Volume 26 - 31 Luglio 2023

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Disturbi “stranamente” familiari

Autrice

Ricevuto il 22/12/2022 – Accettato il 10/01/2023



Riassunto

A partire dalla lettura di un testo etnografico e dall’analisi di alcuni concetti antropologici (etnocentrismo, antropopoiesi, incorporazione e iatrogenesi), l’articolo che segue si propone di dimostrare come l’Antropologia possa arricchire la Biomedicina di nuove prospettive fondate sul riconoscimento di ciò che rende gli esseri umani simili e, al contempo, diversi.


Abstract

Starting from the reading of an ethnographic text and the analysis of some anthropological concepts (ethnocentrism, anthropopoiesis, incorporation and iatrogenesis), the following article aims to show how Anthropology can enrich Biomedicine with a new perspectives based on the recognition of what makes human beings similar and different at the same time.


1)

Nel 1956 su American Anthropologist, rivista di punta dell’American Anthropological Association (AAA), appare un breve articolo di un professore dell’Università del Michigan, Horace Miner, su una popolazione stanziata nel continente nordamericano, i Nacirema (1).

Miner ne offre una descrizione etnografica in quanto li ritiene un esempio estremo del comportamento umano: dominati dalla magia, essi trascorrono gran parte del tempo svolgendo bizzarre attività rituali per scongiurare la malattia. Alla base del loro cerimonialismo sembra esservi l’idea che il corpo umano sia brutto e predisposto ad ammalarsi: «[…] l’unica speranza dell’uomo è di contrastare tali caratteristiche utilizzando il potere del rituale e della cerimonia. Ogni famiglia possiede una o più aree sacre dedicate a questo scopo».

Soprattutto la bocca è fonte di preoccupazione in quanto i Nacirema credono «che la sua condizione abbia un’influenza sovrannaturale su tutte le relazioni sociali». Di conseguenza, essi ne fanno oggetto di quotidiane attività apotropaiche: «il rito consiste nell’infilare in bocca un piccolo fascio di peli di maiale, con certe polveri magiche, muovendolo secondo una serie di gesti altamente formalizzati». Periodicamente gli individui si recano anche da uno specialista: «Questo sacerdote ha un impressionate corredo di parafernalia, consistente in una varietà di trapani, punteruoli, sonde e punzoni. L’utilizzo di tali oggetti per estirpare il male dà vita a incredibili torture […]».

In ogni comunità di qualsiasi dimensione gli stregoni esercitano la loro funzione in un grande edificio sacro, chiamato latipso: «Le cerimonie più elaborate per la cura dei pazienti molto malati possono essere eseguite solo in questo tempio».

I sofferenti non ricevono pozioni medicamentose, ma indicazioni scritte in una lingua decifrabile soltanto da pochi individui: «La scrittura è compresa solo dagli stregoni e dagli erboristi che, in cambio di ulteriori doni, forniscono l’amuleto richiesto. Quest’ultimo non viene smaltito dopo essere servito al suo scopo, ma è riposto nella scatola degli incantesimi nel santuario della casa. Poiché questi oggetti magici sono specifici per certi mali e dal momento che le malattie reali o immaginarie delle persone sono molte, la scatola degli incantesimi è solitamente piena fino a traboccare».

Altra figura importante nell’ambito della cura è il cosiddetto ascoltatore, specializzato nell’affrontare i problemi di salute psicofisica trasmessi dai genitori (in particolare dalle madri) ai propri figli. In questo caso, la contromagia consiste nell’indurre e nell’ascoltare i ricordi dei malati: «La memoria mostrata dai Nacirema in queste sessioni di esorcismo è davvero notevole. Non è raro che il paziente si lamenti del rifiuto che ha provato dopo essere stato svezzato da bambino e alcuni individui fanno addirittura risalire i loro problemi agli effetti traumatici della stessa nascita».

Infine, i Nacirema si sottopongono ad alcune pratiche che palesano la loro avversione verso il corpo e le sue funzioni: «Ci sono digiuni rituali per far dimagrire le persone grasse e feste cerimoniali per far ingrassare le persone magre. Altri riti ancora servono per rendere i seni delle donne più grandi se sono piccoli, e più piccoli se sono grandi».

Miner aggiunge altri dettagli sui comportamenti «masochistici», della popolazione nordamericana senza mai svelare un’informazione fondamentale per la reale comprensione dell’articolo: l’esotico mondo dei Nacirema è, in realtà, la società statunitense degli anni ‘50.

L’etnonimo fantasioso, letto al contrario, diventa infatti un termine geoculturale reale: American. Inoltre, se si riesamina il testo alla luce di questa rivelazione, le eccentriche abitudini nacirema si rivelano quelle della società statunitense o, più in generale, dell’Occidente. Sembrano insolite semplicemente perché vengono descritte dalla prospettiva “esterna” dell’antropologo, il professionista che nei suoi resoconti racconta riti, cerimonie e norme di popoli remoti e sconosciuti per renderne comprensibile la cultura altrimenti indecifrabile.


2)

Attraverso l’omissione di una sola informazione e la presentazione insolita di pratiche ordinarie, Miner dimostra la naturale attitudine degli esseri umani a ritenere il proprio modo di vivere il solo sensato e tutto ciò che non è conforme ad esso come irrazionale. Chi legge l’articolo è spinto a formulare l’ipotesi più semplice, quella che richiede gli assunti più plausibili: il testo è una descrizione etnografica; dunque, riguarda una popolazione ignota all’osservatore e al lettore, che si presume condividano la stessa cultura; di conseguenza la popolazione descritta, poiché osservata da un punto di vista esterno, risulta “diversa”, quindi “esotica” e, in ultima analisi, “bizzarra” (2).

Nel corso della storia, per giustificare la diversità umana si è fatto ricorso a due tipi di argomenti. Il primo presuppone l’esistenza di popoli con un differente patrimonio genetico che influirebbe su capacità intellettuali e disposizioni morali. Questa è la tesi dei razzisti. Il secondo argomento è la teoria evoluzionistica, per la quale le varie culture sarebbero collocate in differenti stadi evolutivi sull’unica via che tutte le società dovrebbero necessariamente percorrere verso il progresso.

Entrambi gli argomenti non possono essere accettati né giustificati. D’altro canto, l’attitudine ad assumere come universali i modelli della propria cultura corrisponde a un insopprimibile e universale bisogno d’identificazione con un mondo dato, per cui un totale riscatto da tale atteggiamento è irrealizzabile oltre che indesiderabile.

In Antropologia si parla in proposito di etnocentrismo o, meglio, di attitudine etnocentrica, che fa sì che le persone pongano il proprio gruppo culturale al centro dell’universo e tutti gli altri ai margini (3).

Ogni membro di una cultura è, infatti, simile a un individuo, seduto all’interno della carrozza di un treno, che osserva la realtà esterna attraverso il finestrino. Il suo sguardo sul paesaggio circostante è condizionato dalle deformazioni che il sistema treno (la cultura) gli impone (4).

Nessuna società ha, perciò, una visione del mondo più autentica o completa di un’altra; nessuna è migliore o più evoluta. Ogni gruppo umano “ritaglia” l’esperibile secondo il sistema categoriale posseduto, che serve a interpretare il mondo, a volte in modo frettoloso ed erroneo.

L’unica possibilità di evadere dalla prigione delle categorie interpretative è data dall’impiego dell’etnocentrismo critico, ossia dalla consapevolezza che tali categorie sono maturate nella storia della propria cultura (5). In altri termini, è come se dovessimo imparare a trasformare ciò che di solito funge da spiegazione in qualcosa che deve essere spiegato (6).

Per esempio, la Biomedicina è un’istituzione culturale e – in quanto espressione di una specifica tradizione ideologica ed epistemologica prodotta all’interno di un determinato contesto storico, politico e sociale – rischia di imporre norme e valori etnocentrici nell’incontro clinico. Si pensi alle esperienze dissociative: sono ritenute patologiche in Occidente mentre vengono utilizzate come leve terapeutiche in altri luoghi del mondo. Quando si manifestano in tali contesti, rispettando un copione culturale, non indicano una patologia. La diagnosi di dissociazione patologica richiede, perciò, un’attenta valutazione del contesto culturale in cui il comportamento si palesa (7).


3)

Un’altra interessante questione antropologica sollevata dall’articolo di Miner riguarda l’attività di controllo che le culture esercitano sui corpi. Le diete dei Nacirema sono i mezzi con cui essi si prefiggono di conseguire determinati risultati estetici e, soprattutto, di realizzare una certa immagine di sé.

A tutte le latitudini, gli esseri umani sembrano rifiutare di lasciare il corpo nella sua condizione accidentale. Quando succede – per esempio, tra i cinici dell’antica Grecia e i sādhu dell’India – la cultura è comunque coinvolta (in questo caso come bersaglio di una contestazione).

Nel tentativo di plasmare, cambiare, trasformare il corpo, in assenza di un modello precostituito, le società umane intervengono su di esso con un diverso grado di reversibilità e di correlata sofferenza: gli sovrappongono oggetti amovibili (es., abiti, maschere, ecc.); ne dipingono o ne marchiano la pelle (es., pitture corporali, tatuaggi, ecc.); ne modellano alcuni elementi (es., capelli, unghie, ecc.); ne plasmano la struttura muscolare (es., sport, body building, ecc.); ne modificano parti della struttura ossea (es., crani schiacciati, piedi ridotti, colli allungati, ecc.); ne tagliano porzioni (es, scarificazioni, modifiche chirurgiche di organi genitali, ecc.); vi inseriscono oggetti (es., piattelli labiali, perforazione del lobo e del setto nasale, ecc.); dilatano, allungano, accorciano o rendono operanti alcune sue parti (es., chirurgia estetica, inserimento di protesi, ecc.).

L’esigenza di intervenire sul corpo si manifesta persino quando esso va incontro al disfacimento indotto dalla morte: dalla vestizione del cadavere alla cosmesi, dalla mummificazione alla cremazione, dalle mutilazioni al cannibalismo, dalla sepoltura alla trasformazione in reliquie, le società non rinunciano ad agire nemmeno sui cadaveri dei loro defunti.

Per indicare l’incessante lavoro che impegna gli esseri umani nella ricerca e nella costruzione di forme di umanità in Antropologia si parla di antropopoiesi: una sorta di “foggiatura” che risulta nella selezione e fabbricazione di un determinato essere umano e nella contemporanea soppressione dei possibili tipi alternativi (8). I corpi – coperti, ornati, abbelliti, esibiti o, al contrario, dissimulati, ma sempre “lavorati” – offrono i segni riconoscibili delle loro provenienze culturali. Su ciascuno di essi si individua il marchio di un’appartenenza che li differenzia da altri corpi fabbricati in contesti geoculturali diversi.

In Occidente il corpo è, invece, assunto come un elemento universale, composto di elementi strettamente naturali. La Biomedicina si è sviluppata su questo assunto. Nella sua prospettiva le persone diventano corpi da salvare, da curare, da far entrare in statistiche e, persino, da rendere migliori nel tentativo di raggiungere uno stato di benessere ideale attraverso le tecnologie oggi a disposizione (farmaceutiche, riproduttive, genetiche, ecc.).


4)

L’eccessiva protezione del corpo genera un processo di medicalizzazione, che consiste nel considerare come problemi medici eventi e manifestazioni d’altra natura. Gli effetti negativi di questa distorsione, che a sua volta determina l’uso improprio o eccessivo dei servizi sanitari, si definiscono iatrogeni. La iatrogenesi si distingue in clinica, sociale e culturale (9).

La iatrogenesi clinica rinvia alle conseguenze dannose dell’intervento terapeutico inflitte nell’intento di curare il paziente: una diagnosi sbagliata, una medicina errata, un’operazione inopportuna, un’infezione contratta in ospedale, ecc.

La iatrogenesi sociale insorge ogniqualvolta il sistema sanitario produce stress, induce nuovi bisogni e spinge le persone a diventare consumatrici di medicina preventiva.

Infine la iatrogenesi culturale si manifesta quando certe capacità umane (es., soffrire, sopportare la realtà o morire della propria morte), tramandate culturalmente attraverso le generazioni, vengono prima indebolite e poi, gradualmente, sostituite dall’aspettativa che ogni sofferenza possa e debba essere immediatamente alleviata; un atteggiamento che, in realtà, non pone fine all’afflizione, ma la trasforma in un’anomalia o un fallimento tecnico, rendendola perciò insignificante.


5)

Poiché l’incontro clinico favorisce un approccio fondato sul corpo del paziente e quest’ultimo viene di solito osservato separato dal suo ambiente sociale e culturale, un approccio medicalizzato è di fatto inevitabile.

Tuttavia, gli esseri umani non hanno semplicemente un corpo: sono essi stessi corpi che vivono il mondo, sono al contempo naturali e culturali, soggetti e oggetti di esperienza e di rappresentazione, inseriti in campi di forze che agiscono in misura determinante sulla loro condizione e sui quali essi stessi esercitano la propria agentività (nota 1) in un particolare momento storico. Ogni corpo è dato dall’intreccio di almeno tre dimensioni: individuale, vissuta in prima persona nell’esperienza e nella produzione del proprio sé; sociale, costruita attraverso gli usi rappresentativi del corpo in quanto simbolo; politica, conseguente alla regolamentazione, alla sorveglianza e al controllo dei corpi individuali e collettivi (ciò che Foucault chiama biopotere e Agamben nuda vita).

Il corpo è anche lo specchio della violenza strutturale, una forma indiretta di violenza che deriva da particolari assetti sociali caratterizzati da profonde disuguaglianze e che espone alcune persone a specifici rischi e vulnerabilità (10).


6)

Per l’Antropologia, dunque, la malattia non è soltanto una realtà biologica che trascende la cultura ed evoca l’intrusione della natura nella vita degli esseri umani, come presuppone la Biomedicina. Non è nemmeno una sofferenza a cui la cultura dà semplicemente una “forma” (funzione patoplastica del disturbo) per cui la persona malata selezionerà, senza esserne necessariamente consapevole, comportamenti e segni spendibili nel processo di comunicazione con il suo gruppo di appartenenza. La malattia rappresenta una forma di comunicazione attraverso cui natura e cultura “parlano” simultaneamente e il corpo degli individui è uno spazio di resistenza, creatività e lotta (11).

Ciò non vuol dire negare quanto la Biomedicina ha finora scoperto e realizzato, ma significa arricchire il suo approccio di nuove prospettive. È infatti nel dialogo con l’Antropologia che la clinica occidentale può avere l’opportunità di sviluppare un maggiore senso critico verso i propri modelli culturali e professionali, di riconoscere le posizioni di potere, dominio e subordinazione che plasmano le relazioni di cura e, infine, di ripensare, alla luce di tutto ciò, la propria pratica.


Note

Nota 1: Secondo A. Bandura l’agentività è la capacità dell’essere umano di agire intenzionalmente nel contesto in cui vive per generare un cambiamento, indipendentemente dall’esito dell’azione.


Bibliografia

(1) Miner H. Body Ritual Among the Nacirema. American Anthropologist. 1956; 58(3): 503-507

(2) Gualtieri M. Resartus. Viaggi, scoperte e visioni di Aby M. Warburg. Soveria Mannelli: Rubbettino; 2020

(3) Sumner W.G. Folkways. A Study of the Sociological Importance of Usages, Manners, Customs, Mores, and Morals. New York: Dover Publication; 1959

(4) Lévi-Strauss C. Razza e storia, Razza e cultura. Torino: Einaudi; 2002

(5) De Martino E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino: Einaudi; 1977

(6) Latour B. Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico. Bologna: il Mulino; 2013

(7) Kirmayer L.J., Guzder J., Rousseau C. Consultazione culturale. L’incontro con l’altro nella cura della salute mentale. Milano: Colibrì; 2020. (ed. it. a cura di S. Inglese, M. Gualtieri)

(8) Remotti F. Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi. Roma- Bari: Laterza; 2013

(9) Illich I. Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Milano: Red Edizioni; 2013

(10) Farmer P., Pathologies of Power: Health, Human Rights, and the New War on the Poor. Berkeley: University of California Press; 2003

(11) Scheper-Hughes N., Lock M. The Mindful Body: A Prolegomenon to Future Work in Medical Anthropology. Medical Anthropology Quarterly. 1987; 1(1): 6-41