Volume 26 - 31 Luglio 2023

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L’approccio EB e i trattamenti psicosociali EB nella psichiatria di comunità: benefici, limiti e possibilità

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Ricevuto il 16/06/2023 – Accettato il 30/06/2023



Riassunto

L’articolo affronta il tema dell’adozione dell’approccio EBM nella psichiatria di comunità considerandone i benefici ma anche i limiti e le possibilità. Infatti, da un lato, orientare i servizi all’evidenza può favorire il diffondersi della cultura della valutazione dei propri interventi e degli esiti e una maggiore etica nella nostra disciplina in quanto, se gli psichiatri applicano l’evidenza alle decisioni di trattamento, sono guidati dalla scienza e non dai propri giudizi morali o dalle proprie interpretazioni soggettive; dall’altro ci sono aspetti nella pratica clinica della psichiatria che non si attagliano ad un approccio EB: come trattare i pazienti con problemi che non rispondono a specifiche categorie diagnostiche, come gestire i molti stalli terapeutici ( appuntamenti saltati, mancanza di partecipazione, comportamenti controproducenti) che sorgono nel corso dei trattamenti, come interpretare i sentimenti, positivi e negativi, attivati nella relazione terapeutica e come rispondere alle complicate dinamiche intersoggettive tra operatore e paziente. Viene anche trattato il problema dell’implementazione dei trattamenti psicosociali basati sull’evidenza e orientati alla recovery nei servizi di salute mentale, operazione che richiede un lungo periodo di tempo per acquisire le abilità per offrirli, la capacità di fronteggiare l’inerzia a cambiare il modo in cui si lavora e il modo in cui si interagisce con gli utenti ed un costante impegno ad insegnare allo staff le nuove tecniche e ad imparare dalle innovazioni.


Abstract

The article addresses the adoption of the EBM approach in community psychiatry by considering its benefits but also its limitations. Indeed, on the one hand, orienting services towards evidence can foster the spread of a culture of evaluating onÈs own interventions and outcomes, and greater ethics in our discipline since, if psychiatrists apply evidence to treatment decisions, they are guided by science and not by their own moral judgments or subjective interpretations; on the other hand, there are aspects in the clinical practice of psychiatry that do not fit with an EB approach: how to treat patients with problems that do not respond to specific diagnostic categories, how to handle the many therapeutic stalemates (missed appointments, lack of participation, counterproductive behavior) that arise in the course of treatment, how to interpret the feelings, both positive and negative, activated in the therapeutic relationship, and how to respond to the complicated intersubjective dynamics between practitioner and patient. The problem of implementing evidence based and recovery oriented psychosocial treatments in mental health services is also addressed, an operation that requires a long time to acquire the skills to offer them, the ability to cope with inertia to change the way one works and the way one interacts with the users, and a constant commitment to teach staff new techniques and learn from innovations.


Perché un approccio EBM nella psichiatria di comunità

Da molti anni ci si sta interrogando se gli interventi offerti dai servizi di salute mentale possano essere basati sull’evidenza scientifica, così come per tutte le altre discipline sanitarie. La medicina fondata sull’evidenza (EBM), secondo la definizione di David L. Sackett, con Archibald Cochrane fra i “padri” della EBM, è “l’ integrazione delle migliori prove di efficacia clinica con la esperienza e l’abilità del medico ed i valori del paziente”. Lo stesso concetto può essere espresso in un altro modo: la EBM è “l’uso cosciente, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze (cioè prove di efficacia) biomediche al momento disponibili, al fine di decidere la migliore assistenza per quel singolo paziente”. Tale concetto deriva dalla letteratura scientifica di ambito medico e vuole significare che è possibile basare le proprie decisioni, diagnostiche e terapeutiche, sulla valutazione critica dei risultati delle ricerche più aggiornate. Ed è qui che la EBM è profondamente etica, essendo il miglior modo di aiutare i pazienti a migliorare la loro salute. Per questo, la buona pratica è diventata sinonimo di pratica EB.

L’approccio EBM si è diffuso anche alla psichiatria, dove applicare i suoi principi ha ricevuto entusiastici appoggi per i seguenti motivi:

  • La iatrogenicità di alcuni trattamenti nei confronti dei pazienti (vedi gli effetti collaterali dei farmaci) continua ad avere una negativa influenza sull’opinione pubblica e scoraggia l’accesso ai servizi di salute mentale.
  • L’impossibilità di offrire i trattamenti psicosociali in gran parte dei servizi italiani a tutti coloro che ne avrebbero bisogno contravviene a quanto è fortemente raccomandato dalle principali linee guida internazionali (APA, NICE, etc.), le quali basano le loro indicazioni sui risultati delle ricerche.
  • La necessità di ispirare la psichiatria a valori etici è improrogabile ed è un problema che riguarda molto meno le altre discipline mediche, il cui valore etico raramente è messo in dubbio: non si chiede di destinare maggiori risorse all’oncologia, non vi sono gruppi di pressione che contestano la gastroenterologia, non c’è il timore di “pediatrizzare” e non c’è mai stato un movimento anti dermatologico!
  • La conoscenza molto parziale delle basi della patofisiologia dei disturbi mentali incrementa ancora di più il bisogno di legittimare la psichiatria come disciplina medica. Infatti, se non conosciamo ancora bene perché le persone sviluppano i disturbi mentali, su quale base distinguiamo la malattia dalla normalità? E quando facciamo questa distinzione, ci basiamo su una reale conoscenza o solo sui nostri convincimenti e sui nostri valori?

In assenza di una chiara comprensione della patofisiologia sottostante i disordini mentali, la psichiatria continua ad essere perseguitata dalla critica che i giudizi personali e morali, più che la conoscenza scientifica, formano la base della diagnosi e del trattamento. Nella scorsa generazione, la nostra professione è stata pesantemente coinvolta nella riformulazione del disordine mentale come malattia del cervello, nella ricerca sulle basi neurobiologiche della malattia mentale e nello sviluppo di legami con le case farmaceutiche, al fine di supportare la ricerca psicofarmacologica. Tale orientamento è stato anche stimolato dall’insicurezza degli psichiatri, i quali, pressati anche da colleghi di altre discipline, ritengono che potrebbero lavorare più efficacemente, se solo i disordini psichiatrici avessero una chiara e convincente base biologica o fossero dovuti ad un difetto di un singolo gene, a deficit ormonali specifici o ad anormalità strutturali patognomoniche. In tal modo, si potrebbe realizzare il sogno di una psichiatria libera da valori e giudizi soggettivi e concludere, una volta per tutte, il dibattito sulla legittimità etica della pratica psichiatrica. In questo contesto, l’approccio EBM, pur non ponendo termine alla ricerca delle basi neurobiologiche della malattia mentale, almeno offrirebbe una validazione scientifica agli interventi psichiatrici, sarebbe un modo per dimostrare che essi realmente funzionano nel trattare la malattie mentali e darebbe una risposta parziale alle critiche di mancanza di etica in psichiatria, in quanto, se gli psichiatri applicano l’evidenza alle decisioni di trattamento, sono guidati dalla scienza e non dai propri giudizi morali o dalle proprie interpretazioni soggettive. Ma come vedremo in seguito, il metodo EBM si applica alla malattia mentale in un modo del tutto particolare, enfatizzando alcuni aspetti dell’esperienza mentale, de enfatizzando altri e non liberandosi completamente dai giudizi morali. Resta la principale questione, ossia se i valori dell’EBM potrebbero aiutare la psichiatria a diventare una pratica più corretta rispetto al passato.

In sintesi, l’approccio l’EBM dovrebbe dare alla psichiatria lo statuto di pratica medica etica, legittimata scientificamente, e rinforzare la sua connessione con il resto della medicina, obiettivo per il quale una parte della nostra categoria professionale lotta disperatamente da decenni. Già nel 1980 si cercò di rendere le diagnosi più obiettive con la stesura del DSM III, definendo criteri diagnostici meno aperti alle interpretazioni degli psichiatri e, perciò, meno soggetti ai loro sistemi di valore. Gli autori svilupparono un set di criteri per ogni categoria diagnostica, ancorati primariamente a segni comportamentali, e tentarono, per quanto possibile, di evitare indicatori diagnostici di fatto arbitrari, perché non suffragati da parametri oggettivi (nota 1).

Contemporaneamente, i nuovi farmaci, con apparentemente maggiore efficacia e minori effetti collaterali, favorirono il convincimento che si era vicini ad una comprensione inconfutabile e neurologica dei sintomi.

Ma tale tentativo, per quanto apprezzabile, non ha raggiunto gli scopi che si prefiggeva. Per capirne il motivo, bisogna rifarsi ad alcune assunzioni sulla natura della malattia mentale e dei suoi trattamenti e capire se, alla luce di tali assunzioni, la pratica psichiatrica può basarsi sull’evidenza e se una psichiatria basata sull’evidenza possa essere anche etica.


La possibilità di un approccio EBM nella psichiatria di comunità: oltre il fallimento della teoria causale

In altre branche della medicina, la patogenesi (meccanismo secondo il quale si instaura un processo morboso) aiuta a distinguere le differenti condizioni patologiche e orienta verso una cura. La relazione tra causa della malattia e trattamento è confermata dai risultati di successo di quest’ultimo, per cui, se una terapia funziona, si tende a pensare che essa deve aver interferito con il meccanismo causale della patologia. Quindi, se X causa la condizione Y e il trattamento z agisce con successo su X, la condizione Y può essere curata o migliorata usando il trattamento Z.

Quando, però, la patogenesi non è ben conosciuta o quando i nostri strumenti sono insufficienti ad agire sulla causa, i trattamenti mirano solo al sollievo dei sintomi e non alla rimozione del motivo che li ha generati, esattamente come succede nella nostra disciplina.

Ciò è in contraddizione con il sistema diagnostico DSM, il quale si basa sull’assunto che la malattia mentale non dovrebbe avere uno “statuto speciale” distintivo da altre condizioni mediche generali e che la relazione tra diagnosi, trattamento ed etiopatogenesi in psichiatria dovrebbe essere simile a quella che esiste per gli altri disordini medici.

Sfortunatamente, le cose non stanno proprio così perché nel nostro settore vi sono varie possibili teorie causali (psicologiche, sociologiche, comportamentali, biologiche e relative al neuro sviluppo), che possono, singolarmente o in combinazione, predisporre ad un disturbo mentale. Tale pletora di orientamenti teoretici riflette l’assenza di un’unica e aggregante teoria della mente, condivisa da tutti coloro che operano nel campo della salute mentale.

Il suddetto pluralismo teoretico è evidente nella varietà dei trattamenti psichiatrici disponibili. Le terapie biologiche sono informate dalla teoria organicista, perché pensate per indurre cambiamenti biochimici e neurofisiologici nel cervello, che, a loro volta, dovrebbero determinare cambiamenti nell’esperienza cosciente. Al contrario, le psicoterapie operano a livello esperienziale e soggettivo, mentre la riabilitazione psichiatrica agisce a livello comportamentale e funzionale. Come questi trattamenti determinano mutamenti degli stati mentali è oggetto di dibattito. Un punto di vista è che la riabilitazione e la psicoterapia funzionano come i famaci, ossia modificando il cervello attraverso processi neurochimici, che apportano trasformazioni nella sfera cosciente e nel funzionamento.

Alla luce della teoria causale sopra descritta, quando un trattamento ha successo nel migliorare i sintomi di un disordine mentale, si dovrebbe desumere che il suo meccanismo di azione è correlato al meccanismo etiologico del disordine. Ma poiché molti differenti tipi di trattamento sembrano essere efficaci nel cambiare gli stati mentali, la capacità della psichiatria di risolvere la questione dell’etiologia dei disturbi psichiatrici resta limitata come quella della filosofia.

Come disciplina medica, però, lo scopo ultimo della psichiatria è una guarigione efficace. È qui che la EBM le potrebbe essere di aiuto poiché, anche se non abbiamo una robusta conoscenza della patogenesi dei disordini psichiatrici, la ricerca può comunque essere usata per testare l’efficacia delle terapie.

Infatti, secondo la EMB, la comprensione della patogenesi di una malattia non è considerata essenziale o necessaria per definire se i trattamenti sono efficaci. Quindi, il campo della psichiatria ben si adatterebbe ad adottare un approccio EBM, perché gli psichiatri non devono strettamente dipendere dalle spiegazioni patogenetiche del disturbo e dai meccanismi attraverso cui agiscono i farmaci, entrambi, invece, così ben definiti in altre discipline mediche.

Quindi, la EBM offrirebbe al settore della salute mentale l’opportunità di capire se un intervento è efficace senza necessariamente aver chiarito cosa causa il disordine mentale e senza dover affrontare questioni filosofiche spinose sulla sua natura. Ciò potrebbe aiutare la psichiatria a stabilire la sua credibilità scientifica, anche in assenza di una chiara conoscenza della patofisiologia.

Altro aspetto che differenzia la psichiatria dalla gran parte delle specialità mediche, nelle quali i dati ottenuti nella valutazione clinica si verificano con strumenti di vario tipo (esame fisico, tecniche di laboratorio o indagini di imaging), è che l’incontro con il paziente ricorda l’intervista fatta nella ricerca qualitativa (orale, esplorativa e individualizzata) ed è strutturato sia per perseguire scopi diagnostici e terapeutici sia per avere un quadro accurato della persona e non solo della malattia. Quindi, il colloquio psichiatrico ha finalità sia quantitative sia qualitative: quantitativamente, permette di enumerare i sintomi e di valutare la loro severità, usandoli per classificare ogni paziente come un esempio di una più generale categoria diagnostica; qualitativamente, chiarisce la narrativa individuale del paziente e contribuisce ad estrapolarne suo significato.

L’approccio EB potrebbe supportare le decisioni derivanti dai dati quantitativi della valutazione psichiatrica ma non potrebbe mai comprendere la dimensione qualitativa del nostro lavoro.


Limiti dell’approccio EBM nella psichiatria di comunità

Ci sono quindi aspetti nella pratica clinica della psichiatria che non si attagliano ad un approccio EB: come trattare i pazienti con problemi che non rispondono a specifiche categorie diagnostiche, come gestire i molti stalli terapeutici ( appuntamenti saltati, mancanza di partecipazione, comportamenti controproducenti) che sorgono nel corso dei trattamenti, come interpretare i sentimenti, positivi e negativi, attivati nella relazione terapeutica e come rispondere alle complicate dinamiche intersoggettive tra operatore e paziente. Tutti i suddetti elementi, non basandosi su una robusta ricerca, restano marginali dal punto di vista dell’EB. Per fare un esempio, non esiste nessuna linea guida che suggerisce quando gli psichiatri dovrebbero o non dovrebbero usare le loro reazioni emotive verso una persona che stanno curando come un criterio diagnostico.

Altra area problematica è capire come i suggerimenti basati sull’evidenza devono essere integrati con le preferenze e i valori di chi riceve il trattamento. Ciò solleva una serie di interrogativi: il nostro paziente è così diverso da quello degli studi da non rendere applicabili i loro risultati? Quali sono le sue aspettative rispetto agli esiti del trattamento che stiamo offrendo? Il trattamento è fattibile nei nostri setting?

È difficile rispondere alla prima domanda, dato che le differenze psicosociali individuali possono rendere arduo predire se una strategia di cura, risultata efficace negli ambienti di ricerca, sia applicabile con il “paziente vero” dei servizi. In altre parole, anche se quest’ultimo risponde ad una precisa categoria diagnostica, le caratteristiche soggettive e sociologiche influenzeranno il modo in cui è offerto un trattamento e il modo in cui produce effetti, forse anche di più di qualsiasi altro elemento in comune con altri pazienti con la stessa diagnosi. In altri termini, non è facile determinare l’ importanza delle differenze individuali rispetto ai fattori condivisi.

Inoltre, gli studi di ricerca non riflettono i pazienti reali e, pertanto, non producono risultati clinicamente utili per i seguenti motivi:

  • I pazienti reclutati nei RCT di solito hanno un solo problema, mentre quelli che si incontrano nella pratica clinica ne hanno diversi (comorbidità).
  • I follow up negli studi di ricerca, particolarmente quelli sugli agenti farmacologici, vengono effettuati, in gran parte dei casi, entro 6/12 mesi dall’inizio della somministrazione, tempo troppo breve per testare l’efficacia di trattamenti che devono essere somministrati più a lungo, dato che i disordini mentali sono cronici e recidivanti. In realtà, la maggioranza dei trials cinici sono disegnati per uno scopo di interesse economico, piuttosto che per motivi scientifici o clinici.
  • Per molti pazienti, le interazioni nel tempo tra le multiple condizioni mediche, come anche tra i multipli interventi, rappresentano una complessità, che i metodi di ricerca EBM non potranno mai contemplare.

Per quanto riguarda gli altri due interrogativi, è evidente che, se il trattamento non è riproducibile nei nostri setting, non può essere offerto e,se non risponde ai valori del paziente, non sarà accettato (a meno che non sia imposto), indipendentemente dal fatto che è supportato dall’evidenza o che sia trasferibile nei nostri contesti di cura.

Esiste anche un altro problema che rende complessa l’applicazione dell’approccio EB alla psichiatria, ossia la difficoltà di alcuni pazienti a partecipare al processo decisionale condiviso, che è uno dei presupposti dell’approccio EBM. Ne deriva che gli psichiatri, quando prendono decisioni cliniche, devono porre attenzione più di altri medici a fattori specifici legati al paziente, al suo contesto socio ambientale e al contesto terapeutico, data l’influenza sul percorso diagnostico delle circostanze di vita della persona, delle sue risorse psicologiche ed emotive, dei suoi supporti sociali e del suo ambiente. Ci sono dunque aree della pratica psichiatrica che necessariamente si fondano sulla valutazione individualizzata, che utilizzano prevalentemente l’esperienza clinica, che non si prestano a sperimentazioni standardizzate e per le quali l’evidenza proposta dalla EBM non può essere applicata. Inoltre, la psichiatria continua a dibattersi con particolari problemi etici, non facilmente affrontabili con l’approccio EBM, come la marginalizzazione sociale delle persone con malattia mentale e il negativo impatto dello squilibrio di potere tra gli psichiatri e i pazienti nei percorsi di cura.

Altro elemento che confligge con l’approccio EBM è la rilevanza che hanno in psichiatria la struttura narrativa e la consapevolezza della convivenza con una malattia mentale. Gli stati mentali sono esperienze complesse e soggettive, che non si possono misurare, e sperimentare un disordine psichiatrico è un percorso del tutto unico, per quanto lo possiamo accostare ad altre esperienze di malattia, come, per esempio, quella coronarica. Ciò in cui i disordini psichiatrici differiscono dagli altri disordini è che l’esperienza del disordine è il disordine stesso. La frattura si presenta con dolore (soggettivo) ma ha anche un’evidenza oggettiva (raggi x). L’ipertensione può non comportare una percezione soggettiva, ma si rileva oggettivamente con la misurazione della pressione. Il disordine mentale manca di queste correlazioni obiettive, nella misura in cui si palesa solo attraverso cambiamento della soggettiva esperienza esistenziale. In una piccola minoranza di disordini psichiatrici manca anche questo cambiamento esperienziale soggettivo, in quanto i pazienti possono anche non essere angosciati dai loro stati psicopatologici, sebbene essi comportino una menomazione sociale e occupazionale.

Poiché, come già sottolineato e a prescindere dalla conoscenza che abbiamo delle basi biologiche della psichiatria, al momento non possiamo trarre definitive conclusioni sulla patofisiologia o psicopatologia dei disordini mentali, la diagnosi e il trattamento si basano ancora sull’ esperienza soggettiva, piuttosto che su conosciute variabili biologiche. È il caso di un paziente, che riferisce come l’insonnia sia una parte della sua depressione. L’insonnia è un sintomo vegetativo ed è considerato più biologicamente mediato di altri sintomi, come la tristezza o la colpa, di chiara natura psicologica. Se il trattamento incide su questi ultimi (tristezza e colpa) ma il sonno non ritorna normale, è chiaro che non sono stati raggiunti tutti gli esiti. Ciò nonostante, questo non significa che il percorso di cura sia stato fallimentare, proprio perché i trattamenti psichiatrici mirano a modificare le esperienze soggettive, non solo i sintomi biologici, e, nella pratica, l’esperienza soggettiva di benessere è anche più rilevante clinicamente dei cambiamenti negli indicatori biologici. Da questa osservazione è nata la ricerca partecipata, che vede gli utenti coinvolti nello sviluppo e nella realizzazione degli studi di ricerca, al fine indirizzarli sulle questioni e sugli esiti importanti per loro, piuttosto che su quelli considerati significativi dai ricercatori o dai clinici.

Quindi, i principi della EBM nella psichiatria, se da un lato portano a definire chiaramente lo stato mentale e i trattamenti, a identificare le loro componenti, separandole dalle variabili del contesto, e a misurare i loro effetti, dall’altro non possono essere applicati a ciò che i pazienti sperimentano quando soffrono di un disordine mentale o durante un trattamento psicoterapico o riabilitativo, dimensioni non riconducibili a dati quantitativi. Tale constatazione, però, non dovrebbe portare all’abbandono della ricerca sugli interventi psicosociali, quanto piuttosto a ridefinire metodi di ricerca alternativi, che utilizzino approcci qualitativi anche se la ricerca qualitativa non è inclusa nell’approccio EBM, che riflettano le condizioni del mondo reale e che includano pazienti non omogenei per diagnosi o fenomeni lontani all’area ortodossa di ricerca, come il vissuto soggettivo e intersoggettivo, l’esperienza del paziente di “sentirsi capito” o quel particolare desiderio dei clinici di “fare un miglio extra” per certi pazienti.


Il problema della diagnosi in psichiatria

Un elemento di complessità, rispetto all’adozione dell’approccio EB nella psichiatria, è la difficoltà di confrontare individui con la stessa diagnosi, in quanto quest’ultima è fluttuante, non stabile e, a differenza delle altre aree della medicina, non è direttamente correlata alla prognosi nè sempre la predice. Solitamente, la ragione per condurre i trial clinici è determinare quale trattamento, incidendo su una condizione di patologia, migliora gli esiti di salute, ossia la prognosi. Se la diagnosi non è correlata con la prognosi, come accade in psichiatria, allora anche l’ evidenza di efficacia di un trattamento non aiuterà a fare previsioni a lungo termine su quando, per quanto tempo e se intervenire.

Altra questione è quella della validità della diagnosi psichiatrica. In assenza di strumenti standard di verifica (esami di laboratorio, semeiotica, imaging, etc.), utilizzando prevalentemente autovalutazioni, self report o descrizioni “narrative” di esperienze e di pattern comportamentali, non solo non si può stabilire cos’è un disordine specifico e chi ne è affetto, ma aumenta anche il rischio della manipolazione da parte dei sistemi di cura, cosa che ha purtroppo attirato sul nostro settore il sospetto di “disonestà”. Se, infatti, un disordine non può essere verificato oggettivamente, i suoi confini e la definizione delle sue caratteristiche possono essere modificate arbitrariamente. E anche un trattamento può essere più o meno sponsorizzato a seconda dei desideri, delle attitudini e dei valori dei ricercatori o dei clinici.

In altre parole, per applicare l’EBM le diagnosi devono essere valide, stabili e prognosticamene predittive. E non è il caso della diagnosi psichiatrica.


Il problema dei trattamenti in psichiatria

Continuando il confronto con le altre branche della medicina, è indubbiamente arduo tracciare uno stretto parallelismo tra la valutazione sperimentale di un esito di un farmaco in cardiologia e quello di un intervento psicologico o sociale in psichiatria.

Diversi possono essere i motivi:

  • Difficoltà nel definire il gruppo da studiare usando la diagnosi psichiatrica, data la sua instabilità e imprecisione. Non è chiaro quanto pazienti che hanno la stessa diagnosi siano veramente simili e se possano essere confrontati con gruppi con analoga diagnosi di altri studi.
  • Difficoltà a specificare l’esito. Cosa cercano di raggiungere gli operatori dei servizi trattando i loro pazienti? La riduzione dei sintomi, che tende ad essere il risultato di interesse nella gran parte delle ricerche sull’efficacia dei trattamenti psichiatrici, può o non può essere correlata ad altre tipologie di esiti, quali la qualità di vita, il benessere psicofisico, la riduzione dello stigma o l’aumento del funzionamento? Si nota subito la differenza tra la misurazione dell’ esito della riduzione dei sintomi psichiatrici, che può anche non correlarsi direttamente ad altri esiti importanti, e la misurazione di esito della riduzione della pressione sanguigna, che invece si correla direttamente con la riduzione del rischio di infarto e, quindi, con un potenziale miglioramento della qualità della vita.
  • Anche se un intervento è efficace secondo gli standard della EBM ed è chiaro come utilizzarlo, potrebbe essere difficile offrirlo nella pratica se è complesso o richiede molto tempo per essere appreso, problema che riguarda più gli psicoterapeuti e i riabilitatori, che i prescrittori di farmaci.
  • Difficoltà di individuare le componenti efficaci della psicoterapia e della riabilitazione attraverso i metodi di ricerca EBM, a causa della difficoltà di specificare ogni elemento dell’intervento e di trasferirlo prima nei trial clinici e, poi, nella pratica clinica. Mentre può essere chiaramente evidenziato il principio attivo di un farmaco, gli elementi di un intervento complesso, come il supporto abitativo o la psicoeducazione individuale, non possono così facilmente essere estrapolati.

Rispetto a quest’ultimo punto, facendo l’esempio del trattamento psicoterapico, al momento la ricerca ha dimostrato che tutte le psicoterapie hanno un’efficacia tra loro comparabile. E’ quindi probabile che funzionino tutte nello stesso modo, a prescindere dalle loro differenze, ossia che esercitano i loro effetti positivi attraverso le caratteristiche che condividono, piuttosto che attraverso le specifiche tecniche che le distinguono. Sembra, quindi, che la nozione di “ingrediente attivo” applicata alle altre branche della medicina per la valutazione dell’efficacia dei trattamenti, in psichiatria abbia un’attuazione limitata, poiché il concetto di malattia mutuato dalla medicina, consistente in una stessa disfunzione in tutti quelli che ne soffrono, aggredibile da una tecnica valida per tutti i casi, non è quello adottato nel campo della salute mentale. Abbiamo parlato di “attuazione limitata” in quanto, data l’apparente similitudine tra assumere una pillola per l’ipertensione e assumere una pillola per la depressione o per l’ansia, la nozione di “ingrediente attivo” si potrebbe utilizzare per i trattamenti farmacologici e non per quelli psicoterapici o riabilitativi, anche se ci sono ancora molti farmaci psicotropi il cui meccanismo di azione è in parte sconosciuto e si riscontrano tassi di efficacia simili tra differenti antidepressivi e antipsicotici. Moncrieff (2016) ha dedotto che i farmaci psichiatrici esercitano i loro positivi effetti in un modo non specifico, piuttosto che attraverso definite azioni su un preciso processo patologico, producendo uno stato generale indotto, che i pazienti utilizzano per “allontanarsi” dai sintomi. Sembra quindi che anche per i farmaci sia difficile supportare la teoria dell’ “ingrediente attivo”, dato che ingredienti diversi hanno gli stessi tassi di efficacia e siti e meccanismi di azione sconosciuti o poco caratterizzati. Ne deriva che, analogamente ai trattamenti psicosociali, anche per le terapie organiche ci siano molti potenziali ingredienti attivi, interagenti tra loro in vari modi e non facilmente separabili.

Da quanto affermato, si dedurrebbe che, in psichiatria, l’approccio orientato all’evidenza sia applicabile prevalentemente ai trattamenti farmacologici, anche se con i limiti suddetti. Ma cosa significa questo per il futuro dei trattamenti psicosociali e per gli operatori che li utilizzano?


Psichiatria ed etica

Si è asserito che ci sono aspetti dei disordini psichiatrici e dei loro trattamenti non conformi con gli assunti e le richieste dell’EBM, perché rischiano di minimizzare la complessità dell'esperienza del disordine mentale e di crearne un’immagine distorta.

Ma la psichiatria deve rispondere anche ad un imperativo morale, ossia quello di aiutare le persone a guarire o, almeno, a non subire un danno. Le principali questioni etiche nel nostro settore sono la diagnosi e il trattamento. Contrariamente alle altre aree della medicina, dove diagnosticare e offrire un trattamento non sono attraversati da controversie etiche, in psichiatria l’atto di assegnare una diagnosi e di proporre un trattamento può esso stesso essere considerato eticamente discutibile.

A questo proposito gli psichiatri hanno sempre dovuto affrontare tre principali problemi:

  • Per fare diagnosi devono affidarsi al self report del paziente delle sue esperienze mentali e devono valutare la loro credibilità e ragionevolezza, senza avere strumenti per verificarle. A parte osservare i comportamenti, ci sono pochi metodi obiettivi per esaminare la maggior parte dei disordini psichiatrici. L’assenza di verifiche oggettive aumenta la probabilità che le diagnosi psichiatriche contengano giudizi di valore, piuttosto che parametri scientifici, su cosa è normale e su cosa non lo è. Se facciamo il paragone con la medicina, prendendo come esempio il diabete mellito di tipo 1, la distinzione è chiara. Il diabete mellito è oggettivamente identificabile attraverso una disfunzione fisiologica ( mancanza di produzione di insulina). Il fatto che il paziente funzioni male socialmente o non si senta bene non ha alcuna relazione con il ricevere una diagnosi. In psichiatria, invece, la diagnosi è basata su come si sente il soggetto e su come funziona e i giudizi su tali dimensioni possono riflettere i valori morali del valutatore sul tipo di vita che un individuo dovrebbe fare o sul tipo di persona che dovrebbe essere. Inoltre, a causa della sua storia controversa, la psichiatria deve considerare specifici problemi etici, meno presenti in altre discipline, e deve affrontare sfide intellettuali molto differenti da quelle affrontate da altri settori della medicina. Per esempio, gli psichiatri si affidano prevalentemente alla conoscenza soggettiva per diagnosticare e trattare la malattia mentale. Ciò significa includere i sintomi auto riferiti dal paziente, i sentimenti del clinico in risposta a quelli del paziente e le osservazioni, sempre soggettive, delle figure significative presenti nella sua vita. In altre aree della medicina, i suddetti aspetti non interessano, in quanto la diagnosi è quasi sempre fatta sulla base di cambiamenti anatomici o di funzioni fisiologiche, il trattamento è prescritto per rimuovere o mitigare tali disfunzioni e l’effetto del trattamento è valutato determinando il grado in cui il sottostante deficit è corretto.
  • Trarre il confine tra normale e anormale in aree come il pensiero e i sentimenti, dove esiste un continuum e dove il range della “normalità” è molto ampio, è un’altra sfida della psichiatria. In medicina per differenziare ciò che è normale da cosa non lo è si usa la prognosi (sviluppo della morbidità nel tempo), dalla quale si deduce che le persone che soffrono di una vera malattia dovrebbero progressivamente peggiorare, diversamente da quelle che non ne soffrono. A parte gli esiti definitivi, come il suicidio, gli psichiatri hanno l’arduo compito di determinare quali esiti dovrebbero essere considerati un aggravamento del processo morboso e se tali esiti sono causati dalla malattia mentale, da variabili psicosociali o da entrambe. E questo non è affatto semplice.
  • I farmaci del secolo scorso, che sembravano ridurre i sintomi, hanno alimentato l’ipotesi che questi ultimi potessero avere una base biologica, così come per altre branche mediche. Perciò diagnosticarli e trattarli era etico. Ma in assenza di una chiara patogenesi, i limiti degli psicofarmaci (sia in termini di efficacia che di effetti collaterali), i loro fallimenti e i loro danni riaccendono le questioni etiche sulla diagnosi e sui trattamenti psichiatrici. Ci sono diversi movimenti nel settore della salute mentale (utenti sopravvissuti, psichiatria critica e movimento della recovery) i quali affermano che quella che chiamiamo malattia mentale è causata e perpetuata, almeno in parte, da problematiche situazioni sociali, come la povertà o la rigorosità delle norme comunitarie, e che, per questo, i disordini mentali non possono essere ricondotti semplicemente a processi neurobiologici, misurabili oggettivamente.

Altri problemi etici sono la difficoltà di rispettare il processo decisionale condiviso con alcuni pazienti psichiatrici e il libero arbitrio di “non curarsi”, nonché l’interfaccia con il sistema giudiziario, sempre più interagente con i compiti clinici e terapeutici.

In ultima analisi, i dilemmi etici in psichiatria riguardano la legittimità della diagnosi psichiatrica, il rapporto rischi/ benefici dei farmaci e i diritti dei pazienti, relativamente al potere legale degli psichiatri di trattarli involontariamente.

Chi propone l’EBM spera che, fondando la diagnosi e i trattamenti sull’evidenza scientifica, alcune di tali dispute siano superate, almeno per quanto riguarda la validità della diagnosi e l’efficacia dei trattamenti, conferendo alla psichiatria una sua legittimità etica.

A parere di chi scrive l’EBM è una pratica razionale (nota 2) e, dal momento che ogni pratica razionale è anche etica, un approccio orientato all’evidenza forza i professionisti a giustificare le proprie conoscenze e scelte, rispondendo alle seguenti domande: “Quale è l’ evidenza che supporta la tua decisione? Perché stai prendendo questa decisione? Quali sono i presupposti della tua azione? Quali risultati vuoi ottenere? Interrogarsi sui temi suddetti è uno stile di lavoro altamente etico e particolarmente importante in psichiatria, perché sfida i convincimenti personali e le mode, a cui si ricorre quando la diagnosi e i trattamenti non sono supportati da una chiara conoscenza della patofisiologia. E anche se le pratiche che si utilizzano in psichiatria non possono essere valutate sulla base della loro coerenza con la patofisiologia, lo possono essere sulla base della loro efficacia. Questo è il contributo etico della EBM alla psichiatria, che potrebbe proteggere i pazienti dai danni di interventi non dialettizzati e non sottoposti ad una rigorosa critica.

È anche vero che ci sono anche alcune pratiche non basate sull’evidenza che possono essere etiche, perché rispondono alle speranze e alle aspettative di pazienti (vedi gruppi di auto mutuo aiuto) o perché rinforzano il rapporto di fiducia e di partnership tra pazienti e professionisti.

Giustificare le proprie decisioni e azioni, a prescindere che lo si faccia attraverso i dati di ricerca o attraverso procedure affidabili e fondate sulla propria esperienza, offre una base razionale per quelle decisioni e per quelle azioni e costituisce una sfida epistemologica ed etica, nella misura in cui impone ai professionisti di motivare responsabilmente il processo che sottostà alle loro scelte tecniche.

In altre parole, adottare un approccio EBM spinge a coltivare virtù morali, come la consapevolezza, l’onestà e il coraggio di spiegare perché si opta per una linea piuttosto che per un’altra, dimostrando di essere clinici coscienziosi, in possesso di conoscenze aggiornate.

In conclusione, poiché nell’immaginario collettivo gli interventi psichiatrici si caratterizzano come coercitivi e abusivi e non scientificamente fondati e l’assenza di scientificità priva la nostra disciplina di eticità, l’approccio l’EBM potrebbe offrire agli psichiatri un potente mezzo per contrastare lo stereotipo pubblico della psichiatria come non scientifica e della pratica psichiatrica come non etica.

Ma sappiamo che, data la natura dei disordini psichiatrici e dei loro trattamenti, l’EBM non è del tutto adattabile alla psichiatria e, perciò, non in grado da sola di darle un fondamento etico. Pertanto, quali altri metodi o approcci potrebbero colmare tale lacuna e come tali modelli potrebbero interagire con l’EBM?


I modelli a supporto della EBM
Il modello biopsicosociale di Engel

Nel 1977 Engel pervenne ad un modello di malattia mentale dinamico ed olistico, per il quale essa era determinata da multiple cause, che comprendevano sia l’esperienza personale del disordine da parte del paziente sia i suoi aspetti biologici. Il modello di Engel è stato influenzato dalla teoria dei sistemi, in quanto egli vedeva l’individuo malato come una componente di un più vasto sistema ed era preoccupato che il modello riduzionista di malattia avrebbe dirottato l’attenzione degli psichiatri ai meccanismi causali neurobiologici, negando l’importanza del sistema in cui era inserito il paziente, nonché dei fattori sociali e psicologici interagenti. Tale parcellizzazione e semplificazione, secondo Engel, erano disumanizzanti per i pazienti e riducevano l’efficacia del percorso assistenziale, in quanto privilegiavano gli aspetti biologici, ignorando quelli psicologici, sociali e culturali. In altri termini, Engel riteneva che dando priorità alla patofisiologia, il modello biomedico distraeva i medici da importanti elementi psicosociali, necessari per una migliore cura e per una migliore comprensione della malattia.

Si ritiene che Il modello biopsicosociale, formulando i problemi clinici in modo olistico e sistemico, possa integrare i limiti dell’approccio EBM nella conoscenza del paziente psichiatrico e del suo contesto, oltre a permettere anche l’adozione di interventi non supportati all’evidenza, sulla base di una più ampia capacità di afferrare il senso del disordine mentale.

La pratica basata sui valori di Fulford

Un secondo modello, che colma un’ulteriore lacuna dell’approccio EB, ossia quella relativa alla gestione dei conflitti di valori, che possono insorgere nell’incontro medico paziente, è la pratica basata sui valori proposta da Fulford, i cui capisaldi sono elencati nella tabella 1.

Tabella 1

La “post psichiatria” di Braken e Thomas

Al centro della tesi di Braken e Thomas c’è la critica alle conseguenze negative dell'Illuminismo europeo, i cui principali pensatori asserivano che la ragione avrebbe risolto i problemi dell'umanità e svelato i misteri della mente. Tale convincimento, secondo gli Autori, ha portato ad un'applicazione inappropriata delle tecnologie scientifiche alle persone con malattia mentale, o semplicemente in difficoltà, dando poco peso a fattori quali il significato e il valore dell’esistenza e il contesto sociale. Gli autori desiderano mettere in primo piano tali fattori, che considerano vitali per una corretta comprensione dell'essere umano, e propongono un approccio ermeneutico al posto di un approccio biologico "riduzionista".

Inoltre, Bracken e Thomas affrontano con occhio critico anche temi come la medicina basata sull'evidenza, le teorie cognitive della mente e il ruolo delle scienze umane, sottolineando l’importanza di dare ascolto alle voci dei pazienti e di contrastare le modalità paternalistiche e infantilizzanti dalle quali troppo spesso la psichiatria viene contaminata.


Tutti e tre gli approcci sottolineano che una pratica psichiatrica etica deve includere più di quanto la EBM può dare e offrono diverse soluzioni per colmare tale gap. Engel ritiene che non si possa praticare la psichiatria in modo ottimale senza comprendere le dimensioni psicosociali della malattia, operazione che può portare a considerare altri tipi di intervento, oltre quelli indicati come prioritari dalla EBM.

La pratica basata sui valori di Fulford mira a riconoscere il ruolo che i valori svolgono in tutti gli aspetti dell'assistenza sanitaria e sottolinea la necessità di incorporarli nel processo decisionale, ad ogni livello dell'offerta dei servizi di salute mentale. Piuttosto che partire dalla premessa che esiste una risposta "giusta", la pratica basata sui valori enfatizza le competenze necessarie per attuare la prassi della condivisione delle decisioni relative ai trattamenti, soprattutto quando i diversi stakeholder hanno valori differenti, e completa l'EBP, nella misura in cui tali decisioni si basano, non solo sulle migliori evidenze disponibili, ma anche sui valori di tutti i soggetti coinvolti.

Per ultimi, Braken e Thomas sostengono la necessità di ridurre il ruolo e il potere dei professionisti e di aumentare la partecipazione degli utenti nel loro percorso di cura, dimostrando come i valori della EBM possano condizionare le opzioni e le decisioni terapeutiche, se non viene ascoltata la voce di chi riceve i servizi.


I trattamenti psicosociali nella psichiatria di comunità, parte integrante del processo di recovery

Negli ultimi decenni, la psichiatria di comunità si sta misurando con cinque grandi sfide: ridisegnare i servizi sui principi della recovery e dell’inclusione sociale, implementare servizi sostenuti dall’evidenza scientifica, prevenire il più possibile la disabilità, intervenendo precocemente, integrare i servizi di salute mentale con altre agenzie socio sanitarie e adottare il paradigma della riabilitazione e della recovery.

Il bisogno di integrare le pratiche psicosociali EB con la farmacoterapia nel trattamento della malattia mentale è basato sul contributo delle neuroscienze (in particolare delle neuroscienze sociali), sul concetto di stadiazione della malattia mentale, sugli studi sugli esordi psicotici, i quali evidenziano che, se l’intervento è precoce (primi due anni dall’esordio) i tassi di guarigione sono anche del 90%, e sulla diffusione del modello biopsicosociale .

Il modo principale per contrastare le conseguenze biopsicosociali della malattia mentale è il trattamento integrato multidimensionale, il quale si fonda sulla combinazione di interventi farmacologici e psicosociali, è flessibile, ossia adattato alle esigenze, alle preferenze e ai cambiamenti dei pazienti e alle fasi della malattia, è offerto sul lungo periodo, è coordinato ed è basato sulla competenza dei professionisti e non solo sui loro titoli.

Quando si parla, invece, di EBP (pratica basata sull’evidenza), ci si riferisce ad un intervento supportato da una consistente evidenza scientifica, in base alla quale si è dimostrato in grado di migliorare gli esiti degli utenti (Drake et al., 2001).

Attualmente, si conoscono diversi interventi efficaci sulla salute mentale e ai quali ci riferiamo come EBP. Numerose recenti revisioni della ricerca individuano un “core set” di trattamenti, che aiutano le persone con grave malattia mentale a raggiungere migliori esiti in termini di sintomi, stato funzionale e qualità di vita (tabella 2).

Tabella 2

I trattamenti psicosociali EB sono una parte integrale dell’assistenza e del processo di recovery e sono stati validati anche dalle ultime acquisizioni delle neuroscienze. Infatti, a causa dell’abilità dei neuroni di essere modificati dall’esperienza, dato che ogni tipo di terapia promuove un’esperienza soggettiva nuova, si potrebbe concludere che esiste una reciprocità tra la terapia e la neuroplasticità (una alterata neuroplasticità determina le condizioni per un trattamento e tutte le forme di trattamento agiscono influenzando la neuroplasticità). In questo senso, una riabilitazione psicosociale intensiva, similmente alla psicoterapia, potrebbe modificare i fondamentali meccanismi dell’attività neuronale e contribuire allo sviluppo di nuove connessioni tra i neuroni, avviando efficaci correzioni sulle micro disfunzioni, neuropsicologiche e neurofisiologiche, presenti in tutti i disordini psichiatrici.

Inoltre, non si possono più ignorare le tante linee guida prodotte nella nostra disciplina, come parte dell’agenda dei servizi, che desiderano migliorare l’efficacia dei trattamenti e ridurre le così spesso inspiegabili variazioni nella pratica quotidiana. Già negli anni ’90, si sosteneva come l’implementazione di linee guida nelle ruotine dei servizi di salute mentale doveva essere uno degli obiettivi prioritari.

Nel merito, la sfida è sempre stata quella di definire un “core set” di raccomandazioni valide, che possono essere facilmente usate, per favorire un cambiamento degli stili di lavoro, senza trascurare il background culturale e scientifico già esistente .

L’esperienza e la letteratura ci dicono che le cure territoriali non sempre sono accessibili ed intensive come dovrebbero, che i trattamenti psicosociali non sono offerti come dovrebbero essere offerti, (nota 3) che la politerapia antipsicotica è frequente, che sono scarsamente monitorati i parametri metabolici, con la conseguenza di un’ alta mortalità precoce, e che gli interventi più comuni sono quelli farmacologici, mentre puntiformi e discontinui sono quelli psicosociali.

Emerge, quindi, una cogente necessità di implementare l’offerta di trattamenti psicosociali e di potenziare la formazione di infermieri, TERP e Assistenti Sociali per tale compito, anche in relazione ad una serie di fenomeni non virtuosi, che si osservano molto frequentemente nei nostri servizi:

  • Le persone in carico da tempo ricevono trattamenti più intensivi e continuativi di quelle che sono all’ esordio.
  • n assenza di interventi psicosociali e psicoterapici EB, gli interventi as usual non prevengono il rischio di ricadute.
  • Gli episodi di ricaduta si verificano con minor frequenza quando sono offerti trattamenti psicosociali e/o psicoterapia.
  • La farmacoterapia non previene le ricadute nei disturbi di personalità, in cui sono massimamente raccomandati la psicoterapia e gli interventi psicosociali.

La cultura delle EBP può incrementare l’efficacia dell’offerta dei servizi di salute mentale anche per altri motivi. Nel campo della salute mentale, le EBP possono contribuire alla diffusione della cultura della valutazione del proprio lavoro, il che significa applicare un paradigma teorico accreditato e ricavare dati da tale applicazione, al fine di revisionare la modalità di erogazione dei servizi e i propri comportamenti operativi. Si tratta in altri termini di adottare un approccio valutativo.

Chi scrive è convinto che utilizzare un riferimento teorico accreditato è il presupposto per realizzare la mission e per conferire al lavoro degli operatori la dignità di una tecnica, superando il diffuso convincimento che adottare protocolli comportamentali valutabili e riproducibili azzeri la componente creativa e umana del trattamento.

In altri termini, riferirsi a raccomandazioni e linee guida aiuta a:

  • Definire obiettivi, procedure comportamentali ed esiti.
  • Orientare nel lavoro quotidiano.
  • Fornire parametri per leggere i cambiamenti.
  • Spiegare i fallimenti.
  • Valutare i propri comportamenti.
  • Ridurre i conflitti dovuti al prevalere delle opinioni personali.
  • Ridurre le colpevolizzazioni.
  • Ridurre il ricorso al buon senso come unico strumento.
  • Orientare all’esito la relazione con l’utente.

Rispetto a quest’ultimo punto, bisogna distinguere la “relazione accoglitiva”, il cui obiettivo è accogliere, accettare, far sentire a proprio agio, condividere i vissuti, manifestare empatia, accettare la diversità – con il rischio, però, della dipendenza a vita e del mantenimento dello status quo dalla relazione orientata agli esiti, i cui obiettivi sono aiutare le persone con disabilità psichiatrica ad emanciparsi dal sistema dei servizi e a cambiare la loro vita, acquisendo abilità e supporti per l’espletamento di un ruolo valido. In questo caso, il rischio è quello di non esercitare le “core competencies” orientate alla recovery.


Cosa sono le EBP orientate alla recovery?

Il paradigma della recovery sposta il focus dalla centralità della malattia alla promozione del benessere e di una vita significativa. Le EBP possono essere utili alla causa nella misura in cui costituiscono una serie di servizi per lo sviluppo di competenze e di supporti, al fine di ottenere e mantenere un ruolo valido (Farkas 2007), e quando sono offerte sulla base di specifici principi (tabella 3).

Purtroppo, pochi sforzi sono stati fatti per introdurre nelle EBP tali principi e per valutare come essi potrebbero essere trasferiti in specifici programmi.

Tabella 3


In altri termini le EBP sono la “testa” che supporta il “cuore” del processo di recovery e possono contribuire alla diffusione della cultura della valutazione e del metodo scientifico nelle attività e nelle pratiche quotidiane dei servizi. Perché siano efficaci, le EBP devono, però, essere erogate all’interno di una relazione in cui gli operatori esercitino abilità ed attitudini favorenti la crescita dei pazienti e adottino strategie per la definizione dei loro obiettivi personali e per motivarli al cambiamento. Allo stato attuale, si rischia di non fare né una cosa né l’altra: non si offrono interventi di provata efficacia, ma neanche si cerca di valorizzazione la persona o di costruire relazioni responsabilizzanti.

Proviamo a fornire alcune motivazioni di questo fenomeno.


Trasferire i principi dei trattamenti EB e della recovery in pratica. Una grande sfida.

L’implementazione dei trattamenti psicosociali basati sull’evidenza e orientati alla recovery non è una passeggiata, ma richiede un lungo periodo di tempo per acquisire le abilità per offrirli, la capacità di fronteggiare l’inerzia a cambiare il modo in cui si lavora e il modo in cui interagisce con gli utenti ed un costante impegno ad insegnare allo staff le nuove tecniche e ad imparare dalle innovazioni.

Inoltre, è necessario un chiaro mandato dalla leadership, che deve essere anch’essa fortemente impegnata a fornire risorse e supporti, a dare rilevanza alla formazione continua sul posto di lavoro, ad autorizzare la selezione di quei pazienti con i quali cominciare a dimostrare l’efficacia dei nuovi trattamenti, a sviluppare indicatori di recovery, che includono l’uso delle nuove pratiche e ad avere il coraggio di eliminare le pratiche inefficienti, spesso difese da molti operatori, famiglie, politici ed altri stakeholders.

È necessario, inoltre, orientare l’intero DSM DP ai principi della riabilitazione psicosociale, sottoporre il personale alla formazione e alla supervisione continue, stimolare l’abitudine a valutare e favorire il lavoro di team interdisciplinare.

Bisogna infine considerare che gli sforzi di implementazione di un nuovo trattamento richiedono circa 3 5 anni, (Hoge et al., 2005), che l’implementazione su larga scala può richiedere ancora più tempo e che è molto impegnativo formare i professionisti a nuove tecniche, trasformare la loro visione e impegnarsi per sostenere tali competenze nel posto di lavoro (Farkas, 2008; Damschroder, 2009).

Comincia, ora, ad essere abbastanza chiaro il motivo per il quale l’applicazione delle conoscenze innovative su base sistemica è così raramente pianificata o eseguita.

Solitamente si pensa che, se il personale conosce la teoria, allora adotterà immediatamente quanto ha appreso nella ruotine quotidiana e che il training nelle nuove competenze sarà breve. Il risultato di tale semplificazione è che si tenta di cambiare il proprio modus operandi fino a quando dura l'entusiasmo, attivato dall’ultimo workshop o dall’ultimo seminario. Si sottovaluta che l’adozione di una nuova pratica richiede di più, in quanto, come già sottolineato, tale processo deve essere supportato dalla leadership, da strutture di supervisione, da procedure e da misure di valutazione diverse da quelle solitamente utilizzate.

In altri termini, implementare le EBP orientate alla recovery implica un cambiamento della cultura dei servizi, ossia dei valori, delle regole implicite e dei "modi di fare le cose", un notevole Impegno, la convinzione che adottare le EBP apporterà benefici e una specifica infrastruttura del servizio (personale addestrato, finanziamenti e politiche), in grado di supportare l’applicazione delle nuove pratiche.

L’esperienza e la letteratura hanno dimostrato che ci sono barriere all’implementazione delle EBP a differenti livelli dell’organizzazione (tabella 4):

Tabella 4

Ulteriori problemi che emergono nel processo di implementazione dell’evidenza e dei principi della recovery sono elencati nella tabella 5.

Tabella 5

Esiste, infine, la barriera derivante dalla mancanza di risorse umane. La necessità di contenere i costi ha contratto i fondi destinati alle assunzioni di personale nei servizi sanitari e nei servizi sociali, con gravi ricadute per le persone con malattia mentale, sia per quanto riguarda l’intensità dei trattamenti (strettamente dipendente dal numero di risorse umane), sia per quanto riguarda la possibilità di superamento della condizione di svantaggio sociale (strettamente dipendente dalle risorse dei servizi sociali).

Quando concessi, i finanziamenti pubblici sono spesso erogati in modo da rendere difficile supportare alcune EBP. Si veda la spesso puntiforme destinazione delle risorse nel settore della salute mentale, finalizzate più a sostenere singoli progetti parziali, che non un cambiamento dell’intero sistema dei servizi. La scarsità di personale rispetto all’intensità dei programmi e alla necessità di applicare con continuità i trattamenti psicosociali EB determina un preoccupante gap tra la possibilità di offerta e l’entità della popolazione bisognosa, spropositata in rapporto alle risorse disponibili.

Un esempio del consistente gap di trattamento è offerto da quanto si registra nei servizi del Nord Italia, dove ogni medico operante nel CSM ha circa in carico 250 pazienti con diagnosi di malattia mentale, di cui un terzo necessità di trattamenti settimanali. È stato calcolato che il tempo necessario per effettuare, secondo le linee guida trattamentali, il monitoraggio farmacoterapico, la prevenzione delle ricadute e il trattamento familiare comporta un minimo 39 ore all’anno per ogni paziente. Con un organico medico medio di 30 medici per un bacino di utenza medico di 350000 persone, considerando che il 38% del debito orario di ogni medico viene impiegato nelle attività di emergenza urgenza (copertura turni di guardia CSM e SPDC), ne consegue che ogni medico ha a disposizione 8,44 ore di attività clinica programmata all’anno, che divise per circa 83 pazienti (un terzo dei 250 complessivi in carico a ciascun medico) bisognosi di trattamenti settimanali, fanno 11 ore all’anno di trattamento per ogni paziente, a fronte delle 39 necessarie.

È evidente il grave scostamento tra le cure alle quali si ha diritto e quelle che si possono effettivamente fornire.


Il problema della fidelity: Avvicinare all’evidenza scientifica la pratica as usual – (anche a iso risorse)

Esattamente come ogni altro trattamento sanitario (antibiotici, chemioterapie), per essere efficaci i trattamenti psicosociali EB non possono prescindere dall’intensità e dal modo con il quale sono offerti. Per esempio, il Social Skill Training può essere condotto in sedute individuali o in gruppi di soli pazienti o uniti ai familiari. I gruppi, di solito, coinvolgono 4–12 partecipanti e sono condotti da 1–2 terapeuti. Le sessioni durano da 45 a 90 minuti, a seconda dei livelli di concentrazione degli utenti e della loro capacità di controllare i sintomi, con una frequenza da 1 a 5 sedute settimanali per almeno 6 mesi. Alla fine del training intensivo, ogni paziente viene affidato ad un case manager che lo supporta nell’adattamento dell’abilità nella vita quotidiana. È, però, evidente che non è sostenibile fornire il SST, come anche le altre EBP, a tutti quelli che ne avrebbero bisogno con la frequenza e intensità indicate nelle Linee Guida.

Di conseguenza, alla luce delle evidenze, secondo le quali possono essere raggiunti notevoli esiti anche quando non si offrono trattamenti secondo le raccomandazioni, l’unico modo di aumentare l’efficacia curativa del sistema è formare tutte le figure professionali su uno stile di lavoro basato su prove di efficacia e sulla centralità del paziente, trasformando la pratica as usual (colloqui, visite domiciliari, accompagnamenti, accoglienze etc.) in azioni EB e orientate al recovery e declinate nelle seguenti strategie:

  • Strategie psicoeducative.
  • Strategie supportive (diverse tipologie di supporto) e validazione.
  • Strategie per la motivazione al cambiamento.
  • Strategie per lo sviluppo della partnership.
  • Strategie comportamentali (significato dei comportamenti e alternative comportamentali) ed emotive (riconnessione emotiva).
  • Strategie per la definizione dell’obiettivo di vita.
  • Strategie didattiche (insegnamento di abilità).
  • Psicofarmacologia collaborativa.

Altri cambiamenti organizzativi che possono essere introdotti per avvicinare la pratica as usual all’evidenza scientifica sono elencati nella tabella 6.


Tabella 6


Nella tabella 7 sono evidenziati i fattori di efficacia, confermati dalla letteratura, del setting gruppale.


Tabella 7


Peculiarità della formazione in salute mentale

Poiché lo scopo delle EBP è quello di promuovere la recovery, in termini di aiutare i pazienti ad ottenere e mantenere ruoli validi, per offrirle bisogna possedere alcune specifiche competenze basiche, quali: costruire di un rapporto di partnership, facilitare le scelte, allenare pazienti ad apprendere abilità, motivarli al cambiamento aiutarli a superare le barriere all'utilizzo delle competenze e a procurarsi i supporti che desiderano e di cui hanno bisogno, specifici per raggiungere quel determinato obiettivo personale.

Tali competenze professionali non sono finalizzate ad apprendere l’uso di specifiche tecnologie (TAC, RNM) o ad interpretare analisi laboratoristiche, ma ad orientare i comportamenti del personale medico e non medico, il suo modo di comunicare, il suo modo di interpretare i comportamenti dei pazienti e il suo modo di evidenziare gli esiti ai principi della recovery e dell’evidenza scientifica, al fine di essere «efficaci».

Per cui non si tratta di insegnare una tecnica «oggettiva» o di conoscere un protocollo di cura, ma di usare noi stessi come terreno sul quale veicolare strategie e trattamenti biopsicosociali, che necessitano della conoscenza di come funzionano la mente, la psiche, le emozioni e la cognizione e dei fattori sociali e culturali, incidenti sia sulla genesi della malattia che sulla ripresa della salute.

Ciò comporta che la formazione in salute mentale ha tre scopi principali:

  • Aiutare i professionisti a comprendere in profondità l’esperienza soggettiva della malattia mentale.
  • Aiutare i professionisti a veicolare su questo terreno strategie psicoeducative, cognitivo comportamentali, di skill training e psicoterapiche.
  • Aiutare i professionisti a comportarsi come un “personal coach o trainer”, che:
    • Aiuta la persona a stabilire obiettivi personali.
    • Dota la persona di informazioni, abilità, reti sociali e supporti per gestire la sua condizione e per aiutarla ad accedere alle risorse necessarie per la sua vita.
    • Mette a disposizione le proprie abilità e conoscenze, mentre allo stesso tempo impara dagli utenti, ossia da chi è esperto attraverso l’esperienza.

Quindi, maggiormente che in altre branche della medicina, la formazione è finalizzata ad acquisire una «tecnica umana» (Anthony 2003), dato che la tecnologia (ossia gli strumenti con i quali si fa diagnosi e trattamento), sono gli operatori che quotidianamente hanno rapporti con gli utenti e con le loro famiglie.

Ciò rende la formazione in salute mentale particolarmente complessa per diversi motivi:

  • Sono i comportamenti del personale che devono cambiare e si sa che i comportamenti personali, essendo il frutto di un peculiare ed unico sviluppo psicofisico, cambiano a fatica.
  • Il cambiamento comportamentale dei professionisti si può ottenere se, oltre a lezioni teoriche, si applicano metodi formativi basati sull’apprendimento continuo su posto di lavoro, dove la teoria viene tradotta in condotte operative, che, a loro volta, vanno valutate nell’esito che producono (funzione di coach della dirigenza medica e infermieristica).

A questo proposito è necessario che gli interventi formativi siano orientati ai seguenti modelli:

  • Formazione pratica intensiva (Expertise Training), che si propone di sviluppare ulteriormente le abilità, inducendo negli operatori cambiamenti comportamentali. Il focus del training è la dimostrazione pratica di abilità da parte di operatori esperti direttamente con i pazienti, seguita da un role play, effettuato prima in vitro, ossia in ambiente simulato, e poi in vivo, ossia direttamente con gli utenti e con le famiglie.
  • Formazione fondata sul Training Interattivo di Equipe, consistente in incontri dei formatori con i componenti dell’équipe e con i dirigenti sul luogo di lavoro, in modo da affrontare direttamente e collegialmente eventuali fattori ostativi all’applicazione delle nuove metodologie di intervento e di far crescere la cultura complessiva del gruppo.
  • Programmi formativi condotti da Utenti “Esperti”. Un’incidenza ancora maggiore sulle attitudini del personale, nel senso di predisporlo più positivamente verso la realtà del disturbo psichiatrico, si ottiene dai training formativi sul posto di lavoro condotti da Utenti e da ex Utenti “Esperti“. La particolare efficacia dei programmi, nei quali Utenti “Esperti” sono i docenti, è dovuta al fatto che il ruolo radicalmente diverso da quello usualmente rivestito di paziente psichiatrico incrina i pregiudizi e gli stereotipi sulla malattia mentale, presenti anche tra gli operatori, i quali scoraggiano l’offerta di trattamenti efficaci e appropriati.
  • Programmi formativi condotti da Familiari “Esperti” per:
    • Aiutare i politici e i professionisti dei servizi a comprendere le esigenze di salute mentale delle famiglie e a lavorare con le famiglie per soddisfare queste esigenze.
    • Promuovere il superamento di attitudini colpevolizzanti, giudicanti o moralistiche da parte dei servizi, sviluppando una prassi caratterizzata da valorizzazione delle risorse delle famiglie, coinvolgendole nelle scelte di trattamento e considerandole agenti di cambiamento.
    • Contribuire all’individuazione di indicatori di qualità e di efficacia dei servizi, considerati rilevanti per le famiglie.
    • Dotare i servizi di strumenti per sostenere la salute mentale della famiglia, senza avere paura della malattia mentale, ma destigmatizzandola e trattandola allo stesso modo in cui su approccia la malattia fisica, al fine di ridurre al minimo l'impatto della malattia su tutta la famiglia.
    • Aiutare il personale dei servizi a riconoscere che le famiglie sono membri capaci e apprezzati che, con un supporto efficace, possono 'contrastarÈ la malattia e vivere in modo più pieno e soddisfacente.


Conclusioni

Abbiamo affermato che la pratica etica è una pratica razionale e che la EBM, come pratica razionale, facilita la pratica etica. Ma è anche vero che la EBM non è l’unico standard per la pratica razionale, la quale può estendersi anche oltre la EBM. Poiché i valori etici giocano un ruolo determinante su come noi comprendiamo la malattia mentale e su quali trattamenti proponiamo, dovrebbero essere questi ultimi a dirigere la pratica. Questo non significa operare secondo l’ideologia o le mode, ma integrare la nozione di evidenza, che può essere ristretta, con quella dei valori, con la visione olistica (biopsicosociale) del paziente e con la pratica razionale, in modo da non trarre premature conclusioni, ma legittimare uno spazio per il dibattito e per le differenze. Tale integrazione è tanto più necessaria nella misura in cui la psichiatria, più di altre discipline mediche, è stata afflitta da controversie sull’uso e abuso del potere fin dalla sua nascita.

Il campo della psichiatria deve decidere se vuol continuare ad essere spazzato via dalla dicotomia EBM/non EBM o se fare proprio il più importante consiglio della EBM: essere coscienziosi e riflessivi nell’uso dell’evidenza.

È anche orami acclarato che l'implementazione delle EBP psicosociali richiede un piano completo per cambiare la cultura, definire l'impegno e la capacità di un servizio.

Non ci sono scorciatoie nell'adozione di alcun intervento o approccio orientato al cambiamento, perché le persone (operatori, leader, utenti del servizio) imparano e cambiano i loro comportamenti solo nel tempo. Saranno necessari nuovi metodi di sviluppo delle competenze e nuovi modelli organizzativi per affrontare le nuove comorbidità psichiatriche, per intervenire sull'impatto multidimensionale della malattia mentale, per valutare il divario tra i risultati della ricerca e risultati ottenuti nei setting "sporchi" dei servizi e per formare, coordinare e integrare la molteplicità i professionisti e di agenzie coinvolti nella presa in cura dei pazienti complessi e gravosi.

La nostra esperienza, corredata dai dati della letteratura, indica che, per introdurre le EBP psicosociali nel nostro sistema di servizi, sono fattori critici:

  • Una leadership seriamente impegnata a promuovere il cambiamento.
  • La costruzione del consenso all'interno dell'organizzazione sul vantaggio di utilizzare le EBP, tenendo presente che la familiarità con il solito modo di lavorare è difficile da cambiare.
  • La valutazione attenta e costante delle conoscenze, delle competenze, delle attitudini e del livello di formazione del personale.
  • Il sostegno al personale, perché trovi tempo per apprendere e implementare le nuove pratiche e per rivedere i carichi di lavoro.
  • Il coraggio di sostituire le nuove pratiche alle vecchie, affinché non rappresentino un onere aggiuntivo.
  • La definizione dei pazienti su cui investire le risorse, se l'implementazione non comporta un aumento delle risorse.
  • La costruzione del consenso tra tutti gli stakeholder interessati alla salute mentale e sensibili alla necessità di un cambiamento nel modo di lavorare nella psichiatria di comunità (amministratori sanitari regionali e locali, funzionari comunali, associazioni di famiglie, servizi sociali, ecc.)

Mi piace concludere con alcune considerazioni del mio Maestro M. Spivak:

Non esistono pazienti senza speranza.

Esistono invece operatori impotenti, perché privi degli strumenti minimali di intervento. Esistono programmi parziali e poco incisivi, che devono essere potenziati e corretti.

Esistono contrapposizioni e cecità ideologiche che evitano di affrontare la complessità della malattia mentale.

Sono queste le condizioni che producono i pazienti senza speranza.

Mark Spivak, 1987


Note

Nota 1: Si noti che nella prima versione del DSM le malattie mentale erano definite come “reazioni” alle circostanze di vita (Adolf Meyer, 1922).

Nota 2: Razionale si dice di qualcosa che segue un ragionamento logico e che, dopo un processo di sequenze, non porta ad imprevisti, ma ad un risultato ovvio ed univoco.

Nota 3: Per es., la psicoeducazione e i trattamenti psicologici individuali vengono offerti con una intensità difforme da quella consigliata. Analoga considerazione vale per i trattamenti rivolti alle famiglie.

Nota 4: È confermato che il coinvolgimento degli utenti e delle loro famiglie nei trattamenti psicosociali e nella pianificazione dei servizi facilita l'adozione di nuove pratiche.


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