Volume 25 - 23 Dicembre 2022

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Saperi e saper fare al confine: l’etnopsichiatria
Progetto FAMI SPRINT2

Autore

Rivevuto l’8/12/2022 – Accettato l’11/12/2022



Riassunto

Nel presente contributo l’intento è di descrivere le linee metodologiche di intervento dell’etnopsichiatria a partire dalla declinazione operativa del progetto FAMI SPRINT2, che ha raggiunto capillarmente i servizi deputati al trattamento della salute mentale sul territorio toscano. Partendo dal presupposto che la salute mentale pubblica e di comunità sta attraversando un momento storico di crisi, ci si appella alla necessità di identificare nell’approccio multidisciplinare dell’etnopsichiatria un modello possibile per uscire dall’empasse in cui ci troviamo. Inoltre l’occasione del doverci occupare di migranti forzati, ci costringe a recuperare e a rimettere in prospettiva la dimensione gruppale attraverso il senso del fare comunità all’interno di una cultura dell’inclusività e a considerare la cultura quale leva terapeutica fondamentale, intendendo anche la cultura degli operatori nell’incontro con l’alterità radicale, che pone la questione del come riconoscere i propri assunti di base e il controtransfert culturale.


Abstract

In this contribution, the intention is to describe the methodological lines of intervention of ethnopsychiatry starting from the operational declination of the FAMI SPRINT2 project, which has widely reached the services assigned to the treatment of mental health in the Tuscan territory. Starting from the assumption that public and community mental health is going through a historic moment of crisis, we appeal to the need to identify in the multidisciplinary approach of ethnopsychiatry a possible model to get out of the impasse we are in. Furthermore, the occasion of having to deal with forced migrants forces us to recover and put the group dimension back into perspective through the sense of making community within a culture of inclusiveness and to consider culture as a fundamental therapeutic lever, also meaning culture of operators in the encounter with radical otherness, which poses the question of how to recognize one's basic assumptions and cultural countertransference.


Premessa

A circa un anno e mezzo dalla ripresa dei lavori, il progetto SPRINT (nota 1), giunto alla sua seconda edizione dopo una lunga pausa, può cominciare a delineare alcune linee metodologiche sperimentate all’interno dei servizi con gli operatori della salute e non solo.

La cornice epistemologica, a cui il progetto si è ispirato e all’interno della quale si inserisce, è l’etnopsichiatria, che oltre che disciplina si connota per essere l’orientamento teorico e tecnico che può supportare una visione complessa della realtà di indagine e da cui viene essa stessa indagata. L’etnopsichiatria, sempre più spesso connotata in quanto definisce le modalità di intervento di coloro che arrivano da mondi altri, è finita alle volte confinata o forse molto appesantita dal suffisso “etno”. Gli altri sono etnici, gli altri sono esotici, gli altri sono portatori di culture che non capiamo e che rendono gli umani con cui entriamo in contatto a tratti incomprensibili. Nel riconoscere l’etnicità dell’altro spesso dimentichiamo di essere anche noi altrettanto etnici, definiti culturalmente, con una specifica fabbricazione – antropopoiesi(1) la definiscono gli antropologi - che è riconducibile ai processi di filiazione e di affiliazione anche inerenti l’appartenenza professionale.

Nel particolare momento storico in cui ci troviamo, con ben due emergenze umanitarie, afghana e ucraina, che si sono susseguite rapidamente, e la ben nota situazione geopolitica che coinvolge il continente africano e l’Asia meridionale (per considerare ciò che ha un impatto immediato sul nostro contesto), gli equilibri politici, sociali, economici, psicologici, biologici e ambientali hanno ricevuto un duro colpo, che non possiamo non ricondurre alla profonda crisi che sta investendo molti settori, ivi compresa la salute e la gestione della salute. A questo va aggiunta la destabilizzazione prodotta dal COVID e dalle strategie di intervento sul virus, che hanno spostato l’attenzione sul trattamento dell’urgenza e dell’emergenza, più di quanto già non fosse in auge precedentemente.

Se guardo alla nostra filiazione e affiliazioni successive, posso riconoscere di appartenere alla cultura basagliana e post basagliana, di rinvenire nel concetto di inclusività la cifra dell’organizzazione e della struttura della salute mentale. Sottolineo altresì che il fare comunità rappresenta da sempre - ovvero dalla cultura dell’inclusività in poi – uno degli oggetti fondanti l’intervento nell’ambito della salute mentale. Parafrasando uno dei libri di Piero Coppo(2), posso dire che occuparsi di follia e concepirne lo status di esistente ha a che vedere con la fabbricazione di contesti comunitari e gruppali, senza i quali la complessità del curante e della cura decadrebbero appiattiti su una bidimensionalità asfittica.

Nell’etnopsichiatria, che ho potuto fin qui sperimentare, alcune parole testimoniano di corporeità che se convocate inducono automaticamente la costruzione di comunità e di sistemi inclusivi: mondi multipli visibili e invisibili, pluralità, democrazia, parlamento, negoziazione, diplomazia, politeismo per citarne alcune. Veicolando il concetto dalla teoria degli attaccamenti(3), riconosco che queste parole sono oggetti attivi la cui presenza fa fare delle cose e per fare un esempio classico tra tanti sappiamo che concepire l’inconscio, l’esistenza stessa dell’inconscio, mette in moto sistemi di lettura dell’umano e dunque della sua salute mentale, che si declinano in ipotesi diagnostiche e trattamentali, in etiologie e patogenesi ben definite. L’elenco che propongo mi permette di identificare e riconoscere la dimensione politica, relazionale e immateriale: sono i tre vertici del triangolo che applico ai diversi contesti clinici dell’operatività.

Il progetto SPRINT2 ha promosso una modalità di intervento che chiamo consultazione clinica parlamentare(4) in presenza del paziente o dell’utente; con i soli operatori della salute mentale e in generale degli addetti al benessere psico-socio-assistenziale e giuridico delle persone; con gruppi di utenti che per praticità dividiamo in richiedenti asilo e italiani.


Fare comunità: l’approccio gruppale

Nell’approccio etnoclinico a cui faccio riferimento, la metodologia adottata è di tipo gruppale: presuppone la presenza di professionisti che appartengono a discipline diverse e convoca gli utenti e gli operatori a identificare l’oggetto di lavoro sul quale intervenire. Non esiste intervento etnoclinico che non convochi la gruppalità e parlo di geometria variabile(5) sia per quanto riguarda la costruzione del setting sia per quanto riguarda il modo di concepire il soggetto, che nella sua fabbricazione porta la pluralità e il molteplice. L’incontro con l’altra persona si realizza attraverso la convocazione dei mondi di cui quella persona si fa rappresentante. Sono i mondi visibili e invisibili, fatti di cose, di oggetti che ci fanno fare azioni, gesti, pensieri.

Josep Rafanell I Orra(6) afferma che “L'incontro, l'incertezza del divenire nel contatto con esseri del fuori, è il momento in cui, come curanti, siamo abitati da una storia, il momento in cui guardiamo insieme al sogno del bambino che dorme, dove vegliamo un morto e le sue divinità, dove evochiamo le voci degli antenati, dove ricordiamo un paesaggio, le avventure di un quartiere proletario insorto e dove risuona la voce di Achab nello studio del colloquio terapeutico. Il momento dell'attuazione di una democrazia delle differenze che è la comunizzazione di un'esperienza.”

Dal ’99 opero in contesti istituzionali deputati alla cura delle persone, luoghi che si occupano della salute mentale di soggetti che appartengono a realtà diverse della popolazione: i malati di AIDS, le persone affette da malattie sessualmente trasmissibili o da malattie infettive in genere; coloro che a causa di una sventurata sorte si sono trovati in stato vegetativo permanente in un letto di ospedale; i detenuti appartenenti a cosche mafiose e i pentiti della criminalità organizzata; i pensionati della FIAT che hanno sviluppato un disturbo cardiologico importante e che si ritrovano con il cuore debole; uomini e donne che decidono di intraprendere il difficile percorso della fecondazione assistita; le famiglie degli operai vittime della non curanza della protezione del lavoro e dei lavoratori, torce umane nelle fiamme divampate nella Thissenkrup di Torino; le donne vittime della tratta e della prostituzione; i migranti dal sud Italia e dal Veneto e i migranti dal resto del mondo; gli operatori socio-sanitari dei servizi italiani e francesi.

In tutte queste situazioni ho potuto costatare che la dimensione comunitaria, che si attiva attraverso il gruppo e che può promuovere processi terapeutici e curativi - la stessa dimensione che alimenta un modo di concepire la salute mentale in Italia – permette di resistere alla dinamica che vuole atomizzare l’individuo, alla credenza che siamo soli al mondo e di rispondere alla sterilità che spesso l’adesione ai tecnicismi trattamentali produce. Attivare il gruppo della consultazione clinica parlamentare, i gruppi di parola con le utenti e gli utenti, i gruppi con gli operatori e le operatrici, i gruppi socio-terapeutici all’interno del progetto SPRINT2, ha l’obiettivo di promuovere connessioni tra un dentro e un fuori, tra i luoghi della cura e della comunità.

Molti sono stati i dispositivi etnoclinici allargati che sono stati attivati per promuovere una modalità articolata nella presa in carico dei e con i servizi. L’equipe multisciplinare mobile di SPRINT2 ha facilitato e promosso la creazione di alleanze tra operatori e tra operatori e utenti, accompagnando alla presa in carico e in cura.

In questa cornice abbiamo pensato di attivare gruppi di parola rivolti alle donne (Grosseto, Prato, Arezzo, Piombino) e ai Minori Stranieri Non Accompagnati (Firenze e Lucca). Un caso a sé è rappresentato da un gruppo per soli uomini all’interno di un CAS (Piombino), che ha avuto l’obiettivo di elaborare il trauma collettivo vissuto a seguito del suicidio di un beneficiario, avvenuto nei mesi precedenti l’avvio dei lavori del progetto.


I gruppi con le donne

Le donne nel contesto migratorio sono ancor più marginalizzate, chiuse in una sofferenza silenziosa, in una emarginazione e isolamento attribuibili da un lato alle condizioni dell’organizzazione dell’accoglienza, dall’altro al quadro etnopsicologico e antropologico che presentano. Il gruppo in questo caso diventa un luogo di complicità, di riconoscimento reciproco, un’occasione per restituire la parola e la soggettività attiva.

La presenza dell’antropologa e delle mediatrici linguistico culturali permette di affrontare liberamente temi importanti quali l’essere madre in terra straniera, come si crescono i bambini, cosa vuol dire lavorare o non lavorare, la relazione sentimentale, la relazione con l’altro sesso, la dimensione del piacere, potendosi implicare a partire dalle proprie determinanti culturali, in uno spazio privo di giudizio e di interpretazione. Il gruppo si configura come luogo in cui poter confrontare modelli, teorie e letture della realtà e in cui ricevere risposte alle domande che concernono i modi di organizzare il vivente nel nostro mondo che le ospita. Si crea un crocevia di mondi, il cui incontro inaugura nuovi oggetti, nuove situazioni che sono la sommatoria non matematica di quegli stessi mondi e che definiscono la particolare comunità che si attiva attraverso il lavoro del gruppo.

A Grosseto partecipano donne di provenienza diversa, per cui ho convocato la contemporanea presenza di più mediatrici. Mi occupo della conduzione. Partecipa e co-conduce l’antropologa, tenendo un diario delle sedute. Il diario è un vero e proprio diario di bordo, che permette di mantenere il filo della narrazione tra un incontro e l’altro, di rendere partecipe anche chi non è stato presente, di costruire memoria, laddove spesso c’è stata una cesura, di cui il vissuto di trauma si fa portavoce. È il tentativo di restituire il riconoscimento della propria storicità nel mondo. Il trauma separa, destruttura, slega e allontana dai propri attaccamenti. Il gruppo riconnette, struttura e lega attraverso la fabbricazione di nuovi e inediti oggetti rappresentanti di quel fare comunità.

La composizione mista prevede il coinvolgimento delle donne italiane che afferiscono ai servizi, in particolare l’UFSMA (Unità Funzionale Salute Mentale Adulti). Ho deciso di aprire anche alle donne italiane affinché sia possibile favorire una dimensione maggiormente inclusiva sia per le donne migranti sia per le donne italiane. Anche noi occidentali siamo etnici: l’etnopsichiatria è per tutti e promuove presso i servizi di salute mentale una metodologia di intervento utile ad attivare processi virtuosi di lavorazione dei soggetti e a identificare nella cultura una leva terapeutica fondamentale. Le pazienti vengono presentate dai loro curanti e questo permette di creare un’alleanza con loro.

Il setting si distingue per essere flessibile: ha la sua sede elettiva nella biblioteca del CSM (Centro di Salute Mentale) e organizza periodicamente delle incursioni concordate in luoghi esterni. Uscire dai confini spaziali dell’ambulatorio permette di conoscere e abitare gli spazi cittadini e di rendere visibile chi spesso rimane invisibile e sconosciuto. Sovente infatti se non nella totalità delle situazioni, i centri di accoglienza sono in luoghi distanti dalla città, difficili da raggiungere con i mezzi pubblici e questo contribuisce ad accentuare il vissuto di emarginazione e isolamento, foriero di grave disagio sociale e psicologico.

Le donne sono vittime della tratta, di traumi intenzionali, di violenze incorse al paese di origine, durante il viaggio, all’arrivo in Italia e durante la permanenza. In molte situazioni la violenza istituzionale e burocratica acuisce la sofferenza psichica, che richiede uno spazio e un tempo dedicati attraverso il fare comunità.


I gruppi con i MSNA

Altro esempio sono i gruppi con i MSNA richiesti dai servizi, sempre più in difficoltà a gestire situazioni altamente complesse dal punto di vista del comportamento all’interno delle strutture di accoglienza, delle determinanti culturali che spesso non collimano con le richieste di buona convivenza, dei quadri di carico emotivo e psicopatologico che i soggetti presentano. La complessità è data dal fatto che si tratta di minori, che in quanto tali nel nostro sistema giuridico godono di un trattamento specifico e di diritti ben precisi; che la macchina istituzionale dell’accoglienza da un lato favorisce la stabilizzazione della permanenza sul nostro territorio ma dall’altro richiede di conformarsi ad un modello, quello dell’adolescente occidentale, che non sempre trova un corrispettivo nel mondo di provenienza del minore; che la particolare articolazione geopolitica che si crea all’interno delle strutture - perché i minori appartengono a culture e contesti sociali molto diversi e a volte incompatibili tra di loro - scatena delle vere e proprie guerre, di cui gli operatori non sono del tutto consapevoli, o forse non lo sono sempre, e che non riescono a gestire.

Per rispondere alla richiesta abbiamo pensato di strutturare gruppi misti, a cadenza quindicinale, in presenza dell’EMM (Equipe Multidisciplinare Mobile) di SPRINT2, che comprende anche l’educatore professionale e gli operatori delle strutture di accoglienza. Anche la fase di progettazione è stata condivisa e ha portato all’identificazione di alcuni temi tra cui: cosa vuol dire essere minori nel paese di provenienza e cosa vuol dire essere minori in Italia; come è organizzata la vita familiare nel proprio contesto di origine, come si compone la famiglia, quali sono i ruoli e le funzioni dei genitori, ad esempio capire se la famiglia è matrilineare o patrilineare; il valore dello studio e l’accesso allo studio qui e altrove; il valore e la necessità di lavorare nel paese ospite e nel paese di origine.

L’universalità non sta nel fatto di riconoscere uno stadio evolutivo della vita delle persone che chiamiamo genericamente adolescenza ma nel porsi la questione del come si declina quello stadio della vita puberale ovvero come viene organizzato in culture diverse. In altri termini ci poniamo la domanda di qual è la fabbricazione a cui il soggetto va incontro quando raggiunge e attraversa un certa fascia di età, quali sono gli oggetti che lo formano e lo informano, come il soggetto entra a far parte del tessuto sociale e come accede al mondo degli adulti.

Molti dei fraintendimenti che nascono nei luoghi della convivenza originano dal non considerare e non mettere in prospettiva la specificità di cui ognuno è portatore e che fa di quel soggetto specifico un umano radicalmente diverso. È allora che ad esempio i progetti votati al raggiungimento delle autonomie e dell’integrazione possono abortire dolorosamente per tutti, compresi gli operatori che oltre che vivere un senso profondo di disagio e di frustrazione si sentono per giunta strumentalizzati, alimentando il sentimento della paranoia istituzionale.

Ovviamente l’intervento etnopsichiatrico in contesto gruppale non vuole portare all’appiattimento del considerare la diversità e accettarla così com’è, piuttosto di riconoscerla e successivamente di aprire al tavolo negoziale e diplomatico che permette di articolare le ragioni di ognuno, comprese le nostre. È un movimento clinico e politico perché non muove dalla necessità di imporre all’altro il proprio modo di concepire il vivente ma parte dal presupposto che gli umani hanno risposto in modo diverso alle stesse domande inerenti la vita e la morte e che questo processo va considerato quando ci occupiamo di quegli stessi umani. Diversamente rischiamo di agire occupando il territorio altrui e scatenando, senza intenzionalmente volerlo, conflitti a volte difficili da sanare.

“L’utilizzo di un sistema di cura ‘unico e universale’ (occidentale) rischierebbe di essere inefficace se non iatrogeno per alcuni soggetti e gruppalità umane appartenenti a mondi altri. La questione di fondo è che ci troviamo in un mondo nel quale le merci possono circolare liberamente, ma le persone no. Ci troviamo di fronte ad un problema di civiltà, di libertà e di rispetto dei diritti dell’uomo. E non possiamo, quando pratichiamo la clinica, non considerare quella che è l’azione patogena che l’intero sistema produce.”(7)

Il gruppo con i MSNA a Firenze e a Lucca ha inaugurato una prima dinamica conoscitiva ed esplorativa che ha permesso di esplicitare le teorie e i modelli che raccontano dei temi, che ho elencato pocanzi. Questa dinamica è stata funzionale da un lato a dare dignità di esistenza alle cose degli altri e agli altri, dall’altro ha permesso che narrazioni diverse potessero dialogare e interrogarsi sulle diversità, senza fermarsi all’aspetto narrativo. L’etnopsichiatria non chiede l’immobilismo dei soggetti e neanche se lo aspetta, ma opera nella fisiologica dinamica in cui le persone solo a partire dall’esplicitazione della loro inculturazione originaria possono essere lavorati da acculturazioni successive, a patto che sia rispettata la dimensione negoziale imprescindibile. Questo è un passaggio molto difficile da compiere per gli operatori della salute, perché il controstransfert culturale - la cui attenta analisi rappresenta la via regia della diplomazia clinica - rimane sullo sfondo e produce zone cieche ingombrate dalle proiezioni delle proprie appartenenze culturali.

Il lavoro con gli operatori durante le consultazioni, le supervisioni, le formazioni, permette loro di essere testimoni del processo di esplicitazione delle determinanti culturali degli altri e di riscoprire le proprie, che rimanendo troppo a lungo implicite rischiano di finire in un grande rimosso.

Uno degli ambiti in cui spesso ci siamo trovati ad intervenire – ed è un ambito particolarmente delicato – è quello della valutazione della genitorialità, più precisamente del cosa significhi essere una madre sufficientemente buona, per usare un linguaggio psicoanalitico. Le pratiche di accudimento dei bambini non sono universalmente definite, ma tendiamo a non considerarlo quando proiettiamo sull’altro in modo automatico il nostro modo di fare i genitori. Così in modo affrettato e frettoloso liquidiamo la nozione di normalità definita dai nostri parametri e di anormalità definita ovviamente dai parametri degli altri culturali. In questo modo, uno svezzamento non conforme e che non si conforma ai nostri parametri può diventare maltrattamento e violenza nei confronti del bambino e richiede la messa in salvo del minore.

È questa una delle situazioni in cui è importante esplicitare i processi antropopoietici degli operatori, le loro affiliazioni, ciò che fa fare loro ciò che fanno, e un’attenta analisi del controtransfert culturale, che smaschera stereotipi e pregiudizi.

Il gruppo con i MSNA pone al centro la questione del cosa significa essere minori qui, essere minori altrove, essere minori nell’incontro tra il qui e l’altrove.


Consultazione clinica parlamentare

L’incontro con l’altro radicale presuppone l’introduzione di una variabile nuova, la lingua o le lingue di quel soggetto altro. La novità sta non solo nel convocare la persona attraverso l’ausilio della sua lingua ma anche affermarne la specificità da comprendere garantendo la presenza delle figure deputate alla traduzione. I mediatori e le mediatrici linguistico culturali possono veicolare i significati di cui quelle lingue sono portatrici e i modi che informano la dimensione materiale e immateriale, le teorie e i modelli sulla vita, la morte, la malattia e i passaggi di status.

L’attenzione alla lingua dell’altro costringe a soffermarsi sulla nostra lingua, sulle parole che dicono le nostre cose, sui significati di ciò che ci determina come persone e come professionisti. È solo apparentemente una banalità, perché ricercare le parole che possono esplicitare e spiegare i nostri modelli, che corrispondono a pratiche ben precise, significa accettare di sedersi al tavolo della diplomazia e a fare un’operazione di traduzione dalle definizioni tecniche, fatte per gli addetti ai lavori, alle proposte comprensibili per gli utenti.

Il necessario decentramento che si impone ridefinisce i rapporti di potere e determina un immediato spaesamento presso gli operatori. Presentare se stessi vuol dire implicarsi con il proprio bagaglio teorico e tecnico, che è il prodotto di una storia, di una scienza e di una politica ben precisi, che fanno riferimento a una specifica visione del mondo e dell’umano. È qui che l’operatore improvvisamente scopre sul campo che la sua cosmovisione non è l’unica al mondo, ma una tra tante. Lo spaesamento è una vertigine, a cui si può reagire con la paura, lo smarrimento, la rabbia, l’impotenza e che richiede una delicata lavorazione per non rendere fragile l’operatore, che rappresenterebbe il contraltare allo strapotere di cui spesso gode. Insomma anche noi operatori ci contaminiamo, ci ibridiamo, ci esponiamo e pertanto è necessario porre un quadro metodologico preciso, che funga da protezione. Se è vero che noi, gli occidentali, abbiamo colonizzato e depredato popoli e territori, è altrettanto vero che non è un’inversione delle dinamiche di potere a risolvere la delicata questione dell’articolazione tra saperi e saper fare.

Come dice Bruno Latour: “ Passare dall’arroganza modernizzatrice e civilizzatrice alla derelizione, al sentimento sconvolgente di colpa per i crimini commessi, non ci farebbe avanzare in niente e non ci farebbe neppure perdonare. Ancora una volta, non si tratta di dialogo, di tolleranza, di colpa o di perdono, ma di guerra, di negoziazioni, di diplomazia e di composizione. Flagellarsi, portando sulle proprie spalle ‘il fardello schiacciante dell’uomo bianco’ è sempre definire da sé soli e a nome di tutti, senza essere mai stati delegati dagli altri, il compito impossibile di definire il mondo comune. Proprio come non si domandava ai moderni di considerarsi i pacificatori universali, oggi si chiede loro di non prendersi per i colpevoli universali. Si chiede a loro solo una cosa: che smettano di considerare l’universalità il loro proprio terreno e che accettino di negoziare dopo che la battaglia ha avuto luogo.”(B. Latour, 2000)

Possiamo affermare che la via per inaugurare un equilibrio diverso, è di riconoscere che non esiste una cultura universalmente riconosciuta e verso cui tendere. La declinazione di tale attitudine, nello spazio e nel tempo, della clinica corrisponde a un’azione politica, in cui il terapeuta e gli operatori implicati sono chiamati a posizionarsi, a coinvolgersi in quanto soggetti storicizzati. “E, ciononostante, continuano ad insegnarci che per essere terapeuti performanti nel contesto degli enunciati performativi che sono le tecnologie del coinvolgimento, è necessario imparare a diventare esseri senza luogo in un mondo spopolato, anime in pena erranti nella sanità di sistema, impregnati di angoscia, pronti a mettere anima e corpo negli assurdi protocolli di valutazione, a eccitarsi davanti agli indicatori sociali e psicologici, o invece alla ricerca delle garanzie professionali ‘nella cornice e nei suoi limiti’.”(R.I Orra, 2011)

Come si dice nella tua lingua? Quali sono le parole che permettono di fabbricare il mondo in cui vivi o in cui hai vissuto? Qual è il mondo che ha messo in forma la lingua che lo spiega?

Queste domande sostengono l’incedere etnopsichiatrico nella sua formulazione operativa, che riguardi il paziente o che riguardi gli operatori.

Partecipare alle consultazioni parlamentari del progetto SPRINT2, per gli operatori ha significato confrontarsi con etiologie diverse dei quadri sintomatologici presentati dai pazienti, con processi patogenetici altri, con prescrizioni trattamentali non riconducibili alla scienza. E al contempo ha richiesto di articolare tali visioni della “malattia” con i propri saper fare scientifici, aprendo a possibilità inedite di lavoro della sofferenza psichica.

La vertigine provocata dallo spalancarsi su mondi altri trova conforto nel restituire una possibilità di uscita dall’empasse in cui spesso si trovano psicologi, psichiatri, assistenti sociali, educatori, operatori delle accoglienze, avvocati, funzionari delle commissioni territoriali, per citarne alcuni. Limitarsi a uno spazio monoculturale riduce le possibilità di intervento e acuisce il rischio di fallimento dell’intervento stesso che sia terapeutico, sociale, riabilitativo, legale. Considerare la molteplicità e la pluralità culturale come reale risorsa operativa permette al contrario di fare incontrare gruppi, visibili e invisibili, e di convocare le pratiche e le modalità di concepire il mondo che li contraddistinguono. Permette altresì di visualizzare la Storia e le storie che li caratterizzano in quanto popoli, gruppi etnici, comunità. In questo senso una clinica che considera la geopolitica in cui è immersa apre alla creazione del corpo della resistenza psichica, che è metaculturale e che appartiene alla particolare composizione gruppale che si è definita nel qui e ora della consultazione clinica parlamentare.


Conclusioni

Sempre Bruno Latour, parlando degli attaccamenti, mette in guardia dal pensare che la libertà sia liberarsi delle proprie catene e propone di concepire la libertà nella misura in cui ci permette di scegliere i nostri attaccamenti. In questo modo si fa portavoce di una critica radicale nei confronti di coloro che promuovono un mondo ipermodernista votato al progresso, quale via elettiva di sviluppo dell’umano.

Quando chiediamo agli altri, quelli della migrazione forzata, di aderire ai nostri modelli, che sono ad esempio il modo di concepire l’istruzione, la salute, il lavoro, i diritti, le relazioni di genere, non ci preoccupiamo del fatto che questo implichi l’abbandono di altri modelli già esistenti. Nel proporre tale operazione induciamo l’altro a perdere i propri attaccamenti e legami. Il soggetto allora fluttua in un vuoto dato dalla perdita dei legami senza poter davvero aderire ad altri legami che non conosce e che non capisce.

È ciò che succede quando dobbiamo definire l’altro in quanto altro giuridico, il cui statuto determina la sua permanenza o meno sul territorio ospite. La macchina attivata dalle convenzioni giuridiche e legislative in materia di migrazione, a cui è necessario rispondere, produce un’area psichica a cui i soggetti si legano, una sorta di passaggio intermedio, tra il qui e l’altrove, per poter accedere al normale fluire della vita. Parlo di area psichica giuridicamente definita, alla quale corrisponde inevitabilmente la produzione di uno specifico quadro sintomatologico. Corollario di questa configurazione soggettuale sono i progetti sulle autonomie, l’integrazione, l’apprendimento della lingua italiana, la conoscenza delle malattie e dei modi per curarle.

Nel tempo ho potuto sperimentare che i progetti di prevenzione e di promozione della salute funzionano laddove consideriamo gli attaccamenti dell’altro in materia di salute ovvero come il soggetto concepisce la malattia, le cause della malattia e la cura nella propria cultura. È un andare e venire, un abitare la soglia, un oltrepassare il confine facendo l’operazione continua di spaesarsi potendo tornare al luogo sicuro.

Anche gli operatori sono soggetti allo stesso processo, perché aprire allo spazio di sconfinamento e riconfinamento di teorie, modelli e pratiche, determina una dose di esposizione necessaria. In questa dimensione possiamo forse concepire di trasformare alcune prassi non più efficaci e utili; possiamo forse immaginare organizzazioni diverse nell’ambito della salute mentale; possiamo introdurre figure professionali nuove come l’antropologo e il mediatore linguistico culturale.

Piero Coppo affermava: “In Italia, l'etnopsichiatria, caratterizzata dalla sua tendenza profondamente radicale e innovativa, si basa su un approccio originale che si pone accanto, quindi al di fuori, della psichiatria, della psicologia e della psicoanalisi. Spinta dalla critica sviluppata dalla psichiatria anti-istituzionale, l'etnopsichiatria italiana trova le sue basi nei vari apporti delle scienze umane applicate. […] Gli approcci della psiche riferiti alla scienza, qui considerata “etnica”, perché frutto di una specifica storia e cultura, dovrebbero in questa prospettiva trovarsi a sedere allo stesso tavolo di altri sistemi, teorici e pratici, derivanti da altre storie e da altre culture. Si tratta quindi di trovare insieme la soluzione, che è sempre frutto di un'ibridazione, da attuare nella situazione data. In tal modo, l'etnopsichiatria può in definitiva diventare metaculturale, come sosteneva Georges Devereux, perché ‘fondata su una reale comprensione della natura e della funzione della Cultura stessa, così come è vissuta ovunque da individui normali e da vari tipi di pazienti psichiatrici. La pratica della psicoterapia metaculturale esige dall'analista una neutralità culturale analoga a questa neutralità affettiva che ci si aspetta da lui nella situazione analitica rispetto ai propri bisogni infantili e non ai residui nevrotici’(8). Per riuscire ad essere culturalmente neutrale nella clinica, questa etnopsichiatria italiana, forte delle proprie origini e degli apporti provenienti soprattutto dall'Oltralpe, sta gettando le basi di una teoria e di una pratica da trasmettere e insegnare. Ciò dovrebbe consentire di effettuare una seria valutazione delle sue finalità, dei suoi mezzi e dei suoi risultati.”(9)

La presenza dei migranti ci costringe a rivisitare modalità a volte stereotipate di intervento nel contesto socio-sanitario. Le ASL (Aziende Sanitarie Locali) oggi rischiano di essere lontane dalla popolazione a cui si rivolgono e la situazione è ancor più esasperata dall’ondata di COVID. O al contrario creano compartimenti chiusi e separati dal contesto circostante come è il caso delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza).

Il 30% dei pazienti nelle REMS è di origine straniera, molti sono senza residenza e senza permesso di soggiorno, in taluni casi per mancato rinnovo. In taluni casi i reati primari sono di lieve entità (piccoli furti, spaccio), cui tende ad aggiungersi la resistenza a pubblico ufficiale. Inoltre i motivi che hanno portato all’esito peritale di pericolosità sociale sono da ricondurre a percorsi di valutazione che spesso non tengono in conto la lingua e la cultura dei soggetti imputati. È capitato infatti che tali valutazioni venissero svolte in assenza di un mediatore linguistico-culturale, venendo dunque meno un processo di traduzione anche semplicemente linguistico.

“Non è possibile dimenticare la storia della psichiatria italiana riformata. Dobbiamo costantemente tener presente quello che è l’ineludibile e permanente valore della deistituzionalizzazione e mantenere la capacità di leggere quelle che sono le organizzazioni, le dinamiche intrinseche e le finalità in termini di analisi istituzionale, compresa la dimensione e la gestione del potere” (E. Facchi, G. Cardamone, 2022).

Per superare i limiti di una mentalità aziendale, che sta attraversando un momento di profonda crisi, è necessario recuperare e mettere in moto un dialogo fecondo con le associazioni, le comunità, i gruppi informali sul territorio potendo contare su un approccio etnopsichiatrico e socio-antropologico nell’ottica della multidisciplinarietà.


Note

Nota 1: Il progetto FAMI SPRINT è stato pensato e reso attuabile grazie al lavoro instancabile di Giuseppe Cardamone, attuale responsabile scientifico, e di Sergio Zorzetto.


Bibliografia

(1) Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 2020

(2) Piero Coppo, Guaritori di follia. Storie dall’Altopiano Dogon, Bollati Boringhieri, Torino 2007

(3) Bruno Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina, Milano, 2000

(4) Tobie Nathan, Isabelle Stengers, Medici e stregoni, Bollati Boringhieri, Torino, 1996

(5) Marie Rose Moro, Quitterie De La Noe, Yoram Mouchenik, Thierry Baubet, Manuale di psichiatria transculturale. Dalla clinica alla società, Franco Angeli, Milano, 2009

(6) Josep Rafanell I Orra, En finir avec le capitalisme thérapeutique. Soin, politique et communauté, Les Empecheurs de penser en rond/La decouvert, Parigi, 2011

(7) Edivige Facchi, Giuseppe Cardamone, Le frontiere dei servizi di salute mentale: le migrazioni. In Déjà vu 3, Colibrì, Milano, 2022

(8) George Devereux, L’etnopsicoterapia come quadro di riferimento. In Saggi di etnopsichiatria generale, Armando Editore, Roma, 2007

(9) Piero Coppo, Etnopsichiatria: la via italiana, In Annales Médico Psychologiques., Febbraio 2014 vol. 172 n.1