Lavorare coi gruppi
Autori
Ricevuto il 05 gennaio 2025; accettato il 31 gennaio 2025
Riassunto
Il presente lavoro propone nell’attuale contesto di carenza di risorse, soprattutto umane, dei servizi sanitari italiani segnatamente quelli di salute mentale, un approccio radicale all’utilizzo dei gruppi di terapia da estendere a tutti i livelli di assistenza dei Dipartimenti Salute Mentale. Dopo aver sinteticamente illustrato la situazione attuale e aver ripercorso l’origine dei gruppi di terapia, fornisce la classificazione delle tipologie dei gruppi, mette a disposizione del lettore indicazioni pratiche su come si costituisce un gruppo, come e chi può condurlo, come iniziarlo, per quale durata e come portarlo a termine. Prende posizione per programmi a termine che evitino la cronicizzazione dei percorsi terapeutici e la neo-istiuzionalizzazione dei servizi.
Abstract
This work proposes, in the current context of lack of resources, especially human, of Italian Health Services, in particular Mental Health ones, a radical approach to the use of therapy groups to be extended to all levels of assistance of the Mental Health Department. After having briefly illustrated the current situation and having retraced the origins of therapy groups, it provides the classification of the types of groups, provides the reader with practical indications on how a group is constituted, how and who can lead it, how to start it, to what duration and how to complete it. It takes a stand for long-term programs that avoid the chronicity of therapeutic paths and the neo-institutionalization of services.
1. 1. Il contesto attuale
Per quanto il tema della “gruppalità” e del suo uso terapeutico è più o meno costantemente presente nelle discipline psi (psicologia, psichiatria, neuropsichiatria infantile ecc.), esso assume una particolare preminenza con l’affermarsi dei servizi di salute mentale di comunità nell’epoca del superamento delle grandi istituzioni totali (il manicomio in primo luogo, ma anche gli orfanotrofi e quelle dell’infanzia) e con il diffondersi massivo dei problemi psicologici e psicopatologici. Si pone la necessità di intervenire su una dimensione sociale di vasta scala, tenuto conto che tali problemi sono sempre più diffusi nella comunità generale e trasversalmente in tutti i gruppi sociali, anche se segnatamente in quelli subalterni. Dopo la pandemia da Covid 19 siamo passati da una prevalenza cospicua (tutti i casi presenti nella comunità indipendentemente dal fatto che ricevano un trattamento o meno) del 35% nel passaggio tra i due millenni (Goldberg D., Huxley PJ., 1980; Kessler R.C., 2014) all’attuale 42% della popolazione (Whang C. et al., 2019). La necessità di utilizzare il gruppo come principale strumento di trattamento era presente fin dagli anni Novanta con un crescente treatment gap (si pensi ai disturbi emotivi comuni: ansia e depressione), quando l’utenza in carico ai servizi di salute mentale poteva arrivare al 2,5% della popolazione generale, sicuramente per il DSM di Grosseto e nella generalità dei servizi di salute mentale toscani (Corlito G., 2006). Tale necessità si pone drammaticamente oggi in un periodo di de-finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale e di scarsità delle risorse, soprattutto di personale qualificato e specializzato, cioè dell’impossibilità della presa in carico di una frazione consistente della prevalenza cospicua delle persone con problemi di salute mentale. E’ prevedibile che ci vorranno almeno dieci anni per tentare di risolvere questo problema, se venissero prese oggi decisioni conseguenti atte a invertire la tendenza in atto (finanziamento adeguato del SSN e parallela riduzione dei “blocchi curriculari” nella formazione del personale specializzato medico e non medico). Oggi in Italia l’utenza “presa in carico” dai servizi è in media l’1,2/1,5% della popolazione e la percentuale dei finanziamenti allocati per la salute mentale (tutto compreso, infanzia, adolescenza ed età adulta) è in media il 3% dell’intero budget sanitario, una percentuale equiparabile a quella dei paesi del “terzo mondo”, spaventosamente distanze dal 10% dei paesi sviluppati, il cosiddetto “primo mondo” (dati SIEP, Starace F., Giovinazzi, F., 2023). Se ne deduce che per massimizzare le risorse disponibili ogni operatore dei servizi di salute mentale dovrebbe essere tecnicamente attrezzato a utilizzare lo strumento del “gruppo” indipendentemente dall’appartenenza alla propria categoria professionale e dalla diversa tipologia formativa, predisponendo adeguati percorsi per superare la ridotta preparazione nel campo delle tecniche gruppali. Inoltre in ogni struttura o livello essenziale di assistenza del DSM (CSM, CD, SR, SPDC) dovrebbe essere privilegiato l’intervento gruppale. Ciò implica un approccio radicale all’utilizzo del gruppo. A questo andrebbe associata una particolare attenzione alla pratica della collaborative care, raccomandata dall’OMS nel setting della medicina di base (o di famiglia), a cui inevitabilmente in un servizio di tipo ancora universalistico si rivolge la totalità degli utenti con problemi di salute mentale (WHO, 2023).
1. 2. L’origine dei gruppi di terapia
Non casualmente l’origine storica dei gruppi a fini terapeutici, sviluppatesi in primo luogo nell’ambito delle correnti psicoanalitiche, risale a un’epoca relativamente recente, quella intorno alla seconda guerra mondiale, quando la medicina militare e la psichiatria al suo interno (la psicologia era ancora considerata una parte della filosofia e quella psicologia scientificamente fondata era nella sua fase inziale) dovette fronteggiare i problemi psichici di una massa di soldati tornati dal fronte con problemi che oggi definiremmo “post-traumatici”. In particolare in Inghilterra un gruppo di psichiatri, poco numeroso e di formazione psicoanalitica, si trovò a gestire enormi ospedali militari e a cercare di capirne la dinamica istituzionale (fra l’altro fu anche l’inizio del processo di superamento dei manicomi, troppo simili alla logica del lager nazisti e fascisti contro cui si era combattuta la seconda guerra mondiale). Fu inevitabile scegliere l’intervento di gruppo. Si legga in proposito il libro Esperienza nei gruppi di W. R. Bion (1952, edizione italiana 1971), uno dei teorici della psicoanalisi e uno dei fondatori della gruppo-analisi, cioè la psicoanalisi applicata ai gruppi. Il libro parte proprio dalla descrizione dell’esperienza in uno di questi ospedali militari. Nasce così la gestione degli ospedali psichiatrici come comunità terapeutica, fondata sull’idea che è la comunità di per sè a funzionare come terapia (ricordiamo la ricerca “seminale” Community as doctor, condotta da Rapoport sull’esperienza di comunità terapeutica del suo “inventore” Maxwell Jones nel 1960). L’ospedale gestito in forma comunitaria si configurava come un sistema dinamico, che combinava il grande gruppo e il piccolo gruppo. Nell’ospedale militare di Norfolk (nell’esperienza di Bion), in quello di Gorizia e di Trieste (nell’esperienza di Basaglia) e in quello di Arezzo o di Perugia si alternavano i grandi gruppi dell’assemblea generale dell’ospedale o di reparto con i piccoli gruppi (gruppi di discussione, di attività o altro). Questi ultimi erano “gruppi di base”, con un contenuto pratico, che coadiuvava la gestione attiva dei pazienti, cioè li faceva uscire dall’isolamento manicomiale e ne favoriva la socializzazione. Nella sua versione originaria la comunità terapeutica non solo ha la “democratizzazione” come asse portante della gestione collettiva dei processi decisioniali, ma soprattutto porta in sé l’idea che il gruppo ha una capacità “terapeutica” trasformativa più intesa di altre forme psicoterapiche “tradizionali”, affidate al rapporto individuale “terapista-paziente”, esemplato sull’antica relazione medico-paziente. Dobbiamo ricordare in proposito come il gruppo sia in grado di indurre processi trasformativi fuori della portata delle terapie individuali (in particolare per le condotte legate alla “coazione a ripetere” degli stili di vita dannosi: alcol, fumo, droga, alimentazione, azzardo, tecnologie elettroniche ecc. e al sottostante circuito neuropsicologico della ricompensa, Corlito, 2020).
1. 3. Grandi e piccoli gruppi ed altre classificazioni
La grande distinzione su basi quantitative tra il piccolo gruppo e il grande gruppo è basata empiricamente sul limite numerico dei 12 componenti (cfr. V. Hudolin, Manuale di alcologia, ed. critica, 2015, che contiene una storia del concetto di comunità terapeutica e a quello conseguente dei gruppi di auto-mutuo-aiuto a opera di uno dei pionieri del settore). Il limite è confermato dalla personale esperienza dell’autore di questo articolo. Alcuni autori allargano la forbice da 10 a 20 membri (cfr. Sciacca F., Università di Catania, cfr. https://www.disfor.unict.it). Oltre tale soglia cambia la dinamica del gruppo (per quanto gradualmente), che nel caso del grande gruppo richiede inevitabilmente la presenza di un conduttore capace di dirigere l’assemblea che si viene a creare. L’assemblea della comunità è per sua natura aperta, formata da uno strato di persone stabili (un terzo), uno di persone che stanno per uscire dalla comunità (un altro terzo) e un altro che è appena entrato (l’ultimo terzo). Quindi il grande gruppo per sua natura è un insieme aperto. I piccoli gruppi, in particolare quelli con un esplicita finalità terapeutica (che può essere diversa a seconda della tecnica psicoterapeutica utilizzata), tendono ad essere chiusi, cioè i membri vengono accolti fino al numero di 12 e poi continuano a lavorare sulle relazioni tra i membri, a meno che non assumano la dinamica dei gruppi di auto-mutuo-aiuto, i quali per propria definizione e natura sono centrati sul nuovo membro appena entrato “da aiutare” in base alla regola “chi aiuta gli altri aiuta se stesso” (è la regola aurea scoperta dai due fondatori dell’Anonima Alcolisti, Bill e Bob).
Ci sono, poi, altre possibili classificazioni. Utile ad esempio, anche se con qualche limite interno, quella proposta da J.Ondarza Linares (1999), che distingue:
- Gruppi di attività, orientati in senso riabilitativo, centrati su una attività concreta da svolgere insieme (lettura, musica, canto, cinema ecc.);
- Gruppi terapeutici propriamente detti, indicati in ogni caso in cui la malattia condiziona o rinforza nei pazienti una situazione di isolamento e non comunicazione; possono essere centrati su una attività comune come quelli del gruppo a), ma soprattutto si identificano con i gruppi di discussione su un tema specifico;
- Psicoterapia di gruppo vera e propria, che cambia a secondo l’orientamento psicoterapico di riferimento. A questi vanno aggiunti in epoca più recente:
- Gruppi psico-educazionali, che fungono da gruppi di insegnamento e apprendimento di strumenti di sicura efficacia nel trattamento dei disturbi psichici;
- Gruppi multifamilari, che sono gruppi prevalentemente a orientamento psico-educazionale o anche psicoanalitico o sistemico-relazionale rivolti a più famiglie trattate contestualmente insieme.
1. 4. Come costituire un gruppo di terapia.
Occorre decidere prioritariamente il contenuto del gruppo, cioè il tema di cui il gruppo si occuperà. Pensiamo ad esempio i disturbi emotivi comuni: l’ansia e la depressione. Essi incidono pesantemente sul carico epidemiologico di qualsiasi servizio di comunità. Vi sono numerosi esempi di questo tipo di gruppo, per esempio quelli di trattamento non farmacologico dell’ansia in base alle modalità terapeutiche di Gavin Andrews (2003), in particolare il disturbo da attacchi di panico. Il protocollo messo a punto da Andrews si struttura secondo sette punti (psicoeducazione, monitoraggio del panico, tecniche di gestione dell’ansia, in particolare la respirazione lenta e il rilassamento muscolare progressivo, ristrutturazione cognitiva, esposizione graduale alle situazioni ansiogene, esposizione graduale alle sensazioni fisiche, prevenzione delle ricadute) ed è stato pensato principalmente per il trattamento di gruppo. Abbiamo a suo tempo svolto una indagine di valutazione dell’esperienza di applicazione del trattamento di gruppo nel contesto del DSM di Grosseto, ottenendo risultati analoghi (Lussetti M., Corlito G., 2003). Essi permettono il trattamento su larga scala dei disturbi d’ansia con buoni risultati in un numero limitato di sedute (10-12) e sono condotti meglio da psichiatri o psicologi, ma possono essere condotti anche fa infermieri ed educatori specificamente formati e supervisionati (cfr. fig.1).
Nella casistica del servizio vengono scelti 10-12 pazienti con un disturbo d’ansia, meglio se omogenei dal punto di vista diagnostico (ad es. disturbo da attacco di panico) o l’ipotesi di trattamento viene proposta nel setting della medicina di base. L’operatore di riferimento (psichiatra o psicologo), che ha effettuato la prima visita di assessment diagnostico segnala il caso a chi condurrà il gruppo. Ottenuta l’adesione individuale al gruppo durante la prima riunione, si spiega il contenuto, cioè come si svolgerà il trattamento. Si procede quindi con una serie di sedute di gruppo, che ad es. nel caso dell’attacco di panico sono manualizzate, cioè standardizzabili (cfr. figura 1 con diagramma di flusso). Il gruppo è a termine (e in generale tutti dovrebbero esserlo), prevedendo o la risoluzione del problema o il passaggio a tecniche di trattamento più sofisticate o nel caso dei pazienti che tendono a recidivare e ad “attaccarsi” sine die al servizio, di essere orientati a un gruppo di auto-mutuo-aiuto facilitato da operatori di base o anche da volontari preparati specificamente.
Approcci di questo tipo si sono diffusi in alcune regioni italiane, soprattutto grazie all’opera di divulgazione di Ian Falloon ( 1993) (Lombardia, Friuli, Toscana, Università de L’Aquila).
1. 5. Condurre un gruppo di terapia: problemi di comunicazione
Il gruppo deve essere condotto da un operatore qualificato per le tecniche psicoterapeutiche formalizzate (psicoanalitiche, sistemico-relazionali, cognitivo-comportamentali o anche psicoeducazionali, le quali ultime non sono per definizione psicoterapeutiche). Il conduttore del gruppo deve essere chiaramente identificato. E’ meglio evitare la co-terapia, cioè due terapeuti investiti dello stesso ruolo. La co-terapia, che implica la coesistenza di formazioni, personalità, abilità e competenze diverse, è un’esperienza tra le più complesse, che implica un lungo lavoro di affiatamento e di affiancamento che non si può improvvisare. Il conduttore deve saper alternare capacità di ascolto (e quindi di tolleranza del silenzio) e capacità di intervento. La modalità di comunicazione preferibile è quella circolare che prevede la libera circolazione della comunicazione, in cui bisogna fare attenzione a mantenere la fluidità (sollecitando i “silenziosi” e calmierando i “logorroici”), permettendo a tutti uno spazio di verbalizzazione spontanea. Il rischio principale è la comunicazione “stellare”, cioè quella centralizzata sul conduttore, che interviene su qualunque comunicazione dei partecipanti.
1. 6. Chi può condurre un gruppo
Occorre essere chiari. Al di là della regolamentazione legale italiana per cui può esercitare la psicoterapia solo chi è iscritto al relativo albo professionale (a differenza di quanto scelto in maniera più pragmatica dal Sistema Sanitario britannico per agevolare l’accesso di un più vasto numero di utenti al trattamento psicoterapeutico, tenuto conto della limitata efficacia degli interventi farmacologici, soprattutto per la depressione, cfr. LSE, 2006), occorre ripensare alla ”funzione psicoterapica del servizio di salute mentale” (cfr. Corlito G., Barnà C. et al., 1990), attrezzando il livello “uno” di interventi di base, manualizzati e standardizzati come quelli psicoeducazionali, che possono essere affidati anche agli operatori “di base” e lasciando il livello “due” a psicoterapeuti con formazione specialistica. Gli interventi psico-educazionali per loro natura – come attesta lo stesso nome - non sono psicoterapici in senso stretto e quindi possono essere affidati a operatori di base specificamente formati e supervisionati stabilmente. Viceversa il livello “due”, cioè i gruppi di psicoterapia vera e propria, devono essere affidati al personale specializzato (psichiatri e psicologi).
1. 7. Inizio, durata e fine di un gruppo di terapia (trattamenti a termine)
A mio avviso i gruppi – come tutti gli interventi dei servizi di salute mentale - devono essere a termine, cioè prevedere sempre una dimissione. Certi trattamenti di manutenzione soprattutto farmacologici con controlli periodici (Schneider P.B., 1986) ad andamento cronico sine die nei servizi configurano una sorta di “parentalizzazione” senza emancipazione nel caso migliore e una “manicomializzazione” fuori dal tempo nel caso peggiore. È come portare periodicamente una macchina dal meccanico a fare il tagliando. L’esempio volutamente “meccanico” vuol sottolineare l’intervento di fatto disumanizzante. Anche per i cittadini-utenti più compromessi, che “inevitabilmente” si accumulano nei servizi (essi sono paragonabili almeno alla lontana al “fondaccio del manicomio” come si diceva in gergo istituzionale, cioè al gruppo di lungodegenti che si sedimentavano a vita nelle istituzioni totali, caratterizzati dalle classiche cartelle con notazioni annuali o peggio pluriennali e soprattutto dalla totale privazione dell’autonomia e della libertà individuale), vanno previsti programmi di trattamento (quali essi siano) per “obbiettivi” monitorabili, anche ripetibili nel corso degli anni, ma che cominciano e finiscono tutte le volte a dare significato al tempo che scorre. Anche i programmi di trattamento farmacologico a lungo termine, tipici di percorsi di “parentalizzazione” dei cittadini-utenti in particolare psicotici o con disturbi della personalità pervasivi, devono prevedere periodi più o meno lunghi di “drug holiday”, intesa anche come strategia per fronteggiare l’insorgenza di effetti collaterali invalidanti (Rothschild A.J., 1995). Se si vuole costruire una cultura del servizio, emancipata dalla cronicizzazione tipica della cultura manicomiale (“neo-istituzionalizzazione”, cfr. Piccione R., 2004), bisogna prevedere programmi di trattamento sempre a termine, cioè che cominciano e finiscono, i quali al bisogno possono ripetersi cambiando in base alle necessità del cittadino-utente. Questa logica vale a maggior ragione per gli interventi di gruppo psicoterapici o psico-educazionali.
Come nel diagramma di cui alla fig.1 i gruppi devono avere un inizio, una durata e una fine “predefinita”, contro ogni logica di “cronificazione”, fasi che devono essere pattuite di volta in volta a seconda del problema trattato.
La fase di inizio è dedicata alla “selezione” del gruppo, con il reclutamento dei partecipanti fino alle 12 unità, la seconda fase è quella di trattamento con un numero di sedute standard predefinito e pattuito in base ai protocolli di trattamento, l’ultima fase è quella della fine del gruppo e della dimissione dal servizio, se si è raggiunto l’obbiettivo della soluzione del problema, oppure l’avvio ad un ulteriore programma più mirato (ma sempre con un inizio e una fine) oppure l’avvio a un gruppo di auto-mutuo-aiuto con una facilitazione a lungo termine e in linea di massima emancipato e distinto dal servizio (anche per sede, che dovrebbe essere collocata nella “normale” rete sociale). Questa fase finale dovrebbe essere caratterizzata dalla discussione sui sistemi di individuazione precoce dei segnali di ricaduta e della loro prevenzione (Falloon I., 1993) e dall’indicazione dei possibili e più idonei percorsi successivi.
1. 8. Conclusioni
Il lavoro presenta una serie di considerazioni eminentemente pratiche, che però riposano su svariate evidenze scientifiche, tratte dall’esperienza pluridecennale di chi scrive. Esse depongono a favore dell’utilizzo “radicale” del trattamento di gruppo nel contesto dei servizi di salute mentale di comunità come indicazione di ordine generale al fine di ridurre il treatment gap rispetto alla crescita del peso epidemiologico dei disturbi psichici e nel particolare contesto attuale caratterizzato dalla carenza di risorse umane. Questa situazione comporta il rischio – del resto ampiamente corso - di un nuovo abbandono dei cittadini-utenti dei servizi di salute mentale, che per ragioni economiche non possono accedere a trattamenti in ambito privato, soprattutto di tipo psicoterapico, di un abnorme ricorso alla terapie farmacologiche e di una massiva neo-istituzionalizzazione della stessa rete dei servizi. L’orizzonte strategico del discorso è quello di un nuovo servizio di salute mentale di comunità con un ridotto gradiente di istituzionalizzazione, volto alla presa in carico a termine dei cittadini-utenti e atto a favorirne l’autonomia e l’emancipazione (Corlito G., 2011, Barnà C.A., Corlito G. 2011).
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