Volume 26 - 31 Luglio 2023

pdf articolo

Sulla violenza contro le donne nei rapporti di coppia e i suoi effetti. Alcune considerazioni cliniche e sociali

Autore

Ricevuto 28/05/2023 – Accettato 15/06/2023



Riassunto

Pur subendo spesso un processo di “patologizzazione” psicologica e sociale, la violenza in una relazione di coppia spesso non ha a che fare con la grave patologia dei singoli, ma con modalità disfunzionali di gestire le proprie emozioni e i propri bisogni da parte dell’uomo che hanno un effetto pesante nel tempo sull’identità e l’equilibrio psichico della donna, tanto da poter determinare percezioni cliniche distorte o quantomeno parziali negli operatori che prendono in carico la sofferenza della donna vittima di violenza nella relazione. Questo errore di giudizio può avere conseguenze rilevanti sia relativamente ad una presa in carico adeguata e tempestiva della vittima, sia nella spiegazione sociale e culturale della violenza nelle relazioni affettive.
Parole chiave: violenza, donna, coppia, relazione affettiva, clinica.


Abstract

While often undergoing a process of psychological and social "pathologization", violence in a couple relationship often has nothing to do with the serious pathology of the individuals, but with dysfunctional ways of managing one's emotions and needs by the partner men who have a heavy effect over time on the identity and psychic balance of the woman, so much so that they can determine distorted or at least partial clinical perceptions in the operators who take charge of the suffering of the woman victim of violence in the relationship. This error of judgment can have significant consequences both in relation to an adequate and timely taking charge of the victim, and in the social and cultural explanation of violence in emotional relationships.Keywords: violence, woman, couple, affective relationship, clinic.


1. Nota introduttiva

Lavorando con donne che hanno subito una qualche forma di violenza dai propri partner o ex partner, mi è parso emergessero alcune dinamiche proprie di questo problema. Escludendo dalla riflessione i casi (più rari) in cui la psicopatologia dei singoli partner antecedente alla relazione di coppia gioca un ruolo rilevante nella violenza all’interno della relazione (Grifoni, 2016), negli altri potremmo trovare una dinamica psicologica di tipo relazionale come quella che mi appresto a descrivere. Scelgo qui appositamente di osservare il processo soprattutto dal punto di vista della donna, sia perché quasi sempre vittima della violenza, sia perché spesso è proprio alla donna che vengono attribuite – dalle persone comuni ma a volte anche dagli operatori sanitari, del diritto e della giustizia – determinate caratteristiche psicologiche che potrebbero giocare un ruolo nella dinamica violenta (Pauncz, 2016). Ciò non accade invece con l’uomo, il cui comportamento disfunzionale è di solito più eclatante e per questo più facilmente definibile e riconosciuto (e che, se oggetto di azioni giudiziarie, diventa anche di dominio pubblico).


2. La dinamica relazionale violenta

Tornando a osservare il processo, spesso capita, ad esempio, che una donna presenti una certa fragilità narcisistica, cioè un’insicurezza emotiva relativamente all’immagine di sé come persona amabile legata alle sue esperienze relazionali precoci (Freud, 1914; Bowlby 1960). Si tratta di una condizione abbastanza diffusa nelle persone, come mostrano del resto i dati sulle percentuali degli stili di attaccamento più a rischio di patologia nella popolazione generale (Simonelli, Calvo, 2002), e quindi potremmo supporre che, anche solo a livello statistico, in molti casi tale vulnerabilità personale non sia necessariamente di livello patologico o gravemente patologico, ma costituisca solo una maggiore vulnerabilità psicologica al presentarsi di determinate esperienze relazionali. È possibile che questa vulnerabilità renda la donna più bisognosa di manifestazioni d’affetto in una relazione e più dipendente da queste, quando si verificano. Dall’altra parte nel rapporto c’è il partner maschile, che non di rado può presentare anche lui delle fragilità narcisistiche analoghe che lo rendono più suscettibile alle manifestazioni di affetto in un rapporto (o alla loro mancanza). C’è poi da tenere presente che, da un punto di vista culturale, gli standard educativi facilitano la condivisione e la comunicazione di questi aspetti di vulnerabilità da parte delle donne fin da quando sono piccole, mentre non è così di solito per gli uomini, educati ad agire e a non parlare dei propri vissuti emotivi, specie di quelli che hanno a che fare con un senso di vulnerabilità (Pacilli, 2020). Ciò ad esempio potrà portare l’uomo ad esprimere la propria fragilità all’interno del rapporto non con una ricerca di maggiore contatto affettivo ma con un maggiore distacco, una ricerca di autonomia e indipendenza nel rapporto con funzioni difensive, oppure con reazioni impulsive e aggressive sempre di tipo difensivo (Grifoni, 2016; Muscialini, De Maglie, 2017).

Ipotizziamo comunque che i due si incontrino, si frequentino per un certo tempo e magari alla fine la coppia si formi. Da tenere presente che in questo processo non c’è niente di deterministico: la coppia in cui i due partner presentano delle fragilità narcisistiche come quelle sopra citate, difficoltà legate alla loro storia personale, può formarsi o non formarsi e ciò dipenderà da molte variabili, anche semplicemente collegate al contesto ambientale e alla fase esistenziale-evolutiva che uomo e donna stanno attraversando in quel particolare momento. Non è detto quindi che, solo perché due persone che si conoscono hanno analoghe o complementari vulnerabilità, finiscano per formare una coppia. In ogni caso, come sempre avviene, l’incastro di coppia nasce sulla base di motivi consci e inconsci, cioè bisogni emotivi che si collocano lungo un variegato continuum di consapevolezza-inconsapevolezza (Norsa, Zavattini, 1998; Monguzzi, 2015).

Ora, ad un certo punto può verificarsi che in una coppia, andando avanti col tempo, la frequentazione e la costruzione di un’intimità sempre maggiore, dinnanzi a richieste di vario tipo provenienti dalla donna (di vicinanza affettiva, di maggiore presenza in famiglia, di realizzazione personale, ecc.), magari legate anche a quelle lievi vulnerabilità di cui si è detto prima, l’uomo reagisca distanziandosi, evitandole, oppure attivando meccanismi di colpevolizzazione, svalutazione, controllo della partner più o meno evidenti, anche se non costanti (Pauncz, 2016; Walker, 2016). Tali meccanismi causano certamente una sofferenza o insoddisfazione nella donna, che però rimane nel rapporto per vari motivi: 1) perché si sta legando affettivamente all’uomo (che conosce da un certo tempo e con cui sta costruendo una intimità che in parte la gratifica); 2) per la presenza di alcuni aspetti positivi nel rapporto (l’uomo può essere attraente, a volte simpatico, gentile, intraprendente ecc.); 3) infine, per quella sua fragilità narcisistica che le rende difficile rinunciare a quel calore emotivo che a volte è riuscita a sperimentare nel rapporto, magari dopo tanto tempo.

La coppia quindi resiste alle prime intemperie, ma a lungo andare la critica, la colpevolizzazione, la svalutazione cicliche vissute nel rapporto minano l’autostima della donna, rendendola sempre più vulnerabile e dipendente dall’uomo, ma anche sempre più impaurita e confusa su chi è e cosa vuole e quindi sulla capacità di far fronte e uscire dalla violenza, fino a sperimentare dopo diversi anni la cosiddetta “impotenza appresa” (Seligman, 1975; 2019). La donna inizia, ad esempio, a percepirsi come la percepisce il partner (esigente, dipendente, rompiscatole, provocatoria ecc.), non si sente più in grado di prendere iniziative senza di lui o il suo consenso, ancor più se nel frattempo sono nati dei figli che complicano ulteriormente il quadro e rendono la partner ancora più bisognosa di un sostegno materiale o relazionale.

A questo punto la donna rischia di rimanere nel rapporto, per quanto insoddisfacente e pericoloso, prevalentemente a causa di un senso di impotenza e di scarsa autostima peggiorati nel tempo, oppure di dipendenza emotiva dall’altro (ulteriormente aggravata da un’eventuale dipendenza economica), legato non a sue fragilità iniziali – che come abbiamo detto sono nella maggior parte dei casi abbastanza comuni – ma dalla cronica svalutazione e attacco psicologico da parte del partner verso richieste emotive legittime, un processo relazionale che può essere ormai diventato, per la sua frequenza, vera violenza psicologica, anche se non necessariamente eclatante nelle sue manifestazioni (non parlo qui della violenza fisica, che è sempre più facilmente individuabile dalla donna o da chi si relaziona con lei e quindi tendenzialmente più criticata e sanzionata, anche socialmente) (Walker, 2016 ).

In sostanza nel tempo, a partire da due partner che presentano delle vulnerabilità individuali legate alla propria storia personale non necessariamente patologiche, anche a causa di una propensione dell’uomo a difendersi dalla condivisione di bisogni e difficoltà emotivi attraverso atteggiamenti evitanti, svalutanti o aggressivi, si crea un ciclo di violenza quantomeno psicologica che indebolisce psicologicamente sempre di più la donna e la rende più dipendente dal rapporto, benché problematico.


3. Percezioni di chi lavora con la violenza di genere

Ora, alla persona comune ma anche come detto all’operatore sanitario che può trovarsi a dover dare un supporto ad una donna in difficoltà, può sembrare di avere di fronte una persona con un carattere “masochista” (Freud, 1924, 1926; McWilliams, 1994; Nacht, 1965), che cioè nonostante gli atteggiamenti e i comportamenti negativi o aggressivi del proprio partner si ostini a rimanere in quella relazione, addossando così a lei (consapevolmente o meno) una parte rilevante nella dinamica violenta e attribuendole aspetti sintomatici o caratteriali francamente patologici.

Ma si tratta di un errore di giudizio: spesso, specie dopo anni di violenze anche “solo” psicologiche, magari lievi ma costanti, la donna che l’operatore incontra non è la stessa di alcuni anni prima – una persona con una sufficiente autonomia personale, magari con qualche comune aspetto di vulnerabilità – ma è invece quella persona impotente, insicura, triste, confusa, contraddittoria (e a volte arrabbiata) che è diventata a causa delle privazioni emotive o delle violenze psicologiche subite. E anche se, come avviene in alcuni casi, la donna presentava già delle fragilità psicologiche personali più rilevanti fin dall’inizio del rapporto, certamente questi aspetti caratteriali si saranno molto aggravati dopo anni di violenza subita.

L’errore di ragionamento che può fare chi si confronta con queste situazioni è quello di scambiare la parte per il tutto o l’effetto per la causa, e di applicare quel bias cognitivo (detto “errore fondamentale di attribuzione”) tanto frequente purtroppo anche in chi opera nel campo della salute mentale, che porta a sovrastimare la probabilità che i comportamenti degli altri siano frutto di tendenze disposizionali (a differenza dei propri) e non anche influenzate dal contesto in cui vivono da tempo o dalla fase esistenziale che stanno attraversando in quel momento (Girotto, 2013). Si cristallizza cioè il carattere della donna come appare in quel momento, ritenendo che giochi un ruolo attivo nel mantenimento della violenza (colpevolizzandola così ancora una volta), e si sottovaluta quanto è avvenuto in precedenza, ossia i comportamenti dell’uomo e gli effetti che questi hanno avuto nel tempo.

Dopo qualche anno di violenze di vario genere, come detto, noi osserviamo così una donna che non è più quella che era solo qualche anno prima: più insicura, impoverita psichicamente, più confusa e oscillante nei pensieri e nelle azioni, a volte sofferente nel corpo tramite somatizzazioni, tanto da poter suscitare nervosismo, fastidio, senso di impotenza o anche rabbia reattiva in chi vorrebbe aiutarla, specie quando la coppia ha dei figli e la donna fa fatica ormai a proteggerli dalle violenze che subisce. L’operatore sociosanitario potrebbe inoltre assimilare il fastidio o l’esasperazione che a volte prova a livello controtransferale (Racker 1959; McWilliams, 1994), relazionandosi con la donna, a quello che potrebbe provare il compagno di lei in certi momenti, pensando ad esempio che è la donna a suscitare determinate reazioni, che l’atteggiamento dell’uomo forse può essere comprensibile in certi frangenti, frutto di esasperazione dinanzi a certi atteggiamenti della partner, mentre spesso è vero l’inverso, cioè che la rabbia e la confusa ambivalenza della donna nei confronti dell’uomo è il frutto dell’esasperazione che quest’ultima vive da tempo e che non sa trovare vie diverse di espressione. Tali errori di giudizio possono essere causati o rafforzati negli operatori anche da teorie causali dei comportamenti violenti declinate semplicisticamente, attribuendo a volte un ruolo paritario nella violenza ad entrambi i membri della coppia (spiegazione sistemica), o sostenendo l’esistenza di fattori inconsci nella vittima che provocano o attivano la violenza nel partner (spiegazione psicoanalitica), senza dare il giusto peso allo squilibrio di potere basato sulla paura che la violenza porta con sé fin dall’inizio, né alle conseguenze psichiche di tale condizione sulla vittima (Grifoni, 2016).

Certo, credo ci possano essere anche situazioni differenti, in cui la donna ad esempio esprime una rabbia distruttiva verso il compagno che può fungere da fattore scatenante di una reazione violenta del partner. Ma se si volesse effettivamente capire se questo scarso controllo della rabbia da parte della donna sia effettivamente un tratto caratteriale già presente all’inizio del rapporto di coppia (applicando alla sua comprensione più appropriatamente certi paradigmi teorici), bisognerebbe prima di tutto pulire il campo di osservazione del fenomeno facendo uscire la donna dalla relazione violenta e poi attendere del tempo, perché determinate reazioni e atteggiamenti che sono nati o si sono rafforzati a causa del rapporto di coppia disfunzionale possono essere diventati nel tempo come tratti caratteriali della donna, vere strategie di difesa dalla paura e dall’umiliazione vissute nella relazione e rinforzatesi per anni (Lingiardi, 2002). Del resto, questi aspetti caratteriali li vediamo anche nei bambini vittime di violenza – ad esempio l’eccessiva sessualizzazione delle vittime di violenze sessuali, o l’aggressività e l’impulsività di alcuni bambini maltrattati fisicamente – e non ci sogneremmo mai, soprattutto come professionisti della salute mentale, di condividere il ragionamento distorto di chi abusa, cioè che in fondo anche il bambino ci ha messo del suo per subire quelle violenze: che, ad esempio, a volte può essere stato seduttivo o aggressivo verso l’adulto, provocandolo (Malacrea, 1998).

Si dirà: ma una donna, in quanto persona adulta, non è come un bambino. Ha più potere, più capacità di scelta e discernimento, ha la possibilità di sottrarsi a quella situazione di violenza. Sì, può essere così, almeno nelle fasi iniziali del rapporto violento. Ma se noi osserviamo una donna che ha subito nel rapporto alcuni anni di violenze e privazioni emotive di vario genere, essa sarà meno capace di discernimento e potere di quanto non lo fosse all’inizio, e nei casi più gravi sarà così impoverita a livello di identità e così priva di un senso di autoefficacia personale da sentire di non avere più capacità di scelta e di potere nemmeno dinnanzi ai propri figli e alla loro sofferenza. E teniamo sempre presente, come si diceva all’inizio, che quella donna può essere rimasta a lungo in quel rapporto non solo perché ormai debole, ma anche perché inizialmente innamorata di quell’uomo per i suoi lati positivi e non certo, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, per i suoi atteggiamenti violenti (per una sorta di masochismo perverso). Si tratta del resto di aspetti caratteriali dell’uomo che l’operatore stesso riesce a volte a cogliere bene, cosa che non di rado lo può portare a colludere con la versione dell’uomo di essere una persona “normale” semplicemente esasperata o addirittura vittima di certi atteggiamenti o provocazioni della compagna.

Per tutte queste ragioni, si può ipotizzare che sia più facile per una donna interrompere una relazione violenta nelle sue fasi iniziali, ai primi segnali cioè della comparsa della violenza nel rapporto. Il rimanerci dentro infatti rafforza nel tempo sia i comportamenti prevaricanti dell’uomo, che sente di avere sempre più potere e controllo nel rapporto, sia alcune iniziali vulnerabilità della donna, portando a condizioni psicologiche disfunzionali già citate in precedenza, quali confusione identitaria, comportamenti oscillanti e incoerenti, scarsa autostima, stati depressivi e ansiosi, somatizzazioni ecc.


4. Conclusioni

La violenza è sempre una minaccia all’integrità psichica di una persona, in quanto mette chi la subisce continuamente davanti al sentimento più forte e più evolutivamente importate per l’uomo, che è la paura di morire. È quindi, proprio per questo, traumatica (De Zulueta, 2006; Malacrea, 1998). Tale potenziale traumatico è ovviamente ancora maggiore quando la violenza è subita ripetutamente nel tempo dalla vittima. È proprio tale capacità di causare traumi psicologici che rende la violenza nella relazione affettiva un elemento capace di modificare a lungo termine il comportamento delle vittime e perfino la loro identità, facendole sembrare altro da ciò che erano inizialmente secondo meccanismi identificatori (con l’aggressore o con la vittima) ben noti nella clinica (McWilliams, 1994; Valdrè, 2020). Tali esiti sono ancora più pericolosi perché capaci, come si è cercato di evidenziare, di distorcere negli stessi operatori sociosanitari, ma anche nella società nel suo insieme, la percezione e la comprensione del fenomeno della violenza.

Ecco perché l’importanza di aiutare chi è vittima della violenza ad uscire quanto prima da quella condizione deve essere ben chiara e dovrebbe essere ribadita costantemente sia nelle comunicazioni private che a livello pubblico e sui media, rivolgendosi da un lato alle potenziali vittime in modo da metterle in guardia quando iniziano a subire i primi atteggiamenti violenti dal proprio partner (attivandosi in una fase in cui è più facile uscire da una relazione potenzialmente violenta), dall’altro alle istituzioni, che hanno il compito di prendere con velocità e fermezza gli opportuni provvedimenti per individuare e fermare, sia da un punto di vista psicologico-relazionale che giuridico, il ciclo della violenza.


Bibliografia

Bowlby J. (1960), Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Raffaello Cortina, Milano 1988.

De Zulueta F. (2006), Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività, Raffaello Cortina, Milano 2009.

Muscialini N., De Maglie M. (2017), In dialogo. Riflessioni a quattro mani sulla violenza domestica, Settenove, Cagli (PU).

Freud S. (1914), Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

Freud S. (1924), Il problema economico del masochismo, in Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

Freud S. (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, in Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

Grifoni G. (2016), L’uomo maltrattante. Dall’accoglienza all’intervento con l’autore di violenza domestica, Franco Angeli, Milano.

Girotto V. (2013), Introduzione alla psicologia del pensiero, Il Mulino, Bologna.

Lingiardi V. (2002), I meccanismi di difesa. Teoria, valutazione, clinica, Raffaello Cortina, Milano.

Malacrea M. (1998), Trauma e riparazione. La cura nell’abuso sessuale all’infanzia, Raffaello cortina, Milano.

McWilliam N. (1994), La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma 1999.

Monguzzi F. (2015), La coppia come paziente. Relazioni patologiche e consultazione clinica, Franco Angeli, Milano.

Nacht S. (1938), Il masochismo, Edizioni Mediterranee, Roma 1965.

Norsa D., Zavattini C. (1998), Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia, Raffaello Cortina, Milano.

Pauncz A. (2016), Dire di no alla violenza domestica, Franco Angeli, Milano.

Pacilli M. G., Uomini duri, Il Mulino, Bologna 2020.

Racker H. (1959), Transfert e controtransfert. Studi sulla tecnica psicoanalitica, Armando, Roma 1970.

Seligman M. E. (1975), Helplessness: On Depression, Development, and Death, San Francisco, Freeman.

Seligman M. E. (2019), Il circuito della speranza, Giunti, Firenze 2018.

Simonelli A., Calvo V. (2002), L’attaccamento: teoria e metodi di valutazione, Carocci, Roma.

Valdré R. (2020), Sul masochismo. L’enigma della psicoanalisi, Celid, Torino.

Walker L. E. A. (2016), The battered woman syndrome, Springer Publishing.