Volume 25 - 23 Dicembre 2022

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La storia dalla nascita ad oggi della prima Comunità Terapeutica Democratica per adolescenti

Autore

Ricevuto il 5/11/2022 – Accettato il 20/11/2022



Riassunto

Questo articolo racconta della prima Comunità terapeutica (C.T. da qui in poi) democratica per adolescenti a livello nazionale che Rosa dei Venti onlus ha ideato 25 anni fa. La prima voce che ne parla e che la definisce con i suoi pro e contro è quella di una ex paziente allora minore di età.
Si cerca dunque di dare contesto dell’età dell’adolescenza oggi; si entra poi nell’esperienza della Rosa dei Venti, la sua nascita, la sua visione e valori; l’importanza della rete curante e del territorio sociale e naturale. Si cerca di esplicitare la temporaneità di tale esperienza e la sua durata che non deve mai essere “troppo “ lunga (max 2 anni). La casa come luogo di convivenza è qui esplorata nelle sue valenze e come strumento di lavoro. Le regole di convivenza vengono co costruite insieme tra ospiti e operatori. Si condividono poi le modalità progettuali, il ruolo degli operatori ed in particolare viene approfondito quello dell’educatore.


Abstract

This paper talks about the first Democratic Therapeutic Community for adolescents(MHS) in Italy, 25 years ago. The first voice is the one of an adolescent, a girl that tells her experience speaking of bad and good memories. Then the adolescent’s today time is explored.
The first steps of this TC are shared with its values and vision; the importance of the collaboration with the MHS and the families(open dialogue and multifamiliar meetings).
Then it’s carefully explored the vakue of the house as a building, and as a boundary between the “inside” and “outside”. Here the rules are co built togheter patients and workers in a democratic mode that include the whole members.


Introduco questo articolo con la voce di una paziente allora minorenne che ha scritto su mio invito della sua esperienza in Comunità terapeutica per minori, la Rosa dei Venti che è anche la prima a livello nazionale del privato sociale, aperta oramai un quarto di secolo fa:

Com’è la vita in comunità terapeutica per adolescenti? Ma innanzitutto cos’è una comunità? Bhè...la comunità è un luogo dove si è costretti a vivere con altre persone (uso il termine costretto poiché i “compagni” di comunità non ce li siamo scelti) le quali hanno in comune un obbiettivo: terminare un progetto, un percorso che darà o migliorerà le basi per la nostra vita futura. Uso il termine “noi” poiché io sono un ospite della comunità e mi permetto di parlare un po’ a nome di tutti i ragazzi. Molte volte, quando parlo con delle persone che non conoscono questa realtà, pensano subito che io sia un’ ex-prostituta o un’ ex tossicodipendente e il più delle volte hanno paura .Vorrei dire una cosa che mi sta molto a cuore: che c’è di male a stare in comunità? Niente, poiché stare in comunità, qualsiasi essa sia, non vuol dire essere un pericolo per gli altri e quindi essere rinchiusi e isolati; stare in comunità vuol dire invece prendere coscienza di una propria difficoltà e cercare di affrontarla e di superarla. Non nego il fatto che sia una cosa estremamente difficile il piombare, il più delle volte improvvisamente da una realtà come potrebbe essere quella di casa propria dentro ad una realtà comunitaria: dove non si conosce nessuno e ci sono solo apparentemente mille regole e mille divieti da seguire, mentre persone estranee ti parlano di un progetto fatto su misura per te. È solo con il passare del tempo che si capisce che é da ogni regola che si impara qualcosa e si “disciplina” se stessi. In questo modo, disciplinando più le cose materiali, ad esempio i turni di pulizia, l’uso del telefonino solo per tempi strutturati, il rispettare le varie attività, si può passare all’affrontare il proprio problema.

Sono entrata in comunità più di due anni fa, l’accoglienza è stata calorosa, ma non capivo praticamente il senso di nessuna regola e così, non ritenendomi una persona stupida, ho chiesto di fare dei colloqui con le figure della comunità. Per ora ho tratto il pensiero prima elencato e penso di essere abbastanza sulla scia giusta. Ma in tutto ciò vorrei parlarvi di alcune figure molto importanti per noi ragazzi: gli educatori. Gli educatori sono molto presenti nelle giornate in comunità e sono quelli con cui noi ragazzi instauriamo rapporti affettivi il più delle volte. Sono proprio loro a svegliaci al mattino, sono loro a decidere con noi il da farsi della giornata, sono loro a rimproverarci, a riprenderci, ma sono ancora loro a strapparci un sorriso quando siamo tristi. Oltre agli educatori abbiamo anche l’arte terapista, lo psicologo, l’assistente sociale, l’infermiere, la neuropsichiatra, la coordinatrice oltre al direttore. Tutte queste figure ruotano intorno a noi ascoltando le nostre richieste, venendo incontro alle nostre esigenze, ma anche negandole. Per questo motivo spesso ci sono dei contrasti ed essendo gestita da esseri umani, non sempre va tutto liscio come l’olio, ma si cerca comunque di trovare un punto d’ incontro tra lo staff educativo e terapeutico con i ragazzi. Ora invece, vorrei raccontarvi una nostra giornata tipo: la sveglia è intorno alle nove quando si è in vacanza, mentre durante l’anno scolastico o il periodo lavorativo dei ragazzi la sveglia varia a seconda delle esigenze personali; nella mattinata ci si occupa di rimettere in ordine le proprie stanze o si fanno commissioni; nel pomeriggio si fanno le varie attività (arteterapia, musicoterapia, teatro, laboratorio artigianale, panificazione ed altre ancora). Durante il week-end le attività vengono sostituite da gite fuori porta o uscite di vario genere. Un’attività molto importante è la terapia in natura: insieme ad un operatore esperto di sport di montagna e non solo, alcuni ragazzi vanno a fare arrampicate, trekking su ghiaccio, campetto sulla neve o vanno in canoa facendo un duro lavoro su di sé: si mettono alla prova non solo a livello fisico, ma anche a livello di sensazioni, di emozioni. L’ ultima cosa che mi piacerebbe aggiungere è il fatto che vi è una attenzione all’intercultura: infatti la comunità ha ad esempio ospitato per un paio di giorni tre ragazze indiane, le quali ci hanno portato una ventata della loro cultura ed una di loro, essendo maestra di Kathakali ci ha fatti approcciare, insegnandoci alcuni passi elementari di questa antica arte indiana che unisce danza e mimica. In ultimo vorrei ringraziare il dott. Luca Mingarelli poiché chiedendomi di scrivere questo testo mi ha dato la possibilità di dire la mia ed in extremis vorrei fare un saluto ai miei compagni di comunità, ricordandogli che un giorno, usciti da qua, parleremo delle comunità davanti ad un caffè al bar.”

I soggetti della CT sono adolescenti: questo è un periodo della vita ad oggi iper studiato ed in parte mitizzato. Che abbia o meno un disturbo psichiatrico l’adolescente ha il ruolo di mettere l’adulto in gioco, in discussione, con le sue provocazioni rispetto ai temi dell’autorità e della responsabilità. Gli adolescenti sono attratti dal volersi assumere responsabilità, autonomia, ma non ne sono ancora in grado: è tempo dell’ambivalenza, della contraddizione. Gli adolescenti attaccano peraltro così spontaneamente e naturalmente l’autorità degli operatori adulti, i quali sono messi nella condizione di doverla necessariamente esercitare, per dare una risposta dialogica e contenitiva e di assunzione ognuno del suo ruolo, della sua posizione all’interno del sistema Comunità Terapeutica. L’adolescenza è anche il tempo in cui si impara a scegliere; di conseguenza l’adulto ha il ruolo e la responsabilità di far fare esperienze in tal senso e di mettere di fronte a scelte da compiere; connesso all’opportunità che viene data di fare esperienze decisionali, c’è bisogno di aiutare l’adolescente a rispecchiarsi, cioè a comprendere le possibili conseguenze che le scelte ed azioni fatte possono determinare nel proprio percorso di crescita e nelle relazioni con gli altri; c’è da ricordare inoltre che l’adolescenza è il periodo in cui il corpo si trasforma rapidamente, e che il soggetto entra in contatto con tale cambiamento che suscita differenti vissuti ed emozioni. Un supervisore della CT Rosa dei Venti che è stato Enrico Pedriali, caro collega e conoscente nonché famoso ricercatore e studioso delle Comunità Terapeutiche, e che è purtroppo mancato, dopo aver letto il mio primo libro (adolescenti difficili, autobiografia di una CT per minori) mi ha lasciato il seguente breve scritto:
“Da tempo ormai, anche nel nostro paese, l’interesse per i problemi dell’età adolescenziale ha stimolato un’elaborazione teorico-clinica di buon livello, ma la cultura istituzionale, intesa come bagaglio di conoscenze ed esperienze in grado di fornire risposte efficaci e organizzate ai bisogni di questa fascia d’età, rimane ancora debole per due ordini di motivi. Il primo deriva dalla tradizione di stampo solidaristico-caritativo che per lungo tempo ha costituito il modello dominante nei servizi rivolti a questo tipo d’utenza e il secondo è la conseguenza indiretta del pregiudizio antiistituzionale che in anni relativamente recenti ha sensibilmente frenato una valida sperimentazione in questo ambito. Ciò nonostante, sono proliferate negli ultimi tempi strutture di accoglienza per adolescenti problematici che sulla base di motivazioni e finalità variegate si sono definite tout-court Comunità e si caratterizzano per l’eterogeneità dell’utenza, dei modelli teorici e delle prassi operative. Non sempre alla bontà degli intenti è corrisposta un’adeguata capacità organizzativa, una decorosa preparazione degli operatori e una disponibilità a sottoporre a verifica metodologie e risultati.
Terapia, Educazione, Arte e Natura: queste quattro direttrici si intersecano continuamente nelle pratiche della Comunità Rosa dei Venti e insieme concorrono a determinare il progetto terapeutico globale di ogni singolo paziente. Se si può dare per scontato che Terapia ed Educazione rappresentino le fondamenta di ogni struttura che accolga adolescenti con problemi psicologici e sociali, Natura e Arte sono invece entità inconsuete, il più delle volte trascurate o sottovalutate nella strategia di cura e reinserimento. Nella prassi di Rosa dei Venti, la Natura offre un canovaccio su cui si sviluppano molti interventi sia a livello individuale che gruppale e l’Arte viene intesa come espressione di potenzialità da ricercare e liberare anche nei gesti della vita quotidiana. Lo stile narrativo del libro facilita la riflessione sia su aspetti culturali di base come quello del rapporto corpo-emozione-mente, sia su questioni metodologiche come l’impiego dei gruppi e il rapporto tra psicoterapia e psicoeducazione.
Se si considera la turbolenza ed il carattere di transitorietà di questa età della vita, un approccio del genere rappresenta un buon punto di partenza per una prospettiva di cambiamento.
Il compito principale della comunità è dal mio punto di vista, di attivare un processo di cura non improvvisato e di offrire al tempo stesso un contenitore ed un contenuto adeguati all’universo degli adolescenti. Il curante è la comunità degli operatori, che propongono un progetto e cercano di collaborare il meglio possibile con i genitori ed i servizi pubblici, che sono invitati ad aderire allo stesso. Le azioni della rete curante si sforzano di diventare il contenitore delle parti disturbate e disturbanti della personalità degli abitanti la CT, di rendere manifeste le potenzialità e i livelli di autonomia e di facilitare la re-integrazione sociale. Per riuscire a far ciò ritengo necessario un costante lavoro di continua auto osservazione del modo di pensare, di vivere le emozioni ed agire sia del singolo che del gruppo di operatori della comunità. Un altro requisito necessario per “sopravvivere” alle forti tensioni sempre presenti in tale contesto è la capacità di sviluppare tolleranza in relazione all’ambiente continuamente frustrante in cui si opera.
Alla rosa dei venti ricerchiamo un approccio artigianale, orientato verso la difficile arte di ritrovare uno sguardo umile, un po’ francescano oserei dire, globale e nel contempo attento ai dettagli. Moore a proposito scriveva: “nella tensione troviamo vitalità, dal paradosso troviamo insegnamenti, camminando sul filo dell’ambivalenza acquistiamo in saggezza e nel dare fiducia alla confusione che sempre la molteplicità genera, acquistiamo confidenza in noi stessi.”

La comunità è un essere vivente, spazio di incontri e di scontri. Dovrebbe essere un sistema aperto e delimitato da una membrana o confine che la separa e mette in contatto con il mondo, dalla famiglia e i parenti degli adolescenti ai servizi pubblici, ai cittadini; questo confine, qualora venga ben curato e presidiato, è fondamentale per la riuscita del lavoro in CT. La CT è un luogo dove la difficile sfida del convivere, già da tempo appartenente alla nostra cultura e società, è notevolmente amplificata in relazione all’età in gioco ed alle problematiche personali degli adolescenti residenti.

È un luogo di ricerca-azione, dove si cerca continuamente, a volte con fatiche esagerate, ed anche senza sempre riuscirci, di integrare il fare educativo al pensare terapeutico e di sostenere e realizzare un progetto comune dove tutte le componenti di rete interne ed esterne sono a differenti livelli coinvolte, dal ragazzo ai genitori ai servizi invianti agli operatori della CT. Si tratta dunque di un lavoro dove è necessario assumersi la responsabilità di “tenere insieme”, o meglio “mettere insieme” i frammenti della personalità dell’adolescente residente, che possono influenzare i vari componenti la rete curante.

Un altro ingrediente strutturale caratterizzante la modalità di essere-fare CT alla rosa dei venti, è che diamo importanza all’ osservare le connessioni e disconnessioni tra i tre livelli dell’essere umano: corpo, emozioni, mente; diamo rilevanza ai segnali non solo di pensiero ma anche emozionali e corporei, che a volte vengono trascurati. A proposito delle connessioni è vero che i ragazzi quando entrano in CT sono interiormente “a pezzetti”, frammentati, ed anche le relazioni che hanno con il mondo lo sono; a questo stato cerchiamo di affiancare una ricerca continua sulle connessioni, sull’integrazione dei modi di intervento dei vari operatori coinvolti, sia interni al sistema CT (l’equipe) sia esterni (i servizi pubblici, i servizi territoriali come le scuole, i luoghi di lavoro ecc., i parenti). Sul piano operativo l’ingresso dei minori in comunità avviene dopo una serie di filtri e contatti preliminari da parte del gruppo della CT, con i servizi pubblici che fanno la richiesta di inserimento: enti comunali, più soventi servizi di neuropsichiatria del territorio o aziende ospedaliere - in questa prima fase osservativa e conoscitiva si incontrano il futuro potenziale ospite ed in seguito i servizi e i genitori - se possibile - ed il potenziale futuro ospite. L’’immissione eventuale viene valutata solo alla condizione che il minore in questione abbia una seppur piccola motivazione o comprensione del perché dovrà fare una terapia di CT. La durata della permanenza è compresa tra un minimo di uno ad un massimo di 2 anni.

La definizione dell’esistenza di un tempo massimo di due anni di permanenza in CT, mi aiuta nel meglio definire i confini di identità della comunità: il rischio che corriamo nel non aver chiari i limiti di tempo di permanenza in CT è di esser confusi con un “cronicario”, o con un pronto intervento o un reparto ospedaliero e certamente non facilitare l’alleanza con l’adolescente che ha diritto a sapere per quanto tempo sarà “deportato”(verbo usato da G.P. Charmet in un dialogo con me).

Con una modalità sistemica di approccio si tengono periodici contatti con i servizi invianti, con le famiglie e con i territori di appartenenza e di origine tramite incontri periodici presso la sede della CT e telefonate. Prima dell’inserimento dell’adolescente, viene richiesta la firma di una dichiarazione di impegno di tutti i coinvolti, di co-responsabilità ed adesione al progetto. I servizi pubblici del territorio che richiedono l’inserimento, sono una componente fondamentale del nostro intervento: abbiamo potuto constatare quanto sia importante, fin da subito, stabilire reciprocamente i mandati delle varie parti costituenti la “rete curante”: chi fa che cosa e come ci si connette e scambia rispetto al proprio operato. I servizi invianti presentano modalità di approccio assolutamente differenziate e personali: a volte proiettano su di noi fantasie salvifiche, altre volte invece, saturi della difficile gestione che determinate situazioni comportano, hanno modalità quasi abbandoniche, espulsive, altre volte tendono ad essere fortemente invasivi ed autoritari rispetti al piano terapeutico, o ancora cercano inconsciamente di snaturare la nostra identità, utilizzandoci come centro di pronto intervento o reparto. Nell’osservare i primi passi che ogni servizio muove nei nostri confronti, già nella prima fase di presentazione del caso, raccogliamo dati che possono aiutarci a capire cosa muove il paziente negli altri.

Più ci penso e più mi rendo conto di quanto sia difficile esser esaustivo nella definizione di CT per adolescenti: è un sistema complesso ed in continuo instabile movimento, come del resto l’adolescenza, e costituito di sottosistemi che si interrelazionano, inserito in un sistema più grande, la società, dalla cittadina alla regione, alla nazione, alla terra.

Lo spazio di vita della comunità è principalmente la casa. All’interno di essa, la vita quotidiana gioca un ruolo essenziale nel processo di cura. Vorrei sottolineare che ciò che cerchiamo di fare con i nostri ospiti è di creare le condizioni per permettere l’ espressione di tutto quello che abita nascosto in loro: questo significa esser presenti alle loro crisi, isterie e paranoie, violenze e silenzi, intuizioni e trasgressioni, ed intraprendere insieme un cammino che possa portarli a quel livello di autonomia minima e rispetto della vita e delle regole sociali, per loro possibile. Altra riflessione per me importante è relativa alle possibili cause di cui ci parla spesso un certo tipo di mondo, rispetto alle quali esprimo il mio accordo con il pensiero di J.Hillmann quando pone in discussione la ‘’superstizione parentalÈ che riconduce ogni problema dell’individuo alla responsabilità dei genitori, in special modo alla madre. Credo che dovremmo anche ampliare lo sguardo e cercare anche nella memoria generazionale, nel legame con i nonni e bisnonni. La cultura degli antenati è cultura che ci connette al passato, all’origine, alla linea ereditaria di cui siam parte, alle tradizioni popolari ancor tramandate oralmente (e non con il pc o via sms!) con i propri riti, alla grande biografia della vita di cui tutti siam parte. Nel primo periodo di apertura della CT, nel quale ho ricoperto il ruolo di Direttore e Coordinatore, ho sempre presentato la comunità ai ragazzi e ragazze, nel momento del loro inserimento, con le seguenti parole ed immagini: è un luogo di passaggio, ma non è un albergo e neppure un carcere. La CT viene spesso demonizzata nelle fantasie degli adolescenti che la abitano, come un luogo per i “matti” o per criminali e, dunque, non idonea né utile a nessuno di loro. I vissuti portati dai ragazzi soprattutto nel primo periodo di inserimento in CT, sono che qui ci sono regole da carcere, dove non puoi far nulla, oppure all’opposto cercano una situazione da albergo possibilmente di lusso, dove tutto è dovuto, dove la pretesa è di essere serviti e riveriti; gli educatori son di volta in volta dunque investiti della funzione di secondini o di camerieri, con una conseguente pressione continua che rende difficile mantenere il ruolo professionale. La Comunità ha come funzione fondamentale, dal mio punto di vista, di essere un contenitore: un luogo dove gli agiti “disturbati” e disturbanti dei ragazzi accolti si incontrano o si scontrano con le azioni educative e terapeutiche pensate e proposte dal gruppo. La Comunità Terapeutica rosa dei venti è spazio di convivenza di un gruppo formato da oltre 20 persone tra i residenti, 8 adolescenti, ed il gruppo operativo, composto da circa 15 adulti (non tutti presenti contemporaneamente). Per fare in modo che la Comunità sia un effettivo spazio di esplorazione della realtà ed un contenitore con confini permeabili, ritengo necessario poterla “contaminare” con presenze di differenti età, interessi e luoghi di provenienza e di poter sensibilizzare il territorio stesso con le nostre presenze e cultura. Lo scambio tra dentro e fuori è tema spesso discusso nelle riunioni, e tutti gli operatori coinvolti nel garantire il più possibile un processo osmotico funzionale. A tal proposito ci domandiamo ed osserviamo com’è e come funziona il rapporto tra il dentro la CT ed il fuori, il mondo: se è “troppo piena” o “troppo vuota”, parametri già sapientemente utilizzati dalla medicina cinese. Un’ ulteriore immagine che mi sembra chiarire un aspetto importante dell’identità della CT è quella del porto, che sottolinea la transitorietà dell’abitare il luogo, dove la sosta ha una durata limitata nel tempo e dove le persone si incontrano per caso e poi si separano. Con questa immagine ci tengo a sottolineare ai residenti la temporaneità dell’abitare insieme, che facilita la difficile impresa di scegliere di vivere in CT. Infatti l’allontanamento dal sistema famigliare è causa di intense e toccanti emozioni negative di sofferenza, tristezza, angoscia di separazione che, a volte, si manifestano in agiti violenti verso di sé o verso gli altri. Come abitare, vivere il luogo casa è tema di ricerca e questione continuamente proposta, oltre che strumento di base alla CT rosa dei venti. L’arte più importante e difficile per ogni essere umano è l’arte di vivere, diceva il famoso drammaturgo B. Brecht. Nelle modalità di rapporto con la casa si cercano di integrare gli aspetti artistici, poetici ed estetici, alla visione terapeutica e all’azione educativa. Di solito gli utenti adolescenti portano in comunità il proprio caos interno e la propria storia e di conseguenza non hanno una particolare passione, nè interesse e neppure abitudine, verso la cura della casa: questo comportamento è specchio della mancanza di cura di sé, di amore per la vita e di autonomia, bagaglio con cui spesso gli adolescenti arrivano in CT. Il team educativo-terapeutico cerca continuamente di favorire una tendenza alla struttura e all’autonomia nel tenere ordine, un tipo di ordine possibile per un adolescente. Come gli adulti operatori abitano la casa è azione e lavoro fondamentale che può facilitare ed attivare il processo di imitazione, e dal quale potrà gradualmente svilupparsi appartenenza e rispetto della casa-comunità. Imparare a stare in contatto con la casa e ad averne cura, come se fosse una persona, è uno degli obiettivi e responsabilità del gruppo curante e degli educatori in particolare; la struttura delle mansioni è costruita con la collaborazione degli ospiti: vengono discussi e decisi i turni dell’apparecchiare e sparecchiare, del pulire i bagni, del riordinare la propria stanza e così via, del fare delle cose per sé stessi e per gli spazi personali e ed altre cose per il gruppo e per gli spazi comuni. Ricordo come esempio di appartenenza, fattore fondamentale riguardante la relazione con la casa, un’educatrice che era solita iniziare “i mestieri” con della musica che le piaceva molto: i ragazzi incuriositi si avvicinavano a lei e le davano una mano; un’altra invece quando entrava in turno, si metteva le ciabatte, con estrema naturalezza, come se fosse stata a casa sua! Gli ospiti spesso non vogliono fare le mansioni concordate, ed è compito degli operatori aiutarli a prender coscienza di ciò che è successo, delle difficoltà a stare alle regole e dei vissuti che si generano anche negli altri ospiti in seguito alle trasgressioni. Si chiede agli adolescenti residenti di sperimentare la gestione della vita quotidiana con le sue regole di convivenza, attraverso un mansionario che è adattato alle capacità di ognuno. Solitamente si propone, alla data dell’inserimento dell’ospite, un mansionario in un primo periodo più semplice, per andare a chiedere sempre di più in qualità e quantità con il passar del tempo. Nell’ultimo periodo di permanenza in struttura, è in generale lasciato spazio alla più ampia autogestione possibile ed alla verifica del livello di autonomia raggiunto. Ricordo spesso agli operatori coinvolti che i ragazzi e le ragazze che vivono in CT, sono innanzitutto adolescenti, dunque in una fase della vita di passaggio, impregnata di elementi naturalmente trasgressivi.

È un’opportunità ed una necessità per gli educatori ritornare alle proprie memorie della loro adolescenza e poter riflettere rispetto a similitudini e differenze di atteggiamenti e modi di essere, in paragone agli ospiti presenti, in particolare per comprendere le differenti quote sane e anche quelle “non sane”; la riflessione autobiografica favorisce inoltre la possibilità di cambiare il proprio punto di vista. Gli educatori hanno il compito di accogliere e contenere gli adolescenti presenti, con le loro crisi, con i loro bisogni che, spesso non accolti per lungo tempo, hanno urgente necessità di essere compresi e contenuti. “Cosa vuole esprimere, cosa mi sta domandando nel fare così o nel dirmi ciò...” è domanda da porsi nel ruolo di operatori della CT. Questo non significa che bisogna sempre essere disponibili ai loro bisogni e richieste sviluppando quella che ho ironicamente chiamato “la sindrome di Babbo Natale”, ma esser in grado di accoglierli, contenerli e di porsi domande sul significato dei loro agiti e comunicazioni e su quel che si cela dietro/sotto di essi. È fondamentale provare a riconoscere se le richieste e proposte degli adolescenti residenti corrispondano ad un bisogno sano o meno, dove il “no”, risposta a cui non sono abituati, genera frustrazione ed ansia. Diversi ruoli collaborano in CT, la coordinatrice e responsabile del personale, la neuropsichiatra, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, l’infermiere, la terapeuta a mediazione corporea, esperta in medicina cinese, l’artigiano, esperti di teatro e videoproiezioni, un’artista, un musicoterapeuta, ed un terapeuta che svolge il suo intervento residenziale mensile, in ambienti naturali con piccoli gruppi, ma la figura di base in comunità è l’educatore, o meglio il gruppo educativo, medium concreto e responsabile del progetto di crescita e cura degli adolescenti residenti. Tale ruolo dell’educatore in prima linea, richiede un sistema di protezione e supporto ben pensato ed adattato al contesto del momento, tra cui le riunioni di equipe settimanali, la formazione, la supervisione, oltre che una attenta gestione del personale; questo sistema di protezione, la “cura del curante”, cerca di ridurre al minimo l’instabilità del sistema che è per sua costituzione instabile; al nuovo educatore viene suggerito di seguire un percorso psicologico personale. Mi son formato l’immagine che l’identità degli educatori della comunità sia simile a quella di un artigiano dell’educazione, nel senso di qualcuno che fa e ad un artista della relazione, nel senso di qualcuno che cerca di essere creativo nel fare ciò che deve fare. Ecco alcune delle capacità ideali che secondo me servirebbero come bagaglio degli educatori coinvolti nell’operare in CT e che fanno parte della formazione sul campo:

  • “fare con”: parte essenziale dell’intervento di ogni educatore sarà affiancare l’adolescente, o farsi affiancare, per svolgere le mansioni previste; dall’esperienza della nostra CT ho potuto verificare come sia estremamente difficile e necessario provare a coinvolgerei residenti, ognuno con i suoi limiti e le sue attitudini, in tutte le attività di casa e di vita quotidiana (giardino - orto - teatro - cucina - pulizie - spesa...)
  • Capacità di farsi e fare domande, di mettersi in gioco, con atteggiamento curioso e fiducioso verso il mondo e l’altro; a tal proposito mi sembra molto utile e pertinente ritornare alla domanda di D.Winnicot: “Quali sono le condizioni che favoriscono o inibiscono nell’individuo l’estrinsecarsi del vivere creativo?”
  • Cercare una relazione empatica, con la distanza/vicinanza utile da ogni adolescente abitante la Comunità: un po’ come col fuoco, non si può star troppo vicini e neppure troppo lontani.
  • Ricercare uno spazio di azione intermedio tra far fare e lasciar fare, tra stare vicino e allontanarsi.
  • Funzione paterna, come capacità di con-tenere ed aiutare a riconoscere i propri limiti, con fermezza.
  • Dare valore e spazio al rifiuto, al conflitto; favorire la comunicazione di ciò che non va, dei disaccordi e non solo degli accordi.
  • Capacità di conduzione di attività ludiche-ricreative e laboratori rispetto alle attitudini personali.
  • Capacità di comunicare con sincerità e cooperare con i diversi gruppi, di costruire “reti” con il sociale.
  • L’educatore-ed anche il terapeuta- dovrebbe dal mio punto di vista, sviluppare una qualità della percezione non ordinaria, una specie di “fiuto” che permetta di riconoscere le situazioni critiche o pericolose, nel loro sorgere.
  • L’immagine del coro: la complessità di comunicare con più voci, cioè come i differenti ruoli possano collaborare “senza pestarsi i piedi”.
  • C’è bisogno che l’educatore sia in grado di dosare disciplina e spontaneità, del ripetere le stesse azioni educative in modo consapevole, e al suo opposto dell’essere creativi, del caos e dell’ordine.
    Gli opposti esistono e se ben dosati e bilanciati possono esser fecondi. Spesso accade che, quando l’educatore ascolta, contiene il caos degli ospiti e la relazione di fiducia sul piano inconscio, profondo, tende a consolidarsi.
  • C’è bisogno di imparare ad essere “genitus”- a generare idee ed azioni, in contrasto alla sterilità che portano con sÈ gli adolescenti residenti; tale loro forza entropica contamina innanzitutto gli educatori e gli infermieri, quotidianamente in contatto con questa vibrazione distorta e disordinata, si potrebbe dire stonata.
  • Un’educatrice e amica, Nora Giacobini, diceva che “per conoscere bisogna lasciar sedimentare il guazzabuglio”.
  • Mi ricordo di un viaggio che ho fatto presso una cultura diversa dalla nostra, dove le persone che aspettavano l’autobus non avevano la minima idea dell’ora in cui sarebbe passato, ed erano comunque lì, ad aspettare senza preoccuparsi, reazione impensabile nella nostra cultura dell’efficacia e della fretta. Traendo spunto da questo insegnamento non dovremmo accanirci a voler cambiare i residenti, ma dobbiamo assumerci la responsabilità di rispettare i tempi di ognuno e di domandare a noi stessi se questa esperienza ci stia cambiando, e come.
  • Avvicinare gli ospiti verso il dialogo con il proprio immaginario, garantire spazi e tempi strutturati dove poterlo esprimere e raccontare; narrare miti della nostra e di altre culture, leggere insieme biografie di uomini illustri, ascoltare e stimolare il racconto delle loro storie di vita, delle loro biografie, in momenti protetti e strutturati.
  • Il management della frustrazione come possibilità educativa e terapeutica; il tempo dell’attesa, tempo in cui può crescere il desiderio senza che ci sia necessariamente risposta; imparare ad accettare che non si può avere tutto quello che si vuole, né si può averlo subito; in bilanciamento alla frustrazione l’educatore si adopererà per proporre momenti compensatori di piacere e gratificazione.
  • Imparare ed insegnare ad avere cura, di sé stessi, tramite il prendersi cura dello spazio-casa. A tal proposito ci tengo a dire che un aspetto attorno al quale la ricerca è attiva è l’arte della manutenzione; tale arte è azione estremamente difficile e faticosa soprattutto sul piano emotivo. Attorno a questo tema abbiamo dedicato continuativamente riflessioni ed azioni da quando la comunità è stata aperta. La manutenzione viene intesa nel pensiero comune come atto puramente tecnico, mentre nella comunità rosa dei venti si cerca di farlo diventare atto del “far comunità”. La manutenzione riguarda la conservazione dell’energia, il non spreco, atto quasi impossibile in una società consumistica come la nostra; ciò che viene sottoposto a manutenzione passa dal disordine entropia all’ordine.

La parola “manutenzione” ha radici latine: manu e tenere, cioè tenere in mano: abbiamo due mani, una mano attiva che controlla, dirige, indica la direzione, da’, l’altra mano passiva, sente, riceve.

Nelle epoche preindustriali, le mani avevano un grande valore: toccare con mano l’acqua, il legno, la cenere, le piante, la terra, gli animali, la spazzatura; i palmi delle mani giunti in preghiera; il carattere delle persone era letto nel palmo; il potere veniva trasmesso attraverso le mani, il medico comprendeva lo stato di salute, il sacerdote benediceva…

Oggi, per via della tecnologia imperante, utilizziamo quasi esclusivamente le punte delle dita, come ad esempio si può notare dal passaggio tra scrittura con la mano e scrittura sul computer con le punte delle dita, dunque la parte razionale domina. La manutenzione va nella direzione opposta al consumismo, è una via ecologica ed economica: sono oramai rare le persone che aggiustano, quando qualcosa è rotto si butta, aumentando la quantità di immondizie che la terra è obbligata ad ospitare.

Una questione emergente che mi sta a cuore è dunque come prendersi cura come gruppo e come individuo, dello spazio della casa comunità, in un senso funzionale e creativo. Come rendere un dovere il più possibile piacevole per i nostri ospiti e per gli operatori, e come motivare gradualmente a fare qualcosa che è quasi sempre sconosciuto nel periodo dell’adolescenza.

La casa intesa come corpo collettivo di cui avere cura è dunque il grande laboratorio e contenitore della Comunità rosa dei venti. La casa è luogo di lotta continua tra gruppo operativo e gruppo degli ospiti.

Per concludere ricordo che da noi le regole di convivenza non sono imposte dall’alto ma in modalità democratica co costruite tra adolescenti e ospiti ed anche le reazioni alle trasgressioni che chiamiamo “riparazioni” sono pensate e decise insieme.


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