I Servizi pubblici di salute mentale e l’accoglienza ai popoli in fuga
Autori
(1) Psicologo e psicoterapeuta, Phd in Antropologia ed Epistemologia della Complessità, U.F.C. S.M.A. di Prato – Azienda USL Toscana Centro
(2) Psicologa e psicoterapeuta, Formazione presso Centre Devereux Parigi, Servizio di Etnopsicologia U.F.S.M.A. Grosseto, Centro Studi Sagara Pisa
(3) Psichiatra e psicoterapeuta, Direttore Area Salute Mentale Adulti – Azienda USL Toscana Centro
Ricevuto il 01/06/2023 – Accettato il 15/06/2023
Riassunto
L’articolo propone una riflessione sul rapporto che è necessario sviluppare e rafforzare fra servizi pubblici di salute mentale e sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Dopo una sintetica analisi dei processi regolatori dei movimenti umani sviluppati negli ultimi due decenni, tale riflessione mette in evidenza la necessità di superare una visione bipolare della migrazione, in cui solo il contesto sociale e culturale di origine e quello di approdo sono presi in considerazione come fattori antropopoietici ed eziopatogenetici. Per comprendere le realtà cliniche attuali è necessario prendere in considerazione altri fattori antropopoietici ed eziopatogenetici che si agglutinano a formare ulteriori polarità: la dimensione del viaggio migratorio e la dimensione virtuale e digitale delle attuali forme di comunicazione globali. Alla luce di queste trasformazioni, si avanzano alcune riflessioni sulle modalità di emersione della dimensione culturale nella clinica contemporanea con i popoli in fuga.
Abstract
The article proposes a reflection on the relationship to develop and strengthen between public mental health services and the reception system for asylum seekers and refugees. After a brief analysis of the regulatory processes of human movements deployed over the last two decades, this reflection highlights the need to overcome a bipolar vision of migration, in which only the social and cultural context of origin and that of arrival are taken into account as anthropopoietic and etiopathogenetic factors. In order to understand current clinical realities, it is necessary to take into consideration other anthropopoietic and etiopathogenetic factors that characterise further polarities: the dimension of the migratory journey and the virtual and digital dimension of current global forms of communication. In the light of these transformations, some reflections are advanced on the ways in which cultural items emerge in the contemporary clinical activity with fleeing peoples.
Gli interventi di cura nei confronti di richiedenti asilo e rifugiati che presentano una sofferenza psichica devono tenere in considerazione il contesto in cui si inseriscono e in cui si cimentano nella trasformazione di traiettorie esistenziali, cliniche e giuridiche individuali, così come delle dinamiche relazionali problematiche fra gli attori coinvolti – prossimali e distali. Si tratta di un contesto interistituzionale definito dall’intersecarsi e dal sommarsi di una pluralità di dispositivi predisposti e attuati da attori capaci di esercitare un qualche tipo di potere, sia esso sovrano, biopolitico o disciplinare: le Questure e le Prefetture, le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, gli Enti locali, le strutture di accoglienza, i Servizi sociali e sanitari (1; 2). Ciò significa che simili dispositivi, fra le altre cose, definiscono e determinano:
- la possibilità di sospendere l’esercizio del potere sovrano di interdire l’attraversamento non autorizzato dei confini statali;
- l’esistenza giuridica delle persone e cioè i percorsi per il conferimento – prima – di uno status giuridico transitorio e dei relativi diritti e il riconoscimento – dopo ed eventualmente – del diritto a un qualche tipo di protezione internazionale o di livello nazionale;
- i luoghi di vita delle persone e correlativamente alcune tipologie di attività (burocratiche, giuridiche, educative o sanitarie) che esse devono intraprendere e di relazioni asimmetriche che devono intrattenere con alcune figure professionali (avvocati, operatori dell’accoglienza, medici, forze dell’ordine, psicologi, e così via);
- le modalità di rapportarsi alla propria storia, oltre alle categorie concettuali stesse per restituirla al mondo circostante, da cui possono derivare anche trasformazioni delle forme e delle possibilità di rapportarsi ai propri gruppi di appartenenza, alle loro visioni culturali e al proprio luogo di origine (3).
Da questo punto di vista, conoscere il contesto interistituzionale, nel cui ambito la funzione di cura in qualche modo si svolge, è fondamentale perché esso esercita un’azione concreta e immanente sulle vite e sul benessere dei popoli in fuga impegnati nella ricerca di protezione e di una possibile sopravvivenza, potendo altresì contribuire al mantenimento o incremento del loro malessere o svolgere addirittura un’azione iatrogena (4; 5).
D’altra parte, l’analisi di questo contesto istituzionale costituisce il punto di partenza per l’assunzione di una consapevole e corretta postura terapeutico-assistenziale del clinico (e degli operatori, in generale). Si tratta di considerare le pressioni, i vincoli e le richieste che provengono dal contesto interistituzionale dell’accoglienza, per il tramite dei suoi vari attori a loro volta sottoposti alle pressioni, ai vincoli e alle richieste degli altri. Si possono rappresentare queste interazioni come un turbinio di influenzamenti reciproci, benché esercitati con una forza e possibilità differenziali in funzione della rispettiva collocazione di ruolo e organizzativa. Il risultato complessivo è un contesto interistituzionale che vede la stratificazione di una pluralità di dispositivi, per altro a loro volta sotto l’influsso diretto e indiretto del più generale contesto sociale. Un simile campo di forze presenta un’elevata complessità sociale, culturale e politica. Al suo interno, il mantenimento di una visione chiara e salda della propria funzione terapeutico-assistenziale – calata dentro una specifica realtà organizzativa di appartenenza – e dei propri valori deontologici – in rapporto con il mondo morale personale – costituiscono la prima garanzia di una possibile efficacia operativa e, ancora di più, del mantenimento del benessere dell’operatore. Entrambi questi fattori rendono possibile l’essere percepiti dall’altro in modo realistico e alla fine, una volta riconosciuti nella propria funzione terapeutica, permettono la costruzione di un’alleanza di lavoro. L’attuazione di una funzione preventiva generale rispetto al benessere del clinico e dell’operatore dipende, parallelamente, da almeno due ordini di fattori. Il primo è rappresentato dalle possibilità di gestione delle tensioni fra funzione professionale, vincoli organizzativi e influenze interistituzionali. Il secondo è costituito dalle possibilità di gestione delle tensioni fra le specifiche logiche acculturative agite dal sistema interistituzionale identificato sui e con i richiedenti asilo e rifugiati, i valori deontologici della propria professione, il mondo morale personale e quello sociale allargato.
Il contesto interistituzionale dell’accoglienza e i Servizi di Salute Mentale
Negli ultimi 15-20 anni, seppure con diverse sensibilità e posture più o meno difensive in funzione dei governi e dei climi politici, la regolazione dei flussi di popoli in fuga ha assunto una fisionomia transnazionale caratterizzata dal perseguimento di una strategia articolata in una pluralità di obiettivi: regolare giuridicamente l’attraversamento delle frontiere, definendo un sistema di diritti e di vincoli al movimento (un sistema che è gerarchicamente articolato fra livello internazionale, livello europeo e livelli nazionale); radicare il più possibile le persone nei pressi dei focolai di crisi; rallentare il più possibile il loro movimento e se possibile individuare delle zone intermedie di blocco; identificare le persone in cerca di sopravvivenza e individualizzarne le traiettorie giuridiche ed esistenziali. Attraverso questa strategia il flusso di popolazioni in movimento è frammentato e smorzato in una pluralità di tragitti individuali. Questa strategia e questi obiettivi sono stati in questi due decenni perseguiti attraverso una completa riformulazione del concetto e della materialità della frontiera. La frontiera non è più solamente la linea-istante che delimita uno spazio di sovranità di una data entità statale. La frontiera è diventata uno spazio-tempo di vita dei migranti che si incarica di deciderne i ritmi e le possibilità di movimento (oltre che di svolgere tutta un’altra serie di funzioni disciplinari e latamente acculturative). Questo spazio è stato creato progressivamente attraverso due opposti ma interconnessi movimenti. Un primo movimento è stato quello della esternalizzazione delle frontiere. Al riguardo, bisogna forse distinguere una esternalizzazione prossimale (cioè la costituzione di una fascia che estende lo spazio sovrano di uno stato oltre i suoi confini effettivi e nel cui ambito svolgere funzioni di controllo e sorveglianza – eventualmente e problematicamente esternalizzate ad altre entità statali supportate e addestrate a tal fine – con obiettivi alterni e incerti fra attività di salvataggio, contrasto alle organizzazioni criminali e respingimento dei popoli in fuga) e una distale, con la creazione di spazi-tempi liminali vicini ai focali di crisi o lungo le rotte migratorie (campi profughi). Si tratta di spazi-tempi destinati al soccorso delle displaced persons ma anche alla loro ri-territorializzazione o almeno al loro rallentamento con strategie seduttive, dissuasive o coercitive. Bisognerebbe poi considerare, parallelamente ai campi ufficiali, le zone informali che si vengono a creare con una funzione di aggregazione e di tappa – da un lato – e “centri” di smistamento e coercizione dei sistemi organizzati dai passeurs (harraga).
Il secondo movimento procede, all’inverso, nel senso di una introflessione delle frontiere, con la creazione – internamente ai paesi di destinazione – di spazi-tempi liminali destinati ai migranti in cerca di protezione e cioè con la costituzione di strutture di accoglienza.
Questo lavoro di governo del fenomeno del movimento umano ha prima di tutto e principalmente prodotto un ordinamento e un irrigidimento dei flussi dal lato nord del Mediterraneo, con respingimenti più o meno appariscenti e più o meno delegati ai paesi del lato sud o della fascia balcanica e quindi con vincoli al movimento. L’irrigidimento della mobilità si verifica sia nell’ambito del territorio nazionale (a partire già dall’assegnazione ministeriale nei CAS), sia tra stati europei per gli accordi di Dublino. In un secondo momento questo lavoro di governo si è esteso al Sud: con i vari accordi portati avanti o dai singoli stati europei (ad es., l’accordo fra Italia e Libia) o dall’UE nel suo complesso (ad esempio, l’accordo con la Turchia) volti a mantenere i popoli in fuga nei territori a sud e a oriente dell’Europa o a permetterne il rimpatrio (ad es. gli accordi di riammissione con la Tunisia e il Marocco). Questa proiezione mediorientale e africana (maghrebina e subsahariana) del governo dei flussi migratori ha prodotto un loro rallentamento o un loro blocco, più o meno temporanei, e certamente ha esposto chi fugge a gradi maggiori o minori di vessazione, sfruttamento e spoliazione a seconda dei contesti politici e sociali attraversati.
Sul piano nazionale e – per quanto ci riguarda regionale – questa strategia di governo dei flussi migratori ha prodotto una nuova realtà sociale presente nei nostri territori costituita dalle strutture di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Parallelamente ha prodotto una nuova figura professionale, l’operatore dell’accoglienza, esercitata da persone (giovani soprattutto) con percorsi curriculari variegati (per lo più universitari: antropologia, scienze politiche, scienze dell’educazione, psicologia, ecc.) e portatori soprattutto di una formazione in buona parte “fatta sul campo”. Questa formazione sul campo è il prodotto ultimo di un ruolo professionale dai compiti molto vari (consulenza legale, orientamento e accompagnamento nel territorio e nelle istituzioni, formazione e inserimento lavorativi, insegnamento dell’italiano, ecc.). Quella dell’operatore dell’accoglienza è una figura professionale poco definita e che rimane incerta e frastagliata a causa: dei molteplici percorsi formativi (universitari e non) di chi la interpreta; delle necessità poste dall’oggetto del loro intervento; delle indicazioni dei bandi di istituzioni di CAS e Progetti SAI; delle pressioni amministrative e “politiche” esercitate da Prefetture, Enti locali, Servizio Centrale, e così via.
A questo nuovo ambito istituzionale sono affidati compiti tanto delicati quanto complicati:
- limitare e regolare l’attraversamento dei confini statali;
- promuovere e difendere i diritti di richiedenti asilo e rifugiati, in una sorta di funzione di advocacy;
- promuovere percorsi di integrazione e inclusione sociale per queste persone;
- far sì che questi ambiti sociali si mantengano nell’alveo di un buon funzionamento democratico a garanzia della società ospitante ed accogliente. Il che significa, in primo luogo, la promozione di processi di riproduzione sociale delle logiche democratiche presso richiedenti asilo e rifugiati. L’acculturazione democratica prevede non solo arrivare a riconoscersi come titolare di diritti, ma anche come soggetto di doveri in quanto cittadino. In secondo luogo, richiede che il funzionamento istituzionale di quegli ambiti sociali – nella loro componente pubblica ed in quella privata o privata sociale – sia mantenuto nell’alveo del rispetto dei principi democratici.
L’organizzazione e il funzionamento del sistema di accoglienza (sin dai suoi inizi, nei primi anni 2000) hanno preso forma in ambiti istituzionali e secondo logiche essenzialmente estranei al sistema dei servizi sanitari e dei servizi di salute mentale in particolare. Questa estraneità originaria fra Servizi di salute mentale pubblici e sistema di accoglienza ha privato quest’ultimo del bagaglio di competenze e conoscenze sviluppatosi a partire dai processi di deistituzionalizzazione della Riforma psichiatrica italiana. D’altra parte, ha determinato uno scarso interesse nei Servizi di salute mentale a farsi coinvolgere nei percorsi di cura di richiedenti asilo e rifugiati, salvo qualche eccezione significativa. Il sottoprodotto di simili processi interistituzionali è rappresentato da quei richiedenti asilo e rifugiati che, a partire da una condizione di sofferenza psichica di rilievo clinico e prolungata nel tempo, si ritrovano a occupare una zona all’intersezione fra: incistamento dentro le strutture di accoglienza straordinaria, impossibilità di inserimento nella seconda accoglienza (ordinari o dedicati a persone con problemi di salute mentale), rischio di confluire nelle accoglienze sociali a bassa soglia, inappropriatezza delle strutture sanitarie esistenti e l’estrema marginalità. L’estraneità dei servizi e lo scarso interesse preservano altresì dalla necessità di procedere a una critica profonda delle logiche stesse che sottendono in molti casi il funzionamento delle procedure della cura. È vero infatti che occuparsi di richiedenti asilo e rifugiati porta inevitabilmente a toccare con mano quanto sia indispensabile rivedere i dispositivi clinici e di pensare a una clinica del “futuro”.
In questo senso i fattori di rischio per la salute mentale a cui sono esposti i richiedenti asilo e rifugiati possono essere classificati in:
- individuali: eventuali vulnerabilità di natura biologica, relazionale o familiare; traumi individuali e collettivi vissuti in fase pre-migratoria e migratoria; crisi o rottura dei legami e degli attaccamenti culturali in corso di migrazione;
- relazionali: malintesi e conflitti culturali in fase post-migratoria;
- contestuali: maltrattamento teorico (6); processi di istituzionalizzazione nella forma campo; processi di marginalizzazione spaziale e sociale in fase post-migratoria (che sempre producono luoghi “extra-territoriali” rispetto alle regole vigenti, alle relazioni che vi si instaurano, ai diritti ed ai doveri garantiti e vigenti).
La risposta a simili situazioni di rischio, alle situazioni critiche che ne derivano e alle derive psicopatologiche protratte nel tempo che eventualmente ne scaturiscono richiedono una sinergia fra prospettive transculturali e comunitarie in salute mentale.
Per i Servizi pubblici di salute mentale questo significa articolare tre obiettivi principali. Innanzitutto, è necessario aumentare le competenze e le conoscenze degli operatori della salute mentale rispetto alla clinica transculturale ed etnopsichiatrica, anche dotando i Dipartimenti di nuove professionalità e competenze disciplinari (mediatori linguistico-culturali, antropologi culturali e medici, psicologi e psichiatri esperti nella clinica transculturale, etnopsichiatrica ed etnopsicologica). In secondo luogo, è indispensabile predisporre modalità strutturate di interazione proattiva con il sistema di accoglienza. Questa necessità, a sua volta, comporta una serie di obiettivi accessori:
- acquisire familiarità e dimestichezza operativa con un ambiente istituzionale ancora troppo estraneo;
- trasmettere agli operatori delle strutture di accoglienza competenze nella gestione delle conflittualità relazionali e delle problematiche di salute mentale;
- trasmettere alle organizzazioni che gestiscono le strutture di accoglienza i saperi e le competenze de-istituzionalizzanti maturate dai Servizi di salute mentale a partire dalla riforma psichiatrica italiana;
- dialogare con le altre istituzioni affinché le logiche di organizzazione e funzionamento del sistema di accoglienza “introietti” buone norme e logiche di promozione della salute mentale;
- esercitare – per la parte che compete loro – una sorta di controllo democratico diffuso sul funzionamento dei centri di accoglienza, affinché non diventino luoghi iatrogeni, segreganti o soggetti a regole diverse rispetto al restante territorio nazionale;
- promuovere strategie di prevenzione primaria, secondaria e terziaria dei disturbi psichici. Il terzo obiettivo da perseguire per i Servizi di salute mentale intenzionati a operare nella comunità è quello di partecipare – insieme al sistema di accoglienza e agli altri attori pubblici e del terzo settore – alla promozione di territori e contesti sociali accoglienti, facilitando la costruzione di reti di relazioni vitali e durature e di reti operative e supportive includenti (casa, lavoro, ecc.).
La situazione che si incontra nelle accoglienze è estremamente variegata e fluttuante. Varia da un contesto locale all’altro, da un’organizzazione all’altra e sperimenta cambiamenti nel tempo in conseguenza di fattori locali (ad esempio, un cambiamento di amministrazione), nazionali (modifiche delle normative nazionali sulla protezione, cambiamenti degli scenari economici e/o politici, ecc.) e internazionali (crisi geopolitiche improvvise da cui dipendono fluttuazioni consistenti nei flussi migratori, accordi o disaccordi fra stati, ecc.). Nei contesti maggiormente virtuosi è possibile osservare un costante lavorio – al contempo generale e minuto; strategico e quotidiano; istituzionale e interstiziale; interregionale, regionale e locale – che si fonda su reti composite e che al contempo le riproduce. Si tratta di reti cognitive, operative e affettive, che presentano aspetti e dimensioni formali e altri affatto informali e che sono descrivibili come trasversali (intersettoriali e interistituzionali; interprofessionali e interdisciplinari).
Spesso è la presenza e l’azione di queste reti che crea capacità strategica e di azione sistemica dei contesti locali, o quanto meno che permette la concretizzazione di potenzialità istituzionali e progettuali. Questa capacità deriva dalla possibilità, che il loro funzionamento attualizza, di collaborazione operativa e progettuale fra istituzioni e fra queste e il terzo settore. Diventa spesso difficile capire se la configurazione di un certo contesto locale dipende dai flussi top-down (decisionali, informativi, finanziari…) che circolano all’interno di queste reti, piuttosto che da quelli bottom-up (collaborazioni operative, condivisione di metodologie e visioni, convergenze verso obiettivi comuni…). Si può anzi dire che la caratteristica di queste reti o una delle loro caratteristiche principali è quella di svolgere una funzione di mediazione che altrove abbiamo chiamato istituzionale o comunitaria (7). Nel lavoro con chi proviene dall’altrove, la parola mediazione è evocata soprattutto in relazione alla clinica. Ma il lavoro di salute mentale di comunità comporta la necessità di un diverso tipo di mediazione che si dispiega nel territorio o comunque nell’ambito dei rapporti organizzativi e istituzionali, a partire dal vincolo etico e deontologico con l’altro e sulla base delle conoscenze sviluppate nella clinica rispetto allo specifico punto di vista e delle specifiche logiche di cui l’altro è locutore.
Nella mediazione istituzionale o comunitaria, l’operatore si fa rappresentante presso un terzo (superiore gerarchico, organizzazione del terzo settore, istituzione pubblica, contesto locale, e così via) delle istanze degli utenti e cioè dei loro diritti, interessi, bisogni, obiettivi e desideri, tenendo conto anche delle matrici culturali da cui derivano e per mezzo delle quali sono espressi. La mediazione così intesa passa attraverso le reti sopra descritte.
In Toscana, da un lato, l’interazione fra Servizi pubblici di salute mentale e sistema di accoglienza è stata possibile attraverso l’attivazione dei FAMI da parte della Regione. Da questo punto di vista, si registra l’importanza dei processi top-down che hanno permesso di aprire canali di comunicazione e collaborazioni diffuse fra i due ambiti istituzionali. Dall’altro, seppure essi siano stati sospinti dal tipo di richieste e vincoli posti dalle linee di finanziamento (top-down), hanno tuttavia preso forma e hanno fondato la loro possibilità operativa sulle reti fra operatori dei servizi, ricercatori e professori universitari, psicoterapeuti e operatori dell’accoglienza (processi bottom-up).
Verso la necessità di nuovi concetti
Gli effetti psicologici e psicopatologici della migrazione sono sempre stati individuati e interpretati a partire da una concezione bipolare dei flussi di popolazione. La migrazione cioè riguardava due territori (e quindi due culture): il territorio di partenza e quello di arrivo. Riguardava anche i processi interattivi fra questi due poli in qualche modo antagonisti (prestiti e cessioni, assimilazioni, schismogenesi e acculturazioni dissociative, ecc.). Essi andavano a costituire l’alpha e l’omega di una traiettoria curva, che al più poteva ripiegarsi su se stessa arrivando a disegnare un cerchio sulla cui circonferenza potevano essere individuate alcune figure prototipiche. In questo senso Inglese (8) ha individuato e distinto: coloro che partono (posti in una tensione conflittuale fra angoscia del futuro e della metamorfosi e nostalgia del passato); coloro che restano (presi fra la necessità di “fissarsi” al passato per contrastare l’angoscia di un presente connotato dalla perdita di familiari costretti alla migrazione o alla fuga dalle condizioni di vita esistenti); coloro che ospitano (presi dall’angoscia di fronte all’alterità invasiva e per un futuro vissuto come costrizione alla trasformazione e al cambiamento: xenopatia); coloro che nascono (presi da un’angoscia genealogica e di un passato rimosso o interdetto che ritorna in forme cifrate ed enigmatiche, ovvero attratti verso un futuro incognito spesso ricercato con modalità traumatiche iterative); infine, coloro che ritornano (revenant angoscianti che incarnano gli esiti infausti della trasformazione indotta dal contatto con l’altro oppure che ripresentano una cultura ormai trapassata e inattuale nel contesto di origine perché rimasta bloccata alle sue forme pre-partenza).
Una simile prospettiva bipolare è rimasta tale fino ad anni recenti, anche nella letteratura antropologica che proponeva – e ancora propone – una prospettiva transnazionale per lo studio antropologico dei processi migratori e una metodologia multilocale di ricerca. Valga come esempio la seguente citazione: “Si contano sempre più ricerche multi-situate, con studiosi impegnati in spazi transnazionali che uniscono le culture delle migrazioni che si sviluppano nei contesti di origine con le pratiche sociali messe in atto dai migranti nei contesti di approdo” (9: 39).
La fase storica attuale presenta caratteri molto diversi da quelli della fase coloniale e post-coloniale, in cui hanno preso corpo le tradizionali prospettive di ricerca in etnopsichiatria, psichiatria transculturale ed etnopsicologia. Si differenzia anche dalla fase della globalizzazione euforica in cui quelle tradizioni si sono sviluppate (es. passaggio dall’etnopsichiatria generale all’etnopsichiatria clinica). Forse la fase attuale si potrebbe descrivere come globalizzazione apocalittica, ma delinearne gli elementi salienti è un’impresa che va oltre quanto è possibile in questa sede. Occorre tuttavia chiedersi se non siano ormai cambiate in profondità le realtà antropologiche e cliniche che si incontrano e quindi quali cambiamenti metodologici e teorici sia necessario apportare.
Il migrante attuale (nella versione esemplare del richiedente asilo/rifugiato) non si lascia ridurre alla sua versione bipolare tipica (cioè non presenta le stesse caratteristiche e qualità del migrante economico di un tempo). Egli non può essere ricondotto solamente alle polarità costituite dalla società di origine e dalla società di approdo (o alle polarità correlate: inculturazione vs. acculturazione per i processi antropopoietici; perdita del legame con la cultura di origine vs. impatto marginalizzante o acculturativo con quella di approdo per quanto riguarda i processi eziopatogentici). Il richiedente asilo esorbita dai confini definiti da queste polarità sia per quanto riguarda la sua fabbricazione (antropopoiesi), sia per quanto riguarda la sua degradazione o perturbazione psicopatologica (eziopatogenesi).
Da una parte, il viaggio è diventato un periplo che – per la sua durata e per le caratteristiche che ha assunto negli attuali territori di transito – assurge sistematicamente a terza polarità acculturativa e eziopatogenetica. Dall’altra esiste anche un’ulteriore polarità che si interpone e che attraversa tutte le altre (contesti materiali di origine, di transito e di approdo). Questa ulteriore polarità è costituita dal contesto immateriale e virtuale delle telecomunicazioni e di internet. Lo spazio virtuale costituisce sempre più un motore acculturativo ulteriore e si può sostenere un suo ruolo significativo anche in alcuni processi eziopatogenetici. Esso inoltre riconnette in tempo reale – benché in forme immateriali – l’origine e l’approdo di modo che cambiano anche i processi tipici del contatto fra culture.
Queste due ulteriori polarità antropopoietiche ed eziopatogenetiche sono intrinsecamente molteplici e diventa pertanto assai complicato individuare la “mediazione giusta” per accedere ad esse. Il viaggio è sempre caratterizzato da tappe e soste prolungate e spesso coincidenti con processi di istituzionalizzazione intensivi (in carceri, in campi profughi o in strutture di accoglienza di un tipo o dell’altro), con effetti destrutturanti sulle soggettività di chi è in fuga. Internet contiene in sé tutte le molteplicità possibili, o comunque permette un certo tipo di accesso ad esse.
È importante considerare quali effetti abbia sulla clinica questa qualità multipolare degli attuali flussi di popolazione e in particolare: rispetto al modo in cui – nei diversi contesti antropopoietici ed eziopatogenetici – le dimensioni culturali plurime e antagoniste si danno e si presentano; rispetto ai modi attraverso cui simili dimensioni culturali partecipano alla produzione e alla messa in forma della sofferenza individuale.
Nel caso dei richiedenti asilo e rifugiati la dimensione culturale viene in qualche modo trasfigurata dalle necessità e dai vincoli imposti dalle modalità legittime di attraversamento delle frontiere (richiesta asilo). Si assiste cioè al suo capovolgimento e alla sua sovversione in conseguenza di pressioni esterne al soggetto. Il capovolgimento e la sovversione riguardano: il rapporto fra ciò che deve restare riservato all’interno del gruppo e ciò che può essere detto all’estraneo (svelamento dei segreti); la relazione richiedente asilo o rifugiato col gruppo di origine (che diventa persecutore) e col gruppo di accoglienza (che diventa protettivo); la relazione temporale, logica e causale fra ciò che è interno (psichico) e ciò che è esterno (culturale).
Le diverse forme di persecutorietà sociale e culturale (stregoneria, possessione, ecc.) ricevute dai contesti di provenienza vengono sottoposte a processi che rischiano di piegarle e ridurle, da un lato, a ideazione persecutoria (nella clinica e nei processi di certificazione), dall’altro a persecuzione “politica” (nel senso che ne vengono esaltati alcuni aspetti – assenza di protezione da parte dello stato nelle sue varie articolazioni funzionali e operative – e ne vengono depotenziati altri – obliterazione delle forme di regolazione sociale non-statali e legate a saperi assoggettati e contrastati dalle varie forme di modernità religiosa o culturale; depotenziamento di una qualunque possibilità di agency della “vittima” o dei gruppi di vittime).
La piegatura della persecutorietà culturale nel senso dell’ideazione persecutoria è soprattutto promossa dalla società accogliente (ad es., attraverso i processi pedagogici psicagogici connessi alla richiesta di asilo; cfr. 3). La sua piegatura in persecuzione di tipo politico è frutto invece di un’interazione più complessa. In prima battuta effettuata dal richiedente asilo e rifugiato in forma spontanea o per induzione. Tale corso può essere intrapreso per necessità tattiche proprie del richiedente e promosso da vincoli giuridici esterni. Successivamente, in modo variabile e non sempre lineare, la persecuzione – divenuta politica – è accettata dalla società accogliente (sempre all’interno dei percorsi per il riconoscimento della protezione internazionale).
Tutte quante queste forme di persecutorietà possono infine essere complicate e deformate dai processi traumatici cumulativi intercorsi nel corso del viaggio migratorio.
In tutti i contesti interattivi che punteggiano i percorsi di riconoscimento della protezione internazionale, la dimensione culturale viene in questo modo esposta, ingenerando peculiari reazioni controtransferali nell’altro accogliente: abbaglio, incredulità, orrore, e così via. L’esposizione finisce per configurarsi come possibile declinazione della dimensione culturale, a fianco di quelle già repertoriate per altre tipologie migratorie e che continuano ad avere il loro valore euristico per la clinica contemporanea:
- l’occultamento della dimensione culturale originaria per fedeltà al segreto, per timore di non essere creduti o per paura del giudizio e dell’anatema culturale (in particolare nelle prime generazioni di migranti economici, ma anche in una quota più o meno rilevante di richiedenti asilo e rifugiati);
- il mascheramento della dimensione culturale originaria (attraverso l’adozion di forme culturali autoctone con il mero scopo di eclissare quelle originarie);
- l’oblio/interdizione della dimensione culturale originaria, che si possono incontrare in modo più o meno radicale nelle adozioni internazionali e anche nei figli di coppie miste. Forme di oblio o di interdizione delle dimensioni culturali originarie si incontrano anche nelle persone convertite e nella loro discendenza oppure in quelle sottoposte a programmi collettivi o individuali di trasformazione: rivoluzione culturale cinese, adesione o iniziazione traumatica a versioni fondamentaliste dell’Islam, e così via).
In ogni caso, la multipolarità dei contesti antropopoietici dispiega una pluralità di attaccamenti possibili per il richiedente asilo e il rifugiato. Si tratta di attaccamenti a oggetti, teorie, etiche, ontologie che configurano una pluralità di processi di soggettivazione fra loro eterogenei e tendenzialmente divergenti e competitivi. Diventa pertanto sempre molto complicato capire a quale soggetto ricondurre gli enunciati sintomatici attraverso cui il richiedente asilo o il rifugiato si presentano. Di fatto la clinica mette spesso in evidenza situazioni di impossibilità, difficoltà e inciampo nella composizione fra simili attaccamenti competitivi (ad es., le vittime di tratta; cfr. 10). Occorre inoltre considerare come alcuni attaccamenti non abbiano affatto una valenza produttiva dell’umano (poiesis), ma al contrario decisamente distruttiva (ad es., la tortura). Anche qui tuttavia occorre specificare che la tortura politica colpisce l’altro identificandolo come oppositore (anche nella forma più passiva possibile in quanto semplicemente non aderente all’ideologia di turno o non appartenente a un certo gruppo umano). Tale identificazione gli riconosce, almeno implicitamente, un’identità specifica che la vittima, a sua volta, può assolutizzare in modo militante, ovvero assumere contrastivamente. Nelle forme di tortura praticate in alcuni paesi di transito (come ad esempio quelle che sistematicamente si riscontrano in Libia) la vittima diventa tale semplicemente perché passante qualunque. Da un lato, si tratta di una tortura di rapina ed estorsione, che colpisce le persone in quanto capaci di sollecitare il soccorso (economico) di altri (in genere familiari). Dall’altro, di una tortura logistica volta alla gestione efficiente del traffico (11). La tortura politica crea – o può creare, nella misura in cui ne residuano capacità e forze vitali nella vittima – militanza identitaria, anche transgenerazionale e questa identità (di volta in volta, politica, religiosa, etnica...) può andare a rappresentare la base a partire dalla quale può essere recuperata o costruita una capacità di operare nel mondo. Rimane ancora da chiarire se la tortura logistica, di rapina ed estorsione sia capace di “creare” – in modo paradossale e tragico, ovviamente – qualcosa di comparabile nelle sue vittime.
Bibliografia
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5) Zorzetto S. Clinica in regime di frontiera. Il sistema di accoglienza e i problemi di salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati. Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici, 2020; 20. https://www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it/volume-20/clinica-regime-frontiera-sistema-accoglienza-salute-mentale-richiedenti-asilo-rifugiati
6) Sironi F. Maltraitance théorique et enjeux contemporains de la psychologie clinique. Pratiques psychologiques. 2003; 4: 3-13.
7) Cardamone G., Zorzetto S., Un nuovo territorio per la salute mentale. In Inglese S., Cardamone G. (con la collaborazione di Zorzetto S.) Déjà vu 3. Complementi di etnopsichiatria critica. Milano: Edizioni Colibrì. 2022: 295-324.
8) Inglese S. A sud della mente. Etnopsichiatria e psicopatologia delle migrazioni in sei movimenti”. In Attenasio L., Casadei F., Inglese S., Ugolini O. (a cura di). La cura degli altri. Seminari di etnopsichiatria. Roma: Armando editore. 2005: 61-163.
9) Giuffré M., Riccio B. Prospettive transnazionali ed etnografie multilocali in Italia. L’Uomo. 2012; 1-2: 309-319.
10) Zorzetto S., Inglese S. Donne venute da Edo. Servitù prostitutiva come macchina astratta di seduzione e cattura. Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici. 2018; 16. https://www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it/volume-16/donne-venute-edo-servitu-prostitutiva-macchina-astratta-seduzione-cattura
11) Rossi M. «Pensavo di essere libero, e invece no». Debiti, violenze, sfruttamento dei trafficanti nelle memorie autografe dei rifugiati. Una ricerca su fasi, attori e profili della migrazione forzata contemporanea. Todi (PG): Tau Editrice. 2021.