Volume 25 - 23 Dicembre 2022

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I disturbi dello spettro autistico tra storia e cultura

Autrice

Ricevuto il 22/09/2022 – Accettato il 10/10/2022



Riassunto

L’articolo che segue si propone di offrire un quadro storico della “scoperta” dell’Autismo e delle sue diverse classificazioni. La scelta delle etichette con cui la società ha identificato tale disturbo – che ha avuto importanti conseguenze sulle persone così catalogate e sulle loro famiglie – continua a variare nel corso del tempo e tra culture diverse.


Abstract

This paper aims to offer a historical picture of the “discovery” of Autism and its classifications. The choice of the labels with which society has identified this disorder - that has had important effects on the target people and their families – continues to change over time and between different cultures.


1.1 L’autismo prima dell’autismo

Ciò che oggi chiamiamo autismo esisteva prima dell’invenzione della sua etichetta diagnostica a opera della Psichiatria moderna. Alcuni racconti medievali, spesso fantasiosi, narrano di “strani” bambini trovati nelle foreste o nascosti nei fossi. Per esempio, Guglielmo di Newburgh, storico e religioso inglese del XII secolo, nel suo Historia rerum Anglicarum narra di due “bambini verdi”, così chiamati per il colore della pelle, apparsi nel villaggio di Woolpit nel Suffolk, in Inghilterra, che parlavano una lingua sconosciuta, si cibavano soltanto di fave crude e non rispettavano le regole sociali.

Nei Fioretti di San Francesco – raccolta di narrazioni diffuse alla fine del Trecento sui miracoli e sugli esempi concernenti la vita del santo e dei suoi primi seguaci – compare il personaggio di Fratello Ginepro, incapace di comprendere il punto di vista altrui e di valutare le conseguenze dei propri comportamenti. Le caratteristiche del frate sono esemplificate nell’episodio in cui fa visita a un malato e, deciso a preparargli un pasto a base di maiale, cattura un animale e gli taglia una zampa. Quando il padrone del maiale si lamenta con San Francesco, Ginepro si limita semplicemente a ripetere con grande zelo le sequenze delle azioni compiute, senza comprendere la contrarietà del santo e la rabbia del proprietario.

In Russia, tra il XVI e il XIX secolo, ricorre la figura del “folle sacro o beato” (jurodivyj). Le sue caratteristiche principali comprendono: il mutismo, l’ecolalia o il frasario incoerente; l’insensibilità al dolore, alla fame e al freddo; i comportamenti bizzarri, ripetitivi e stereotipati; gli attacchi convulsivi; l’incapacità di comprendere punti di vista differenti dal proprio e l’indifferenza per le convenzioni sociali (1).

Dall’inizio del XVII secolo, in Europa e Nord America si diffondono storie di incontri con “bambini selvaggi”, espressione che indica tre diversi tipi di esperienze infantili: vivere in stato di solitudine nella natura selvatica; essere allevati da animali; crescere confinati in ambienti chiusi o sotterranei per lunghi periodi di tempo. Il denominatore comune di tali racconti è l’esperienza di un isolamento sociale pressoché assoluto e, spesso, l’incapacità di parlare. I casi più famosi sono quelli di Peter (rintracciato in Germania nel 1724), di Victor (la cui storia è diventata il film l’Enfant Sauvage di Francois Truffaut), di Kaspar Houser (individuato nel 1828) e delle bambine Kamala e Amala (trovate insieme in India nel 1920).

Anche nella letteratura appaiono personaggi con comportamenti eccentrici e bizzarri che richiamano quelli autistici. Per esempio Sherlock Holmes, Nero Wolfe e Hercule Poirot rappresentano il prototipo dell’investigatore geniale, che focalizza l’attenzione su piccoli dettagli, coltiva interessi selettivi e circoscritti, segue una rigida routine quotidiana e agisce in modo distaccato, senza lasciarsi influenzare dalle emozioni.

Occorre inoltre tener presente che l’autismo, fino alla sua “scoperta”, è stato sussunto nella categoria del “ritardo mentale”. Nel 1887 il medico britannico John Langdon Down, da cui prende il nome la nota sindrome cromosomica, chiamava idiot savants (idioti sapienti) alcuni bambini “deboli di mente” che presentavano abilità straordinarie nel calcolo, nel disegno e nella musica. Nel XX secolo, il neurologo e psichiatra britannico Alfred Tredgold, nel suo manuale Mental Deficiency, riportava casi di bambini con comportamenti ripetitivi e di attrazione verso gli oggetti o loro componenti. Si può ipotizzare che molti protagonisti delle storie fin qui citate fossero autistici e che le leggende o i racconti su di essi evochino le esperienze reali di chi li ha incontrati (2).


2.2 La “scoperta” dell’autismo

Nell’articolo “Autistic Disturbances of Affettive Contact”, pubblicato nel 1943 sulla rivista Pathology, il capostipite della Psichiatria infantile americana, Kanner, descriveva undici bambini (otto maschi e tre femmine) con meno di 11 anni che, nonostante le differenze (gravità del disturbo, capacità verbali, costellazione familiare, evoluzione, ecc.), sembravano condividere una sindrome che chiamò “autismo infantile”.

Kanner non inventò la parola autismo e non fu nemmeno il primo a usarla in Psichiatria. Il termine, che deriva dal greco autos (sé stesso), era già stato usato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler in un articolo del 1910-1911 e poi nella monografia del 1912 sul gruppo delle schizofrenie per indicare il distacco dalla realtà e la predominanza della vita interiore.

Kanner sosteneva che i suoi pazienti erano diversi dagli individui affetti da schizofrenia perché quest’ultima patologia si manifestava raramente nella prima infanzia e, soprattutto, era caratterizzata da un graduale cambiamento del comportamento. I bambini esaminati, al contrario, esibivano sin dalla nascita un isolamento estremo (extreme autistic aloneness) che escludeva tutto ciò che proveniva dall’esterno. Quasi tutte le madri riferivano, per esempio, l’assenza nei figli dell’atteggiamento anticipatore di allungarsi per essere presi in braccio e, una volta sollevati, di aggrapparsi alla persona che li sosteneva. I bambini erano invece capaci di stabilire e mantenere una buona relazione con gli oggetti disponibili nell’ambiente. Il loro mondo era costituito da elementi che, una volta esperiti in una certa sequenza o modalità, dovevano rimanere assolutamente inalterati (anxiously obesessive desire for maintenance of sameness). Inoltre, la maggior parte di loro possedeva un’intelligenza normale o superiore alla media. I genitori riferivano, spesso con orgoglio, dell’eccellente memoria dei figli, che consentiva loro di ripetere elenchi di rime, animali, piante, nomi di presidenti e, persino, ninne nanne in francese. Kanner concludeva asserendo che, come altri bambini erano nati con handicap fisici o intellettivi, quelli da lui osservati erano venuti al mondo con un’innata incapacità di instaurare un contatto affettivo con le persone (3).

Mentre Kanner scriveva il suo articolo negli Stati Uniti, in Europa un altro medico impiegava il termine “autismo” di Bleuer per descrivere un disturbo infantile dell’adattamento all’ambiente sociale. Il suo nome era Hans Asperger, da cui il disturbo omonimo. I due psichiatri non si erano mai incontrati e, apparentemente, non sapevano nulla l’uno dell’altro (era in corso la Seconda guerra mondiale e, mentre il primo pubblicava i suoi scritti in inglese, il collega li scriveva in tedesco). Kanner e Asperger erano simili per molti versi: entrambi erano austriaci, avevano studiato all’interno della tradizione clinica tedesca ed erano stati influenzati da Kraepelin più che da Freud. Di conseguenza, si interessavano maggiormente alla descrizione dei disturbi piuttosto che alla loro eziologia. Anche Asperger, come Kanner, era convinto che l’autismo fosse una patologia diversa dalla schizofrenia, congenita e caratterizzata da un deficit dell’empatia o di ciò che Simon Baron Cohen ha successivamente chiamato “teoria della mente”, ovvero la capacità di inferire gli stati mentali altrui. La definizione di Asperger era più ampia di quella del collega perché includeva casi in cui i sintomi sfumavano quasi nella normalità. Inoltre aveva una visione più ottimistica: scriveva che solo una minoranza di questi bambini, quelli con un grave ritardo intellettivo, avrebbe avuto un triste destino; gli altri possedevano capacità compensatorie (compensatory abilities) in grado di controbilanciare le inadeguatezze e di condurli persino al successo, dunque a una maggiore integrazione sociale (4).

Nonostante le similitudini tra le descrizioni dei due specialisti, negli ambienti professionali divennero note quelle di Kanner, mentre rimasero poco conosciute le casistiche di Asperger. Il contributo originale di quest’ultimo fu conosciuto nel mondo di lingua inglese soltanto nel 1981, grazie all’opera di Lorna Wing, che introdusse la cosiddetta “Sindrome di Asperger”: lo spettro autistico era simile allo spettro dei colori nel quale non c’è una netta e chiara divisione tra, per esempio, il rosso e l’arancione.

Né Kanner né Asperger avevano scoperto l’autismo, semplicemente lo avevano osservato, descritto e codificato, inserendolo nella letteratura scientifica. Lo avevano fatto in un’epoca in cui la Psicoanalisi era ancora il modello dominante del pensiero psicologico.


2.3 Cattivi genitori

Gli psicoanalisti non si fecero sfuggire alcune frasi di Kanner e Asperger. Sebbene i due psichiatri avessero sostenuto l’innatismo del disturbo, entrambi avevano in qualche modo introdotto l’idea di una sua possibile relazione con la genitorialità. Kanner aveva notato che erano pochissimi i padri e le madri veramente affettuosi verso i figli. La maggior parte di loro era più interessata alle attività di natura scientifica, letteraria o artistica che alle persone. In studi successivi aveva usato il termine “frigorifero” riferendosi al modo in cui i genitori crescevano i bambini: “ordinatamente in un frigorifero che non si è scongelato” (neatly in a refrigerator that did not defrost). Anche Asperger parlava di madri inadeguate e padri eccentrici, ma attribuiva questi tratti personologici dei genitori allo stesso disturbo (in forma più lieve) dei figli, ipotizzandone un’origine genetica. Tanto bastò a Bruno Bettelheim, direttore dell’Orthogenic School for Troubled Children presso l’Università di Chicago, per sostenere che gli autistici fossero tali a causa delle interazioni anormali o fallimentari con i propri genitori, soprattutto con le madri. Nel bestseller La fortezza vuota del 1967 scrisse che i genitori dei bambini autistici erano distaccati, freddi e il loro atteggiamento costituiva il fattore determinante il disturbo biologico dei figli. Le sue affermazioni ignoravano le prove empiriche che le contraddicevano e si basavano, invece, sugli studi di psicologi come Harry Harlow, che aveva condotto esperimenti particolarmente crudeli sulle scimmie, validando l’idea freudiana sulla relazione madre-figlio come decisiva per il tipo di relazioni sociali che una persona stabilisce nell’infanzia e nell’età adulta. Bettelheim ravvisava una comunanza tra il comportamento autistico e quello dei prigionieri dei lager nazisti, suggerendo che una serie di risposte psicotiche possono essere una reazione difensiva causata dal sentimento di impotenza di fronte a una situazione incontrollabile. La differenza tra i prigionieri e i bambini stava nel fatto che, mentre i primi potevano guarire grazie ai ricordi e alle esperienze precedenti la prigionia, i secondi non avevano tale possibilità perché maltrattati sin dalla nascita.


2.4 La storia della classificazione

L’approccio psicodinamico all’autismo, che gli attribuiva una causa relazionale, è stato gradualmente abbandonato a favore di un approccio neurobiologico. Si deve a uno psichiatra britannico, Michael Rutter, un rapido passo verso la diagnosi clinica di autismo. In numerosi articoli pubblicati negli anni ‘70 propose quattro maggiori caratteristiche per identificarlo: insorgenza prima dei due anni e mezzo di età; deficit dello sviluppo sociale; comunicazione inadeguata; comportamento insolito. Mediante il semplice schema classificatorio, Rutter stabiliva un punto di partenza per una diagnosi universalmente utilizzabile. Quest’ultima arrivò nel 1980, quando l’American Psychiatric Association (APA) riconobbe all’autismo uno statuto ufficiale, validato e inserito all’interno della terza edizione del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders (DSM-III) nel quadro della categoria “Disturbo pervasivo dello sviluppo”, indipendente da quella della “Schizofrenia”.

Il DSM – Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nella versione italiana – è il sistema nosografico più utilizzato al mondo a scopo di ricerca oltre che come tassonomia di impiego clinico quotidiano. La prima versione risale al 1952 (DSM-I). Per capire l’evoluzione del manuale sino alla terza edizione (che segna la svolta di allontanamento dalla Psichiatria psicodinamica), bisogna retrocedere al 1973, anno in cui la rivista Science pubblicò un articolo dello psicologo David Rosenhan dal titolo “On being sane in insane places”, che discuteva i criteri di validità della diagnosi psichiatrica. Lo scritto narra la sperimentazione diretta e le conseguenti vicissitudini dell’autore, insieme a quelle di un gruppo eterogeneo di collaboratori: presentatisi al servizio di accettazione di diversi ospedali psichiatrici e lamentando di “udire delle voci”, erano stati tutti ricoverati e trattenuti a lungo nonostante, una volta giunti in reparto, avessero confessato di fingere. Alla fine erano stati dimessi con una diagnosi di “Schizofrenia in remissione”. Sempre nel 1973, il movimento per i diritti degli omosessuali costrinse l’APA ad ammettere che l’omosessualità non era un disturbo mentale e a rimuoverla dal DSM. Nel frattempo, Archives pubblicò un importante articolo scientifico di R.E. Kendell e di alcuni suoi colleghi sulla scarsa affidabilità delle diagnosi psichiatriche. Infine, dal 1965, all’interno della Psichiatria e della Psicoanalisi anglosassoni, prese avvio il cosiddetto “movimento antipsichiatrico”, che criticava radicalmente il concetto di malattia mentale, considerandola una risposta dell’individuo a sfavorevoli circostanze sociali e di vita piuttosto che come il risultato di malattie, disfunzioni e disturbi.

Ognuno degli accadimenti citati mise in discussione la credibilità della Psichiatria come scienza e come campo legittimo della Medicina. Di conseguenza, nel 1973 l’APA designò uno specchiato psichiatra e scienziato, Robert Spitzer, per guidare una task force che elaborasse un manuale dei disturbi mentali “ateorico” (ossia non ispirato a una specifica teoria eziologica o eziopatogenetica), ma capace di descrivere sintomi e segni da attribuire all’ambito dei disturbi mentali. Il metodo prescelto per la sua costruzione implicava un accordo tra le opinioni degli specialisti, ricavate dall’osservazione diretta (manifestazioni comportamentali) di sintomi discreti (ordinati a formare categorie diagnostiche precise) e puntuali (ricorrenti nei vari pazienti ascrivibili alla corrispondente categoria clinica prescelta): lo scopo era di creare uno strumento attendibile di ricerca e dialogo tra i professionisti di diversi orientamenti teorici. La task force di Spitzer creò il DSM III.


2.5 DSM-5

DSM-5 è la sigla con cui viene identificata l’ultima edizione del manuale. Le differenze rispetto alle versioni precedenti sono molte. Le più rilevanti ai fini dell’argomento trattato sono: raggruppamento all’interno di uno spettro unitario di disturbi (spectrum disorders) che possono manifestare variazioni fenomeniche, ma che condividono possibili basi neuropatologiche; ordinamento dei capitoli secondo l’andamento del ciclo di vita: dai disturbi dello sviluppo (infanzia), a quelli che esordiscono in giovane età e, infine, a quelli specifici dell’età avanzata (demenze); la valorizzazione delle differenze legate a genere, razza e cultura, che diventano una prospettiva rilevante da cui riconsiderare i sintomi osservati.

Dopo la rinuncia a differenziare sotto-categorie diversificate, il manuale individua un’unica categoria per l’autismo, i “Disturbi dello spettro autistico”. Questi ultimi rappresentano un gruppo eterogeneo di condizioni cliniche che condividono alcune caratteristiche riconducibili alla compromissione di due aree funzionali:

  1. L’interazione e la comunicazione sociale (componente sociale dell’autismo);
  2. Il repertorio di attività e interessi (componente non sociale dell’autismo).

L’interazione e la comunicazione sociale sono indubbiamente le aree maggiormente caratterizzanti il quadro clinico. Al loro interno è possibile differenziare alcuni profili: bambini inaccessibili, che rifuggono qualsiasi rapporto sociale; bambini passivi, che tendono a isolarsi, ma interagiscono quando sollecitati; bambini attivi ma bizzarri, in grado di prendere l’iniziativa nell’interazione sociale seppure in modo inappropriato. Questi diversi profili variano da bambino a bambino e, in uno stesso soggetto, possono alternarsi nel corso dello sviluppo.

L’altro nucleo disfunzionale che conferisce specificità al gruppo dei Disturbi dello spettro autistico è la presenza di una rigidità dei processi mentali. Tale rigidità si concretizza in una serie di comportamenti atipici che riguardano: il modo con cui il soggetto si rapporta agli oggetti; il tipo di interessi che sembrano coinvolgerlo; le caratteristiche con cui si impegna nelle proprie attività. Il criterio diagnostico della rigidità risulta soddisfatto quando compaiono due o più dei seguenti comportamenti:

  1. movimenti, uso degli oggetti o eloquio stereotipati o ripetitivi (es., dondolare, sfarfallare le mani, mettere in fila gli oggetti, strappare la carta, impegnarsi in gergolalie fluenti inintelligibili, ripetere le stesse parole o frasi, ecc.);
  2. insistenza nell’immodificabilità (sameness), aderenza alla routine priva di flessibilità o rituali di comportamento verbale o non verbale (es., comportamenti eccessivamente abitudinari, estrema selettività alimentare, attaccamento sproporzionato a particolari oggetti, disagio in presenza di persone non familiari o in ambienti nuovi, ecc.);
  3. interessi molto limitati e fissi, che sono anomali per intensità o profondità (es., osservare l’acqua che scorre, guardare gli elettrodomestici in funzione, notare i dettagli di un oggetto, ecc.);
  4. iper- o ipo-reattività in risposta a stimoli sensoriali oppure interessi inconsueti verso aspetti sensoriali dell’ambiente (es., attrazione o avversione verso stimoli luminosi, suoni o livelli di sonorità, ecc.).

Nei Disturbi dello spettro autistico possono anche presentarsi condizioni di comorbidità. Le più comuni riguardano: disabilità intellettiva (circa il 75%); epilessia (30-40%); altri disturbi del neurosviluppo (Disturbi della comunicazione, Disturbi motori, Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbi dell’apprendimento). Possono associarsi anche sintomi non inquadrabili in categorie nosografiche definite, quali livelli di attività motoria molto accentuati, compromissione del linguaggio e disturbi motori.

I sintomi succitati si manifestano precocemente, ma assumono rilevanza gradualmente (quando aumentano le richieste dell’ambiente) e permangono nel tempo (pertanto si parla di disturbo dello sviluppo e non di disturbo infantile, come sembravano suggerire le prime etichette diagnostiche “autismo infantile precoce” o “autismo infantile”). Nelle forme severe tali richieste rendono i sintomi molto presto evidenti. Le forme lievi hanno, invece, un esordio più insidioso.

La diagnosi di Disturbo dello spettro autistico si basa, perciò, su un insieme di comportamenti osservabili (fenotipo comportamentale). Sulle funzioni atipiche che sottenderebbero i comportamenti osservabili (endofenotipo funzionale) sono state avanzate varie ipotesi:

  1. Deficit della motivazione sociale: innato disinteresse per gli stimoli sociali e, di conseguenza, disattenzione nei confronti di ciò che fa o non fa l’altro, che porterebbe all’incapacità di imparare a riconoscere gli stati mentali altrui e ai deficit di linguaggio, simbolizzazione e cognizione sociale;
  2. Deficit della cognizione sociale: incapacità di capire le situazioni sociali, di riflettere sugli stati mentali propri e altrui e, sulla base di questi stati, di interpretare i comportamenti (tale deficit fa riferimento a un concetto ampliato della Teoria della mente);
  3. Debolezza della coerenza centrale: incapacità di giungere a una visione globale e sintetica, determinante per capire le situazioni e scegliere i comportamenti opportuni;
  4. Deficit delle funzioni esecutive: le funzioni esecutive sono le abilità necessarie per organizzare e pianificare i comportamenti di risoluzione dei problemi; un loro deficit implicherebbe l’incapacità di inibire risposte “impulsive”, un’insufficiente memoria di lavoro, l’inabilità a spostare l’attenzione, la difficoltà a pianificare adeguatamente i compiti, inibendo le interferenze.

Le disfunzioni dell’endofenotipo funzionale sarebbero a loro volta riconducibili ad anomalie del substrato neurobiologico (endofenotipo strutturale).

Vi sono infine fattori che sembrano assumere un ruolo eziologico. Tra queste: le patologie legate alla gravidanza e al parto, le alterazioni neurochimiche, le disfunzioni del sistema immunitario, le intossicazioni e i fattori genetici.

L’espressività complessa e disomogenea dell’autismo da soggetto a soggetto, e nello stesso soggetto nel corso dello sviluppo, costituisce una sfida importante per i clinici, soprattutto in considerazione del fatto che la diagnosi e l’avvio conseguente di un intervento precoce possono migliorare notevolmente la prognosi e la qualità di vita dei bambini e delle loro famiglie (5).


2.6 L’autismo in altre culture

È sempre difficile diagnosticare un disturbo mentale. Diventa particolarmente arduo nei bambini e ancora più complicato in mondi culturali differenti. La diagnosi è infatti fondamentalmente un’interpretazione che, tra l’altro, è possibile solo quando le persone cercano aiuto, cioè quando i malati (o coloro che gli sono vicini) percepiscono alcuni problemi come sintomi di una malattia. Sebbene quest’ultima sia un’esperienza universale, varierà da cultura a cultura il modo in cui le persone ne comprendono le cause, come affrontano la sofferenza, il significato che attribuiscono a ciò che le affligge, le pratiche terapeutiche scelte e gli attori coinvolti nel processo di cura e guarigione.

Come ogni altra forma di “anormalità”, anche l’autismo non esiste al di fuori della cultura. Ci sono comunità nel mondo che non hanno nemmeno un nome per questo disturbo o che non lo considerano patologico. Per esempio, i Navajo del sudovest degli Stati Uniti utilizzano l’espressione “stato di inconsapevolezza” (nidiniil geesh), definizione che è stata coniata di recente sulla base del manuale del sistema scolastico dell’Arizona del 1989. Inoltre i Nativi americani accettano con serenità un elevato deficit di disabilità intellettiva e fisica dei bambini. Solo al raggiungimento del sesto anno di età, i disabili cominciano a essere educati dalla madre e da altre figure autorevoli, come lo zio materno. Poiché gli autistici sono considerati in uno stato di divenire perenne, non vengono sollecitati con richieste superflue. Gli adulti cercano soltanto di “riparare”, attraverso i riti, ciò che credono essere soggiacente al problema: la manifestazione di qualche tipo di disarmonia spirituale. La cerimonia terapeutica più comune è il Blessingway, pensata per assicurare successo e salute in ogni fase della vita. Il rito si ritiene riuscito anche se il bambino non appare cambiato, dal momento che l’armonia e l’ordine sono stati comunque ripristinati nel mondo degli spiriti. I Navajo evitano anche di istituzionalizzare i loro bambini al fine di evitare la perdita della capacità di vivere nella comunità e di diventare dei veri Navajo. Così soltanto gli autistici che diventano troppo aggressivi, fisicamente o sessualmente, o che tendono a fuggire, vengono collocati nelle residenze (6).

Un esempio opposto ai Navajo è quello offerto dai Wolof, Serer e Lebou del Senegal. Questi gruppi etnici, che credono nella reincarnazione, chiamano Nit ku bon i bambini con una natura problematica. Tale natura conferisce loro specifiche capacità (per esempio, quella di poter decidere se restare tra gli umani oppure se “ripartire”), determina specifici rischi (tendenze suicide) e attiva determinate modalità interattive da parte dei genitori e dell’entourage familiare. Nello specifico il Nit ku bon è un bel bambino, tanto da attirare lo sguardo altrui, che però rifugge. Non parla o si esprime laconicamente. Si isola, non gioca quasi mai con i pari e, se lo fa, non risponde alle prese in giro né alle botte che riceve. Si mette repentinamente a piangere o a ridere e spesso si accascia improvvisamente, come posseduto dai rab (spiriti ancestrali). Il sintomo più sicuro per riconoscerlo è il suo carattere riservato e la sua sensibilità estrema. Un’altra caratteristica decisiva è la prossimità alla morte: il bambino nit ku bon può morire all’improvviso senza alcun precedente malessere, nemmeno apparente, e di rado raggiunge l’adolescenza. Il legame con la morte può derivare da tre ragioni: è posseduto da un rab (o è un rab egli stesso), è un’incarnazione degli antenati oppure è figlio di madri che hanno perso figli (7).

Come si evince dagli esempi culturali precedenti, ogni società offre le sue interpretazioni dell’autismo, ne costruisce i criteri diagnostici e, soprattutto, decide quali interventi mettere in atto (8).


BIBLIOGRAFIA

1. Challis N, Dewey HW. The Blessed Fools of Old Russia. Jahrbücher Für Geschichte Osteuropas. 1974; 22(1): 1–11.

2. Frith U. L’Autismo: Spiegazione di un enigma. Bari-Roma: Laterza; 2010.

3. Kanner L. Autistic Disturbances of Affective Contact. Nervous Child. 1943; 2: 217-250.

4. Asperger H. Autistic Psychopathy in Childhood. In: Frith U, ed. Autism and Asperger Syndrome Cambridge: Cambridge University Press; 1944: 37-92.

5. Militerni R. Neuropsichiatria infantile. Napoli: Idelson-Gnocchi; 2021.

6. Connors JL, Donnellan AM. Walk in Beauty: Western Perspectives on Disabilities and Navajo Family/Cultural Resilience. Resiliency in Native American and Immigrant Families. In: McCubbin HI, Thompson EA, Fromer JE, et al, eds. Thousand Oaks: Sage Publications; 1995: 159-182.

7. Zempléni A, Rabain J. L’enfant nit ku bon: un tableau psychopathologique traditionnel chez les Wolof et les Lébou. Psychopathologie africaine. 1965 ; I(3): 329-441.

8. Grinker RR. Nobody’s Normal. New York: W.W. Norton & Company; 2021.