Volume 26 - 31 Luglio 2023

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Dal monologo al polilogo esogamico: per un ecocentrismo responsabilizzante della Cura

Autore

Ricevuto il 11/05/2023 – Accettato il 25/05/2023



Riassunto

Il contributo cerca di esplorare la sofferenza del "curante" da tre diverse prospettive monologiche: quella di un trentenne, quella di un operatore della salute mentale e quella di un Dipartimento di Salute Mentale dei nostri tempi.
Nel primo monologo, il trentenne riflette sulla frammentazione del sapere e la molteplicità delle alternative nella società post-moderna. Si sente confuso nel caos delle trasformazioni sociali, culturali e digitali. Sottolinea l'importanza e allo stesso tempo la profonda difficoltà nel trovare un orientamento in questo contesto complesso.
Nel secondo monologo, un operatore della salute mentale riflette sulla professione e sul cambiamento del ruolo dell'operatore nel tempo. Si interroga sulla deistituzionalizzazione e la responsabilità della comunità nella cura della follia. Si pone domande su come promuovere un dialogo creativo e intergenerazionale per superare la tradizionale cultura del sacrificio e affrontare le sfide attuali. Nel terzo monologo, il Dipartimento di Salute Mentale inteso come soggetto pensante, esprime le sue preoccupazioni circa il suo poter essere in grado di proteggere e tutelate i propri dipendenti dal superlavoro, dalla disorganizzazione che genera stress e burnout, dalla crisi della risorse.
Il testo termina con due proposte aperte: la possibilità di trasformare i monologhi in poliloghi esogamici per generare nuove pensieri e soluzioni; la promozione di una cultura ecocentrica della responsabilità diffusa.


Abstract

The paper attempts to explore the suffering of the "caregiver" from three different monologue perspectives: that of a 30-year-old, a mental health worker, and a Mental Health Department of our times.
In the first monologue, the 30-year-old man reflects on the fragmentation of knowledge and the multiplicity of alternatives in post-modern society. He feels confused in the chaos of social, cultural and digital transformations. He emphasizes the importance and in the meantime the profound difficulty in finding orientation in this complex context.
In the second monologue, a mental health worker reflects on the profession and the changing role of the practitioner over time. He questions deinstitutionalization and the responsibility of the community in the treatment of insanity. He asks questions about how to promote creative, intergenerational dialogue to overcome the traditional culture of sacrifice and address current challenges.
In the third monologue, the Mental Health Department understood as a thinking subject, expresses its concerns about whether it can be able to protect and safeguard its employees from overwork, disorganization that generates stress and burnout, and the resource crisis.
The paper ends with two open-ended proposals: the possibility of turning monologues into exogamous polylogues to generate new thoughts and solutions; the promotion of an ecocentric culture of widespread responsibility.


In questo mio breve intervento vorrei provare a orientare lo sguardo (ovviamente parziale, dalla mia specifica angolatura) in direzione del lato d’ombra della cura. Per farlo vorrei iniziare con il ricordare la figura di Chirone (maestro di Asclepio) che attraverso la propria sofferenza aveva appreso l’arte della cura. Secondo l’interpretazione del mito infatti sembrerebbe che ogni buon curante è almeno potenzialmente, un “guaritore ferito”, ed è proprio tenendo presente la propria ferita che può curare gli altri, usandola come uno spazio simbolico in cui lasciar entrare l’angoscia e il dolore del paziente, così da permettergli di comprenderlo e di prendersene cura. È quindi di questa ferita che vorrei parlare, delle questioni che apre, della confusione angosciosa che lascia passare attraverso.

Vorrei provare a farlo osservandola da 3 angolazioni diverse ma a mio parere intimamente interconnesse, attraverso cioè il monologo di un trentenne, di un operatore della salute mentale, di un dipartimento di salute mentale del 2023. Saranno 3 brevi monologhi ovviamente insaturi ovviamente parziali, che spero possano essere utili e riutilizzati nel dibattito futuro.


1. Il monologo sulla Ferita di un trentenne del 2023:

Riprendendo Lyotard nel suo saggio sulla condizione post-moderna, i grandi metaracconti di riferimento si sono ormai consumati, né sono stati sostituiti da costruzioni altrettanto forti e unitarie. La loro frantumazione ha fatto emergere la pluralità e le differenze e ha moltiplicato le forme del sapere. Non nutro nostalgia per l'unità e la totalità perduta, ma come mi oriento in questa esplosione colorata del molteplice, frammentato, polimorfo e instabile? Anche Feyerabend nel saggio contro il metodo e con il suo anarchismo epistemologico, fa venire il mal di testa a pensare quanto l’idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa della razionalità, poggia su una visione troppo ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale. Mi diventa chiaro che la conoscenza è come un oceano sempre crescente di alternative reciprocamente incompatibili e forse anche incommensurabili. Metodologia pluralistica, verità come processo, confini che sconfinano continuamente l’uno nell’altro contaminandosi, intrecciandosi fluidamente in topologie quantistiche che non immaginavo. Ma quindi davvero anything goes, tutto può andar bene?

Mi sento confuso tra le strade della città che non dorme mai, che è come una sfera infinita in cui ogni punto pensabile è il centro pulsante, tra le trasformazioni radicali che stanno attraversando istituti come lo Stato, la Famiglia, l’identità, la Realtà stessa con l’avvento del digitale. A volte sembra di attraversare profonde fasi di crisi della presenza in questo caleidoscopico flusso di informazioni che arrivano dappertutto e dappertutto ripartono. Il campanile di Marcellinara tanto caro al pastore raccontato da De Martino insomma, è ben che lontano, e chissà anzi che ne hanno fatto le nuove giunte comunali.


2. Il monologo sulla Ferita di un operatore della salute mentale del 2023:

Psichiatra o operatore della Salute Mentale? E anche sul “della” si potrebbe riflettere. Parlando con i colleghi che lavorano da più tempo nei servizi li ascolto raccontare di un’altra psichiatria di un tempo che ormai sembra non esserci più. Il mito motivante della deistituzionalizzazione e della costruzione dei primi servizi territoriali che potessero contenere l’esondazione della “follia” dalle mura manicomiali, sembra averne lasciati molti stanchi e annoiati. Come se quella spinta non reggesse più, non avesse più presa ai tempi di oggi. Ma infatti a pensarci, i manicomi sono stati chiusi le persone sono state distribuite tra propri domicili o quelli dei familiari, in case alloggio o residenze, di che ci lamentiamo? eppure sembra di essere sempre allo stesso punto, insoddisfatti. Ma a pensarci ancora meglio non era forse questo il discorso basagliano. Non era chiudere il manicomio per ridistribuirlo capillarmente nelle comunità costruendo servizi efficientissimi. Forse, almeno per me, il sogno di Basaglia era ridare alla comunità la responsabilità di prendersi cura della sua propria follia, insieme ovviamente al servizio offerto dai servizi. Ma come quindi? Ci sono spazi in cui stiamo pensando a nuovi modi per farlo oggi, qui e ora? Senza il balsamo dolce della nostalgia di un tempo mitico passato o la polemica rabbiosa adolescenziale che tutto pretende ma niente propone? Come promuovere un vero e sano dialogo intergenerazionale creativo e propositivo al di fuori della posizione diffusa del “io il mio l’ho fatto il resto mo so chiagn o frisc”?

Entrare in alcuni servizi oggi sembra un viaggio nel tempo attraverso cunicoli spazio-temporali. Che gli metto? Dove lo metto? Cosa scrivo in cartella? Sembra di lavorare in fabbrica, ma con più angoscia. Qual è la tua storia? Che traccia sei di un racconto familiare, di un quartiere? Che cosa puoi o ti va di fare per la tua comunità di appartenenza? C’è ancora spazio per queste domande? C’è ancora una comunità? I servizi per come li conosco sono stati costruiti per altri tipi di persone con disagio mentale, sono espressione di un’epoca che rimane viva ma solo in parte. Sono arrivati i giovani con le loro crisi vitali, sono arrivati gli anziani e le loro famiglie “che non ce la fanno più”, le persone che hanno storie di forti dipendenze da sostanze e le loro compagne, è arrivato chi ha perso il lavoro per la crisi economica, sono arrivati i padri, siamo arrivati noi giovani totalmente diversi dai giovani che trent’anni fa sono entrati con gli ultimi concorsi pubblici. Riuscirò a tenere acceso il fiammifero nella notte per andare a cercare altri fiammiferi nella notte, o anche io sceglierò altro, andrò altrove, per sopravvivere, per difendermi?


3. Il monologo sulla Ferita di un Dipartimento di Salute Mentale del 2023:

Come faccio a proteggere i miei dipendenti? Dal superlavoro e dalla disorganizzazione, dalle attese irrealistiche dell’utenza, dalla carenza di protezione e di sostegno da parte delle altre istituzioni pubbliche, il tribunale le forze dell’ordine, i comuni e gli affari sociali, come posso difenderli anche dalla scarsa cura di sé e dalla tradizionale cultura del sacrificio e dell’onnipotenza terapeutica che li affligge, dallo stress e il burnout? Come muovermi tra le criticità che indeboliscono il sistema sanitario e i suoi professionisti, dai conflitti cronici alle dimissioni premature, dalla medicina difensiva agli errori e agli incidenti clinici, dalle difficoltà di reclutamento dei sanitari al caos nei pronto soccorso? In effetti quasi ovunque lavorano tuttora a ritmi infernali, con organici ridotti, scarse misure protettive, protocolli incerti, istruzioni contraddittorie e in organizzazioni precarie, piene di ostacoli burocratici e governate a volte in modo discutibile. E loro pensano che io non lo sappia? Che non li porti con me nei miei sogni e nei miei incubi di notte? Nel tempo delle organizzazioni volatili, incerte, ambigue e complesse che non seguono più soltanto logiche lineari, ma sono immerse e disperse in sistemi caotici al disequilibrio imprevedibili e magmatici, come ricavarmi uno spazio per pensare? Ecco perché a volte scelgo risposte stereotipate, abitudinarie, ecco perché a volte mi affido al “si è sempre fatto cosi”, perché ho paura, perché l’ignoto mi mette tanta ansia, perché mi sento in colpa per la crisi che i miei operatori esprimono come possono, con le turbolenze aggressive delle loro riunioni, con l’esagerata mobilità e il turn-over, con le malattie infinite, con la diminuzione delle prime visite o l’aumento dei trattamenti sanitari obbligatori. Io li stimo, li ammiro, ma da solo non posso fare altro che quello che faccio.


Concludo riportando a partire da questi tre monologhi due questioni aperte che mi danno molta speranza e fiducia:

  1. Poliloghi ed esogamia:
    È possibile fare in modo che i monologhi diventino poliloghi? attraversando una fase ovviamente babelica ed incomprensibile per emergere con nuove forme dal caos utilizzabili al servizio dei servizi? È possibile riattivare canali di comunicazione tra persona, operatore, istituzione, e aprire i ponti per rapporti esogamici con le altre istituzioni, con gli altri gruppi, con gli altri movimenti, insomma con la comunità, al di là dell’incestuosa relazione di noi con noi stessi?
  2. Ecocentrismo e responsabilizzazione diffusa:
    Alcuni hanno detto che il più grande problema dell’uomo è “che cosa ne fa della sua cacca”. Recentemente, come scrive Morton teorico degli iperoggetti a proposito del cambiamento climatico, siamo costretti a pensare che “quando scarichiamo l’acqua del WC, immaginiamo che il sifone porti via i rifiuti in un regno ontologicamente alieno. L’ecologia ci parla di qualcosa di molto diverso e cioè di un mondo in cui non c’è nessun altrove”. Queste citazioni mi portano a chiedermi se forse si potrebbe pensare la funzione della cura non come uno scettro in mano ad un unico soggetto supposto sapere, ma almeno ad un gruppo di attori coinvolti ognuno con le proprie competenze e orientati ad uno spettro di obiettivi sufficientemente comuni. Parlo cioè dell’invito alla responsabilità, che sia però una responsabilità diffusa e quindi non eroica-narcisistica del singolo operatore, del singolo centro, della singola ASL. Ma che sia un movimento gruppale all’ interno delle istituzioni, o quanto meno ai margini di esse, tra di esse, al di là di vecchi paradigmi da feudalesimo medievale “questo è mio, questo è tuo”; un movimento fatto di operatori e cittadini sufficientemente sani e con un buon rapporto con la speranza, facilitati dall’occasione dell’incontro reciproco, che possono, citando Guelfo Margherita, “aprirsi gruppalmente uno spazio entro cui sia possibile avviare un movimento antientropico che costruisca abbozzi di pensiero e di salute mentale”.

Infine, trascrivo pochi versi di una canzone di Vinicio Capossela: “con i tasti che ci abbiamo solo quelli suoneremo, una melodia sdentata una melodia trovata. Con i tasti che ci abbiamo bianchi e nero giocheremo, e di un limite faremo una possibilità”.