono stati:
- il questionario della World Health Organization sulla qualità della vita, in forma breve (WHO-QoL Bref) (de Girolamo et al., 2000), utile per un inquadramento generale della popolazione oggetto di studio. Si suddivide in quattro sottodomini distinti: Salute Psicologica, Salute Fisica, Ambiente di Vita e Relazioni Sociali.
- la Elsom Therapeutic Optimism Scale (ETOS, Byrne et al., 2006), che va ad esplorare un’area cruciale per il buon esito dei percorsi di trattamento dei disturbi psichici, come hanno confermato anche studi successivi (Cardoso & Xavier, 2015).
- l’Attribution Questionnaire (Pingani et al., 2012), un questionario tarato sulla percezione che l’intervistato ha dell’utente affetto da malattia mentale grave, orientato ad individuare i comportamenti stigmatizzanti meno evidenti.
- la Provider Expectations for Recovery Scale (Salyers et al., 2013), una scala che si propone di investigare un’area simile all’ultimo dei domini del Quirc-SA) (Killaspy et al., 2016) e che nei suoi intenti è tarata proprio sull’attitudine dell’operatore.
- la Job Satisfaction Scale (Platania et al., 2021), una scala utile per valutare il grado di soddisfazione dell’intervistato nell’ambiente di lavoro.
I questionari sono stati somministrati fra giugno e settembre 2024.
Risultati
Sono stati reclutati 31 operatori della salute mentale: 12 educatori, 15 operatori socio-sanitari, 3 psichiatri ed 1 appartenente ad un’altra categoria professionale. Il gruppo SRP CD includeva 12 operatori, mentre gli altri due rispettivamente 11 e 8. Le Comunità Terapeutiche Democratiche prese in esame sono quindi state una SRP 2a/socio-sanitaria, una SRP 2b e una SRP 3.2. Le altre SRP coinvolte erano tutte 2a.
Gli operatori intervistati erano per la maggior parte donne. L’età media si è rivelata essere più bassa nel gruppo delle CD (p-value = 0.04); il gruppo delle Comunità Terapeutiche Democratiche ha fatto registrare un livello di istruzione lievemente più alto, anche se la differenza non si è rivelata significativa (p-value = 0.7). Il gruppo delle CD era anche quello con meno anni di attività in strutture della salute mentale all’attivo (p-value = 0.01) e con un maggior numero di operatori (p-value < 0.01) rispetto agli altri due. I tempi in permanenza in struttura erano mediamente superiori ai due anni in tutte le strutture prese in esame; importante far notare come questo dato specifico si riferisca agli utenti e non agli operatori.
Nella Figura 1 sono riportate le correlazioni fra le varie scale impiegate nello studio. I punteggi più vicini a 1 indicano se esiste correlazione diretta fra le scale, mentre quelli negativi indicano una proporzionalità inversa; l’asterisco indica se la correlazione (in un senso o nell’altro) è statisticamente significativa. Le sottoscale del WHO-QoL hanno fatto registrare dei punteggi coerenti con la struttura del test, visto che le varie sottodimensioni correlavano direttamente l’una con l’altra e con il punteggio totale del questionario. L’unica sottodimensione che non ha dato i risultati previsti era quella sulla salute psicologica (SP), che non ha mostrato un grado di correlazione significativo con nessuna scala se non quella del punteggio totale della WHO-QoL. La soddisfazione sul lavoro (SL) ha dimostrato un modesto grado di correlazione con una buona qualità di vita generale (QoLtot, 0.48), oltre che con i sottodomini Salute Fisica (SF, 0.48) ed Ambiente di Vita (AV, 0.51), oltre che con l’ottimismo terapeutico (OT, 0.42). Quest’ultimo correlava positivamente con l’ambiente di vita (AV, 0.48) e con la buona qualità di vita generale (QoLtot, 0.4)Per quanto riguarda lo stigma interiorizzato (SI), ha dimostrato un modesto grado di correlazione inversa con la qualità delle relazioni sociali esperita dagli operatori (RS, -0.4) e con il loro ottimismo terapeutico (OT, -0.37).
Le analisi della varianza non hanno rilevato differenze significative fra i vari gruppi nei punteggi dei questionari, eccezion fatta per l’Attribution Questionnaire, che andava a misurare lo stigma interiorizzato. Abbiamo quindi condotto un’analisi post-hoc, che ha dimostrato come il gruppo delle comunità terapeutiche democratiche avesse fatto registrare dei punteggi leggermente più bassi rispetto sia al gruppo delle SRP standard (p-value = 0.03) che di quelle alternative (p-value = 0.03).
Lo spider graph riassume graficamente ciò che era già stato rilevato dalle analisi della varianza. L’unica differenza significativa sono i livelli di “stigma interiorizzato” - comunque bassi - riportati dal gruppo appartenente alle “strutture alternative” e, in seconda battuta, dal gruppo “SRP standard”. E’ visibile anche un certo grado di “scollamento” fra i valori circa le aspettative sulla recovery, la qualità della vita e soprattutto riguardo alla soddisfazione sul lavoro per il gruppo delle Comunità Terapeutiche Democratiche. Tuttavia, la dimensione della forbice e la dimensionalità campionaria non erano tali da rendere la differenza significativa.
Nei materiali supplementari (tabella A1) sono riportati i punteggi medi alle scale psicometriche; il sottodominio del WHO-QoL bref legato al benessere psicologico ha fatto registrare un media di punteggi molto ridotta (44.49), se comparata con gli altri sottodomini (67.86, 70.16, 66.23 rispettivamente) e con i punteggi medi fatti registrare dalla popolazione generale, indice di un certo grado di disagio mentale.
Discussione
Lo studio ha fornito alcuni spunti valevoli di un approfondimento, a partire dai dati socio-demografici. Il gruppo delle Comunità Terapeutiche Democratiche era caratterizzato da un’età media inferiore, con un livello di istruzione lievemente più alto (la scolarità era elevata anche negli altri gruppi), ma soprattutto quello che lavorava nel settore della Salute Mentale da meno tempo. Questo dato non è immediatamente interpretabile in maniera univoca, ma ci potrebbe suggerire che chi ha approcciato l’area della Salute Mentale più di recente tenda, forse più per meccanismi e sovrastrutture organizzative che per scelte personali, a trovarsi in ambienti di lavoro che implementano modelli innovativi, e che transiti in strutture più tradizionali solo dopo alcuni anni di esperienza. Secondo i modelli più recenti della psichiatria di comunità, è fondamentale cercare di trasferire le risorse verso i modelli che garantiscono maggiori livelli di recovery, prevenendo la cronicizzazione. A suffragare questa ipotesi abbiamo rilevato che le CD erano le strutture dove il personale era più numeroso (questo, fra l’altro, non può che facilitare l’adozione di dinamiche di lavoro virtuose e rispettose del benessere della persona). Le CTD erano quelle dove, a detta degli operatori, si utilizzavano più pratiche orientate alla recovery e Patti di Coabitazione (nel 91.7% dei casi).
A latere, è importante sottolineare i dati sulla permanenza degli utenti in struttura: a prescindere dal modello adottato, gli utenti nella maggior parte dei casi risiedevano nella SRP in cui si trovava ciascun operatore da più di 2 anni. Questo dato è in linea con quanto già noto grazie ai dati dell’ISS (Scattoni, 2023): nonostante la varia natura delle strutture , nonostante alcune di esse in teoria presupponessero un tempo di permanenza limitato, questo trend è stato confermato.
Riguardo alla psicometria, le analisi condotte permettono di trarre informazioni di due ordini diversi: quelle relative alle correlazioni di Pearson (Figura 1), che ci suggeriscono come le variabili si influenzino fra di loro, e i confronti fra i gruppi.
Grazie a questi dati, possiamo affermare con un certo grado di confidenza che l’ottimismo nei confronti dei percorsi di cura e la soddisfazione sul lavoro siano due elementi che spesso vanno di pari passo, alimentandosi a vicenda. La soddisfazione sul lavoro correlava in modo positivo anche con la salute fisica degli operatori e con la qualità dei loro ambienti di vita. In questo dato possiamo individuare uno schema ben preciso, relativo al riconoscimento dell’importanza degli spazi e della loro delimitazione. Le Comunità Terapeutiche Democratiche promuovono delle modalità di interazione che garantiscono una definizione molto chiara degli ambienti e dei tempi, come anche una loro riorganizzazione a seconda delle esigenze di ciascuno. Nei community meeting e nelle sedute di gruppanalisi, per esempio, l’attenzione si rivolge anche agli operatori; questo è fondamentale, perché in parte ribalta la prospettiva su ciò che determina dei buoni livelli di soddisfazione sul lavoro. potremmo argomentare che questi rilievi semplifichino anche ciò che istintivamente consideriamo una Buona Pratica Clinica, e cioè non “ciò che fa stare bene l’utente” ma “ciò che fa stare bene”. L’ottimismo terapeutico ha però mostrato anche un’altra correlazione, questa volta inversa, con i valori di stigma interiorizzato: giudicare con oggettività, senza preconcetti, permette quindi di approcciare la recovery con delle aspettative migliori.
I livelli di stigma si sono dimostrati l’elemento più influenzato dall’ambiente e dal modello di lavoro: se infatti nelle strutture con modelli più recovery-oriented i livelli erano bassi, in quelle “alternative” (prevalentemente RSA) risultavano significativamente più elevati, in linea con quelli della popolazione generale. Questo potrebbe spiegarsi con un bias di selezione “a monte” (e cioè, ammettendo che gli operatori con i minori livelli di stigma scelgano di lavorare in strutture con modelli di lavoro più orientati alla recovery), probabilmente da leggere insieme al dato sul minor tempo di lavoro in struttura. Sicuramente, solleva delle questioni rilevanti circa lo stigma in una categoria professionale che lavora costantemente per intercettarlo e contrastarlo. Lo stigma interiorizzato, spesso inconsapevole, può essere un elemento prognostico sfavorevole per la riuscita dei percorsi coordinati dagli operatori, andando ad influire direttamente sulle loro prospettive nei confronti dell’utente e delle sue risorse: la capacitazione dev’essere scevra da ogni giudizio, anzi sostenuta da ragionevoli quote di ottimismo. Oltre che l’adozione di modelli di cura recovery-oriented, un altro spunto per ridurre lo stigma lo troviamo nella heatmap: negli operatori con un elevato grado di soddisfazione nelle relazioni sociali, lo stigma interiorizzato era più ridotto. È intuibile come questo effetto sia amplificato nelle CTD, in cui viene promosso il riconoscimento dell’altro, di ciascun altro.
L’ultimo dato su cui è necessario soffermarsi è quello relativo al WHO-QoL bref e alle caratteristiche del campione: per la valutazione non sono state usate scale di psicopatologia classica, non trattandosi di uno studio clinico; in virtù di questo, non ci si aspettava di rilevare livelli di psicopatologia elevati. In effetti, solo 2 dei soggetti hanno riportato di soffrire o di aver sofferto di qualche patologia psichiatrica; tuttavia, come già evidenziato nei risultati, i livelli di “disagio psicologico” alla sottoscala del WHO-QoL bref sulla salute psicologica ricadevano nella fascia bassa del range di valori. Questo non è da ascrivere né ad un bias di autoselezione, né ad una tendenza all’over-reporting (Castellini et al., 2024); la dimensione psicologica è quella più attendibile fra i vari sottodomini del WHO-QoL bref (secondo lo studio di validazione de Girolamo et al., 2000). Nonostante solo due degli intervistati avessero una storia personale di malattia psicologica, la media dei valori indicava che tutti serbassero delle quote consistenti di sofferenza psichica, a prescindere dalla struttura di provenienza. Questo può essere - come anche gli altri rilievi - un dato legato al carotaggio di dimensioni limitate, ma va certamente indagato più a fondo: è difficile pretendere che gli operatori della salute mentale nutrano delle aspettative positive nei confronti della recovery e dei processi di cura, quando loro stessi soffrono di quote significative di disagio psicologico.
Limitazioni e prospettive future
Vista la ridotta numerosità del campione, i risultati riportati hanno una rappresentatività relativa; sarebbe auspicabile estendere a tutta la regione Toscana, o anche al di fuori della regione, il modello di indagine proposto dal presente studio.
Sarebbe inoltre interessante estendere l’analisi a strutture con un’intensità di cura maggiore (non sono state incluse SRP1 per mancanza delle stesse sul territorio pratese, nonostante sia dimostrato come il modello delle CTD possa applicarsi con buoni esiti anche in quei contesti (Lucii et al., 2024) e modelli abitativi supportati alternativi, come per esempio l’Abitare Supportato e la semiresidenzialità. Vista la scarsa eterogeneità del campione non è quindi stato possibile valutare se il tipo di SRP e la relativa intensità di cura fossero dei buoni predittori del “clima” lavorativo in struttura. Non sono state coinvolte Comunità Terapeutiche per le dipendenze, né strutture legate al Sociale o afferenti alla Neuropsichiatria Infantile.
Per verificare se il dato più significativo dello studio (quello relativo allo stigma) sia da attribuirsi all’effetto del lavoro in struttura, o a una disposizione personale dell’operatore, che sceglie consapevolmente di andare a lavorare in un determinato ambiente piuttosto che in un altro, sarebbe utile effettuare delle valutazioni pre-post su un campione simile.
Un obiettivo più ambizioso sarebbe quello di correlare la prospettiva degli operatori con altre variabili relative agli utenti: e’ già noto da tempo che le aspettative degli operatori possano giocare un ruolo fondamentale negli esiti dei percorsi (Linn et al., 1985): questo dovrebbe essere il punto di arrivo ideale. In particolare, sarebbe interessante effettuare valutazioni longitudinali - e non trasversali - atte a determinare se l’adozione del modello delle CTD possa contribuire a ridurre i tempi di permanenza in struttura degli utenti, uno dei dati più negativi di questo lavoro. Gli outcome di maggiore interesse sarebbero quelli relativi alla permanenza protratta in struttura, come anche alla destinazione post-residenziale degli utenti, alle misure di ri-socializzazione e ovviamente di psicometria.
Conclusioni
Il presente studio offre un'analisi preliminare della prospettiva degli operatori delle SRP in un contesto riorganizzato dopo le restrizioni imposte dalla pandemia da SARS-CoV-2; la tesi secondo cui l’adozione di un modello di cura basato sulle Buone Pratiche Cliniche - quello delle Comunità Terapeutiche Democratiche (CTD) - esiti in un approccio migliore da parte dell’operatore non ha trovato piena conferma, ma sono emersi spunti incoraggianti e valevoli di approfondimento: Le CTD si distinguono per un maggiore utilizzo di strumenti come i Patti di Coabitazione e per una gestione degli spazi e dei tempi che facilita interazioni positive e sostiene la soddisfazione lavorativa. Questo approccio valorizza il benessere degli operatori come elemento essenziale, evidenziando una correlazione positiva tra la soddisfazione lavorativa, l’ottimismo terapeutico e la qualità dell’ambiente di vita.
Con un campione di 31 operatori della salute mentale, abbiamo potuto esplorare l'impatto di vari fattori, incluse le caratteristiche delle strutture e le attitudini degli operatori, sulla qualità della vita e sulle pratiche di recovery all'interno di queste realtà. Parallelamente, il disagio psicologico riscontrato tra gli operatori, nonostante l’assenza di patologie psichiatriche manifeste, sottolinea la necessità di considerare il benessere psicologico del personale come una priorità, per garantire la piena efficacia dei percorsi di cura. Questi dati suggeriscono che il supporto agli operatori e l’attenzione al loro ambiente relazionale siano aspetti centrali per migliorare la qualità complessiva dei servizi di salute mentale.
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