Volume 20 - 3 Giugno 2020

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Verso un’ecologia sociale degli stili di vita

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Riassunto

L’articolo sostiene che il circuito della ricompensa in campo neuro scientifico e il concetto di continuum in campo clinico-diagnostico sono isomorfi e possono sostenere una ipotesi teorica unitaria ecologico-sociale di tutti gli stili di vita (fumo, alcol, sedentarietà, cattiva alimentazione, azzardo, uso delle tecnologie informatiche ecc.), intesi come comportamenti ripetitivi o “additivi” socialmente accettati indipendentemente dalle conseguenze positive o negative sulla salute bio-psico-sociale dell’individuo. Gli stessi disturbi psichici potrebbero essere in rapporto con specifici stili di vita in base ad una causalità circolare, in particolare la depressione. Ovviamente ulteriori ricerche sono necessarie in questa direzione, è consigliabile rilevare routinariamente nella storia clinica di ogni persona con un problema psichico quale è lo specifico stile di vita. Ciò è oggi particolarmente necessario stante l’attuale infezione da COVID19, rispetto al quale alcuni stili di vita giocano un ruolo favorente.


Abstract

The article claims that the reward circuit in the neuro-scientific field and the concept of continuum in the clinical-diagnostic field are isomorphic and can support a unitary ecological-social theoretical hypothesis of all lifestyles (smoking, alcohol, sedentary lifestyle, bad nutrition , hazard, use of information technology etc.), understood as socially accepted repetitive or "additive" behaviors regardless of the positive or negative consequences on the bio-psycho-social health of the individual. The same mental disorders could be related to specific lifestyles based on a circular causality, in particular depression. Obviously further research is needed in this direction, it is advisable to routinely detect in the clinical history of each person with a psychic problem which is the specific lifestyle. This is particularly necessary today given the current COVID19 infection, with respect to which some lifestyles play a favorable role.


1. Premessa

Gli stili di vita hanno un ruolo centrale nel campo sanitario e in particolare in quello della salute mentale. Essi sono fondamentali per porre coi piedi per terra la prevenzione come approccio ecologico, cioè legata all’equilibrio dei determinanti di salute in una data comunità. L’idea ecologico-sociale, che qui viene sostenuta, è che i problemi socio-sanitari di una comunità sono determinati dai disequilibri delle reti informali (le famiglie e i gruppi sociali di appartenenza), delle reti formali (i servizi e le istituzioni) e la rete semiformale, intermedia tra le due precedenti, con i suoi livelli organizzati (volontariato, gruppi di auto-mutuo-aiuto, comunità multifamiliari come i Club Alcologici Territoriali) (1) (Fig. 1).

figura 1

La Regione Toscana nella scelta di applicare il modello di Wagner (2) per affrontare le patologie non trasmissibili propose l’Expanded Cronic Care Model (3, 4), che poneva alla base della piramide la prevenzione intesa come promozione della salute della popolazione generale attraverso un programma di diffusione di stili di vita sani. Purtroppo nell’implementazione di tale modello la politica regionale non è stata conseguente. Il problema si ripropone drammaticamente oggi sotto la sferza della pandemia da COVID19 in quanto stili di vita dannosi come il fumo di tabacco e l’uso di bevande alcoliche con i danni conseguenti a livello polmonare in primo luogo, ma anche degli altri sistemi (cardio-circolatorio e cerebrale), funzionano come fattori determinanti il contagio e la sua evoluzione letale in individui con tali patologie correlate. Con questo faremo i conti quando potremo trarre il bilancio di questa catastrofe alla fine della pandemia.

A fondamento di questa impostazione sta un modello epidemiologico quantitativo dimostrato da Dever già nel 1976 (5), ancora in corso di verifica, che mostrava come il 90% della spesa sanitaria è investita nei sistemi sanitari per ottenere solo il controllo dell’11% della mortalità, mentre gli stili di vita determinano il 47% di tale controllo a fronte di un investimento economico pari all’1,5% del totale (Fig. 2). È evidente come un sistema simile non sia eco-compatibile.

figura 2

Oggi l’avanzamento delle conoscenze sopratt utto in campo neuro-scientifico apre la strada per porre le basi di una teoria unitaria degli stili di vita, che deve trovare le sue conferme sperimentali e una sua adeguata strutturazione.


2. Avanzamenti nel campo delle neuroscienze

Lo sviluppo delle neuroscienze nei primi due decenni del nuovo millennio ha dato un solido fondamento all’approccio ecologico-sociale, di cui in premessa. Due sono i punti di avanzamento convergenti. Il primo viene direttamente dalle neuro-scienze con la scoperta del “circuito della ricompensa”, il secondo viene dalla riflessione clinico-diagnostica internazionale con la formulazione del concetto di continuum. Di tali avanzamenti abbiamo dato puntuale informazione su questa rivista (6). Per circuito della ricompensa si intende il circuito neuronale, che mette in relazione alcune strutture cerebrali del talamo, che presiedono alle emozioni, al piacere e alla motivazione, intorno al nucleo accumbens, il quale è attivato dalle esperienze piacevoli, che producono una scarica di dopamina (Fig. 3). Il nucleo accumbens conserva traccia di tale esperienze e spinge a riprodurle. Ogni condotta, che comporta una gratificazione, attiva un meccanismo neuro-chimico, che produce la sua ripetizione ed innesca circuiti che una volta attivati sono necessitati a ripetersi (7). Più si ripete l’esperienza piacevole più l’individuo è portato a ripercorrerla, in un rinforzo positivo fino al limite più estremo. Va sottolineato che i circuiti dopaminergici della ricompensa non contraddistinguono solo i comportamenti di ricerca del piacere legati a stili di vita dannosi (fumo, alcol, azzardo ecc.), ma anche quelli che promuovono la costituzione di abitudini positive per la nostra salute (un’attività motoria, una corretta alimentazione etc.) (8,9). Questa scoperta rigetta completamente il concetto impreciso di “dipendenza”. L’ipotesi forte, sottesa al concetto medico di dipendenza, era la cosiddetta “fame recettoriale” (10), in base alla quale le sostanze psicotrope, avendo strutture molecolari simili ad alcuni neurotrasmettitori, sarebbero andate ad insediarsi sugli specifici recettori nella membrana neuronale, producendo una loro moltiplicazione, che avrebbe spiegato l’assuefazione, il bisogno di aumentare più o meno velocemente le dosi. Se i recettori fossero rimasti privi della sostanza, si sarebbe verificata la “fame” (cioè l’astinenza). Questa ipotesi spiegava l’appetenza dell’eroina e della cannabis (poiché i loro principi attivi imitano la struttura molecolare delle endorfine e degli endocannabinoidi), ma non ha mai spiegato la “dipendenza dall’alcol”, che non ha recettori specifici sulla membrana neuronale. Gli effetti dell’alcol sul sistema nervoso sono in relazione all’alterazione della struttura lipo-proteica della membrana nel suo complesso piuttosto che di sue sezioni specializzate come i recettori (11). Insistere sul concetto di dipendenza serve solo a spacciarla come una “malattia”, fondata su questa incerta ipotesi neuro-recettoriale, e a distinguere i pochi sprovveduti, che vi cascavano, dai molti che “sapevano” bere moderatamente o, se si vuole, usare “moderatamente” le droghe (o “consapevolmente” come si direbbe oggi). È evidente che questa ipotesi non spiegherebbe le cosiddette “nuove dipendenze” (in primo luogo l’azzardo, ma soprattutto l’uso delle tecnologie informatiche come i pc, Internet, i social , gli smartphone ecc.), dove non ci sono sostanze. Ciò spinge all’abbandono del concetto di dipendenza, di cui ha preso atto il DSM-5 “a causa della sua incerta definizione e della sua connotazione potenzialmente negativa” (12). Quindi l’ipotesi fatta dalle neuroscienze è che le condotte ripetitive o meglio “additive” (come sarebbe preferibile dire in analogia con l’inglese addiction, termine più neutro e suggestivo di un effetto di sommazione) sono un neuro-adattamento del cervello all’uso ripetitivo delle sostanze psicotrope, compreso l’alcol, o anche dei comportamenti sani o insalubri, a secondo delle conseguenze sulla salute, come l’azzardo o in generale ogni stile di vita. Ricordiamo in proposito la definizione di Hudolin (13) che lo stile di vita è un comportamento socialmente accettato indipendentemente dalle sue conseguenze negative o positive. Inoltre Hudolin ha sempre avversato l’uso del termine “dipendenza” proprio per il suo incerto fondamento scientifico.

figura 3

Potremmo dire che questa è la base neurofisiologica non conosciuta da Freud, ma che spiega il suo concetto di “coazione a ripetere”, cioè l’obbligo o la “compulsione” a ripetere una determinata condotta anche se è dannosa (“compulsione” qui non è sinonimo di “patologico” come nel linguaggio nosografico attuale, indica solo una spinta motivazionale più o meno potente). Infatti per Freud la “coazione a ripetere … procede dai moti pulsionali … dipende probabilmente dalla natura più intima delle pulsioni stesse” (14) ed essa riguarda sia la patologia, cioè la nevrosi, che la normalità, cioè “persone [che] non hanno mai mostrato i segni di un conflitto nevrotico” (15). Le assonanze con quanto abbiamo visto sono notevoli. Fra l’altro nelle Opere di Freud (16) non compare mai il termine “dipendenza”.


3. Il concetto di continuum

Parallelamente, soprattutto e non a caso in campo psichiatrico, è stato messo in crisi il modello clinico-diagnostico “categoriale”, fondato su categorie rigidamente separate, a favore di un modello “dimensionale”. Ovviamente gli umani sono refrattari ai rigidi inquadramenti perché le differenze individuali tra loro tendono a sfumare secondo l’antico adagio che natura non facit saltus (17). Tra le condotte “sane” o prive di rischi e quelle che comportano problemi gravi per la salute esiste un lento gradiente che sfuma dal problema lieve a quello moderato fino al grave. Parallelamente in campo alcologico col nuovo millennio si profila un cambio di paradigma (18), basato sul concetto di continuum, che mette in crisi il paradigma dicotomico più antico, che separa nettamente tra “bere moderato”, fonte di piacere, socialmente tutelato, e “l’alcolismo”, un vizio morale, un peccato o in termini più moderni una malattia. Hudolin (13) ha dedicato tra i primi il suo lavoro a dimostrare che i problemi alcol-correlati si sviluppano lungo una continuità dai più piccoli ai più rilevanti. Il concetto è stato ripreso dalla psicologia, dove indica variabili, i cui valori possono essere mutati con incrementi infinitesimali (particolarmente usato in psicofisica, dove sia gli stimoli sia le sensazioni sono variabili con tali caratteristiche); ma è stato usato anche in sociologia (il continuum rurale-urbano) e in fisica (il continuum spazio-temporale). Via via è stato accolto nella letteratura scientifica, proprio a partire dal campo alcologico (19), fino alla netta presa di posizione del DSM-5 (12), lungo lo sviluppo di un discorso nosografico che parte dalla terza edizione e segna il passaggio da una posizione categoriale ad una dimensionale. Il DSM 5 parla in generale di “uso delle sostanze” e anche di “disturbo da uso dell’alcol”, classificato lungo il gradiente di “lieve”, “moderato” e “grave”. Tale modello del continuum è applicabile a tutti gli stili di vita ed è intuitivo come esso sia omogeneo e “isomorfo” a quanto abbiamo detto sul circuito della ricompensa: ad ogni nuovo “giro” del circuito la ricompensa gradualmente rinforza la condotta.


4. Un’ipotesi teorica unitaria

Il circuito della ricompensa e il concetto di continuum sono tra loro isomorfi e si sostengono uno con l’altro. Gli incrementi infinitesimali, che gradualmente dispiega il continuum di uno stile di vita come di qualsiasi condotta addittiva, potrebbero trovare spiegazione nei singoli e continui “passaggi” nel circuito della ricompensa, che determinano il ripetersi di increzioni di dopamina e quindi la motivazione (la pulsione, per usare il linguaggio freudiano) a ripetere quel comportamento. Questo potrebbe essere il fondamento neuro-scientifico di un’unica teoria, che sottenderebbe tutti gli stili di vita e spiegherebbe come mai l’approccio ecologico-sociale è unitario, cioè può essere applicato a tutte le condotte additive o, se si vuole, in termini non medicalizzati, ad ogni stile di vita e ai problemi connessi. Ad ognuno di essi può essere applicata l’”astinenza”, cioè il cambiamento del comportamento che porta a far a meno della ripetizione dell’azione dannosa, o meglio ancora la “sobrietà”, cioè la scelta di libertà da ogni condizionamento consumistico come sostengono le famiglie che fanno parte dei Club Alcologici Territoriali. Le strutture talamiche, che compongono il circuito della ricompensa, sono in rapporto con la corteccia prefrontale. Questa connessione permette un cambiamento dovuto alla consapevolezza del problema e alla decisione razionale di scegliere per superarlo. Sappiamo bene che l’astinenza (o meglio la sobrietà) è un obbiettivo verso cui tendere ed è difficile da raggiungere: è relativamente più “facile” emanciparsi dall’uso delle bevande alcoliche o anche delle slot machine, più difficile emanciparsi oggi dal cellulare o dalle altre tecnologie informatiche, che ormai informano pervasivamente la nostra vita, oppure più semplicemente dal cibo per assumere una condotta alimentare più salutare. L’approccio astinenziale, quindi, risulta il più semplice, ma anche il più efficace strumento per affrontare un percorso di consapevolezza e di scelta, in cui con lo stesso meccanismo del continuum progressivamente, per così dire alla rovescia, la persona recupera la propria libertà. Oggi più di sempre ci troviamo a dover far fronte ai limiti sociali di questo “strumento”. Del resto questo era già evidente nei processi di emancipazione dalle condotte alcoliche a fronte dell’enorme pressione del contesto sociale verso l’assunzione delle bevande alcoliche.


5. Stili di vita e disturbi psichiatrici

Si sono accumulate evidenze relative al fatto che le persone affette dai disturbi psichiatrici più seri vanno incontro ad una mortalità precoce rispetto al resto della popolazione (20). Una delle ipotesi è che ciò sia dovuto agli stili di vita insalubri, che regolano la loro vita quotidiana, in particolare l’uso del tabacco, ma anche quello dell’alcol, l’alimentazione scorretta e la sedentarietà (21). Tale mortalità precoce non è stata confermata in relazione all’uso degli psicofarmaci (22). In questa specifica popolazione sarebbero accentuate le tendenze già presenti nella popolazione generale con una serie di patologie croniche correlate, in particolare il diabete (23, 24), i disturbi cardio-circolatori (25), la bronco pneumopatia ostruttiva (26). Sono le patologie oggetto della cosiddetta “medicina di iniziativa”, prevista dall’Expanded Chronic Care Model della Regione Toscana già citato in premessa. Purtroppo la Regione Toscana non ha ritenuto utile inserire il disagio psichico e segnatamente la depressione nel proprio modello, nonostante le spinte in questa direzione (27). Le evidenze sono state registrate anche in positivo, ad esempio circa il significato antidepressivo preventivo di una attività motoria regolare, anche moderata (28). Questa notazione induce una domanda ulteriore. Della relazione precedente veniva fornita una spiegazione che il disturbo psichico avrebbe determinato stili di vita dannosi secondo una causalità lineare, ma se gli stili di vita sani possono produrre benessere psichico secondo un’esperienza quotidiana fin dall’adagio latino mens sana in corpore sano si pone anche l’ipotesi di una causalità circolare. Perciò stili di vita insalubri potrebbero produrre disagio psichico e porre le condizioni - insieme ad altri fattori biologici, relazionali e sociali già noti - per l’istaurarsi di un vero disturbo psichico. Questo sarebbe isomorfo con il modello ecologico-sociale del disturbo psichico, posto a fondamento della prevenzione nel campo della salute mentale (29, 30).


6. Esiste uno stile di vita depressivo?

Nell’approccio unitario proposto rimane ostica la “questione psichiatrica”, poiché la psichiatria è un campo disciplinare rigidamente organizzato, in cui prevale ancora il modello medico tradizionale della “malattia”. Nessuno ha mai dimostrato che esiste una causa unicamente biologica dei disturbi psichici (non a caso le classificazioni internazionali parlano di “disorder”, tradotto in italiano come “disturbo”, e non di “illness”, “malattia”), mentre dal punto di vista eziopatogenetico prevale un orientamento multifattoriale bio-psico-sociale (31) o meglio ancora in senso ecologico-sociale (32), per il quale anche il disturbo psichico è frutto dello squilibrio di un insieme di fattori biologici, psicologici e sociali, dove questi ultimi sono prevalenti. Si pensi al modello stress-vulnerabilità di Zubin (33).

Occorre avere il coraggio di estendere la teoria unitaria degli stili di vita anche al campo psichiatrico o meglio alla salute mentale, inteso come campo multidimensionale che va dalla salute ai disturbi psichici lievi, moderati e gravi. Ciò che segue è il tentativo di dimostrare brevemente l’esistenza di uno stile di vita depressivo. Rispetto alle depressioni sappiamo che si collocano lungo un continuum che va dalla tristezza al lutto relativo ad una perdita, al lutto complicato, alla reazione depressiva, alla distimia fino all’episodio depressivo maggiore, lieve, moderato e grave. La distinzione tra queste varie categorie diagnostiche è di tipo quantitativo, cioè sfumano tra loro a seconda dell’intensità dei sintomi. Inoltre sappiamo che una quota di tristezza, di abbassamento del tono dell’umore, è presente anche nella “normalità” a seconda dei ritmi quotidiani, settimanali o stagionali (ad esempio in base all’esposizione alla luce solare, 34). Ci sono sufficienti evidenze che il moto, la corsa, ha un effetto gratificante e antidepressivo (35). Infine nell’ultimo decennio all’antico modello carenziale delle depressioni (come nel diabete è carente l’insulina così nelle depressioni mancherebbe un altro neurotrasmettitore, per cui è necessario intervenire farmacologicamente per migliorare il livello cerebrale di quel neurotrasmettitore), si va sostituendo il modello dello stile di vita delle malattie cardio-circolatorie. I portatori di disturbi cardio-circolatori hanno uno stile di vita caratterizzato da una vita stressante, sedentaria e da una dieta ricca di grassi, così potremmo dire che le persone con un disturbo depressivo hanno uno stile di vita “tipico” con una vita stressante e sedentaria e una dieta ricca di carboidrati e zuccheri (36). Quindi per prevenire e superare un disturbo depressivo non basta l’assunzione di un farmaco antidepressivo efficace. I risultati dello studio di effectiveness STAR*D dimostrano che solo la metà dei pazienti risponde a un primo trial antidepressivo e una percentuale ancora inferiore, intorno al 30%, ottiene la remissione clinica (37). Inoltre lo stesso studio dimostra la progressiva riduzione delle probabilità di risposta al trattamento dopo il secondo trial antidepressivo (38, 39). È stato dimostrato che un intervento teso a modificare lo stile di vita con interventi manualizzati atti a migliorare l’igiene del sonno e dei ritmi sociali, l’esercizio fisico, l’alimentazione (con la riduzione del peso, se necessario) e il controllo del consumo di alcol e di tabacco (se possibile, l’interruzione dell’uso) riduce il numero di ricadute di persone con depressione ricorrente (40). Non sappiamo se è lo stile di vita che produce la depressione o viceversa, è probabile l’ipotizzata casualità circolare. Non è possibile ancora sviluppare pienamente tale ipotesi per gli altri disturbi psichici, ma chi ha esperienza sul campo non dovrebbe trovare difficoltà a descrivere uno stile di vita alimentare, che caratterizza l’anoressia nervosa o la bulimia, e persino in via approssimativa uno stile di vita tipico di chi soffre per un disturbo schizofrenico con il ritiro sociale e la tipica inversione del ritmo sonno-veglia. Occorre mettere all’ordine del giorno la maturazione di esperienze in tale direzione.


7. Conclusioni provvisorie

La prima conclusione è che sono necessarie ulteriori esperienze e ricerche che vadano nella direzione di confermare una teoria unitaria degli stili di vita, come quella qui ipotizzata, e in particolare la possibilità di individuare stili di vita tipici dei vari disturbi psichici.

Le seconda conclusione sul versante clinico è che nell’approccio alla persona con disturbo psichico è utile raccogliere routinariamente informazioni sullo stile di vita attuale e presistente, anche per uno specifico orientamento alla cura. Un’indicazione in tal senso con una specifica scheda sugli stili di vita era già presente nell’approccio psicoeducazionale dell’Optimal Treatment Project coordinato negli anni Novanta del secolo scorso da Jan Falloon (41). Analogamente in medicina si dovrebbero raccogliere notizie di questo tipo nell’accurata anamnesi fisiologica, socio-lavorativa, patologica remota e prossima. Sono le abitudini “alimentari”, “potatorie” e “voluttuarie” di buona memoria.

Infine nel panorama della salute mentale, che uscirà molto modificato se non stravolto dalla pandemia del COVID 19, sarà necessario porre particolare attenzione al tema degli stili di vita, che hanno giocato un ruolo favorente nel contagio (fumo ed alcol riducono le barriere immunitarie a livello polmonare e a carico di altri apparati) e che si sono modificate drammaticamente nel corso del contagio (ad es. aumento del 180% delle vendite di alcolici e superalcolici, 42).


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