Volume 25 - 23 Dicembre 2022

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Un coordinamento che libera.
Essere coordinatori di servizi di comunità

Autori

Ricevuto il 17/10/2022 - Accettato il 31/10/2022



Riassunto

L’articolo tratta alcuni processi dinamici di gruppo che si svolgono all’interno delle istituzioni e per pensare ed agire il lavoro di cura. In ogni gruppo il compito di cura va costruito ed affrontato grazie alla cooperazione di tutti i membri, ciascuno caratterizzato dalle proprie potenzialità e limiti, che concorrono a costruire un certo clima e una cerata affettività. Il coordinatore è colui che attenziona il gruppo ed il suo compito contro il rischio di burocratizzazione e dis-umanizzazione delle istituzioni, prendendosi cura della fatica vissuta, dell’ostilità e dell’aggressività presente all’interno dell’équipe. Questo favorisce la libertà del pensare, dell’esprimersi e dell’agire, con attenzione ai processi comunitari in una logica di clinica partecipata. Il testo è frutto di un incontro formativo condotto da Antonio Tarì Garcia, Luciana Bianchera ed Angelica Ferrarin.


Abstract

The article talks about some dynamic group processes that take place in institutions and for thinking and acting the work of care. In each group the work of care must be built and faced with the cooperation of all the members, each of them characterized by their own potential and limits, which contribute to build a certain climate and affectivity. The coordinator is the one who pays attention to the group and his task is to fight against the risk of bureaucratization and de-humanization of the institutions, taking care of the fatigue, hostility and aggression present inside the team. This favors the freedom of thinking, of expressing oneself and acting, with particular attention to community processes in a participatory clinic logic. The text is the result of a training meeting conducted by Antonio Tarì Garcia, Luciana Bianchera and Angelica Ferrarin.


Questo testo nasce da un corso erogato dall’Ente di Formazione Sol.Co. Mantova dal titolo “Leadership e organizzazione: il coordinamento dei gruppi di lavoro”, rivolto a coordinatori che operano in servizi alla persona. Questo genere di percorsi, a supporto delle funzioni di coordinamento e leadership, viene realizzato dal 1998 all’interno dell’istituzione Sol.Co. Questa particolare edizione è gestita da Luciana Bianchera ed Angelica Ferrarin, attraverso l’utilizzo dello schema di riferimento della psicanalisi operativa, che fa del dispositivo gruppale l’elemento strutturale di ogni concettualizzazione. In questa occasione si è avuta la presenza di Antonio Tarì Garcia.

In questo breve saggio approfondiremo la differenza tra gruppo ed équipe, descriveremo i compiti dell’équipe, la sua struttura di funzionamento e coordinamento ed analizzeremo il rapporto tra pedagogia, psicopatologia ed istituzione.

L’équipe è una particolare tipologia di gruppo che presenta caratteristiche specifiche:

  • è collegata al raggiungimento di un risultato;
  • ha un’aspettativa di efficienza;
  • si pone obiettivi da raggiungere in un tempo limitato ricevendo la costante pressione dell’istituzione;
  • i ruoli sono fissi.

Pichon Rivière considerava fattori universali di qualsiasi gruppo l’affiliazione, l’appartenenza, la cooperazione, la pertinenza, la comunicazione, l’apprendimento e la telé, ovvero il portare a termine uno scopo, la disposizione affettiva a lavorare con gli altri, la mobilitazione del proprio gruppo interno che si amplia nelle relazioni intersoggettive. Questi punti del processo gruppale nel momento in cui si sviluppano, crescono e si fortificano; il gruppo può svolgere i compiti prescritti e incamminarsi verso il raggiungimento dei suoi obiettivi. Il terzo elemento del processo gruppale, la pertinenza, viene identificato come componente principale, in quanto consiste nella capacità di stare sul compito in équipe.

In relazione alle situazioni paradossali in cui si trova un coordinatore d’équipe, viene posta la questione di favorire e potenziare i processi dinamici di gruppo al suo interno, discriminando tra due cornici. La prima cornice consiste nel mandato istituzionale e pone l’inquadramento strutturato per l’équipe che realizzerà un certo compito. La cornice istituzionale ha a che fare con la filosofia del lavoro dell’istituzione, i sui processi istituiti e le relazioni tra l’istituzione e la comunità. La seconda cornice invece, consiste nel setting che il gruppo di lavoro si dà per realizzare la parte specifica di compito che le viene affidato, può contenere una dimensione più istituente e permette al gruppo di sviluppare uno schema di riferimento condiviso per affrontare il compito di cura. È evidente che i processi che avvengono all’interno di ogni cornice influenzano tutto il resto. Affinché questa condizione si possa raggiungere è fondamentale rinunciare al narcisismo e alla tendenza a competere, tentando al contrario di mettere in dialogo le competenze di ciascuno sul cooperare.

L’attitudine alla cooperazione ci riporta alla questione del clima gruppale e all’affettività presente in ogni équipe. L’affettività in un gruppo di lavoro è fortemente influenzata dal rapporto con i pazienti o gli ospiti dalla presenza dell’identificazione proiettiva, che comporta una costante ambivalenza di sentimenti. Infatti, nei gruppi, potremmo trovare “patti impliciti e di silenzio” per evitare il conflitto tra i membri. Spesso le persone associano all’idea di conflitto l’immagine di dolore e fallimento piuttosto che ampliamento dell’analisi del compito. Quindi, il silenzio, diviene un implicito accordo e nel tempo rischia di consumare le possibilità di chiarimento e approfondimento delle riflessioni sul lavoro.

Nei gruppi gli individui sono i portavoce di vissuti affettivi che possano riguardare tutto il gruppo. Pertanto è sempre importante per il coordinatore analizzare ciò che viene ricevuto, da chi e in quale contesto, per capire se questo materiale affettivo proviene da una sola persona, da tutto un gruppo o da una parte di esso.

Come dicevamo, tutto quello che gli operatori portano in équipe, fa riferimento alla relazione che essi intrattengono con i pazienti.

Tra i vari vissuti presenti in una équipe potrebbe esserci l’ostilità. Il coordinatore ha il compito di occuparsi di questo stato d’animo e, quando possibile, limitarlo, poiché quando l’ostilità è eccessiva diventa difficile sostenere un discorso, nello stesso tempo è importante non negarla. Nelle équipe l’ostilità dei membri a volte viene risparmiata, con il rischio che ad esserne i depositari siano gli utenti.

Ogni équipe, così come ogni individuo, vive la questione del riconoscimento che è fortemente connessa alla motivazione e alla implicazione degli individui e dei gruppi nelle istituzioni. Una équipe che sperimenti a lungo la mancanza di riconoscimento, inevitabilmente, può far ricadere il medesimo vissuto sugli ospiti, creando un clima di disgregazione e dis-umanizzazione.

Paradossalmente, per un coordinatore è più facile far circolare istanze di riconoscimento se sa tenere una certa distanza dal gruppo strumentale ad una visione arricchita sugli accadimenti lavorativi. Questo non significa essere indifferenti o disinteressati; piuttosto, invece, comporta il saper abbracciare col pensiero e la comunicazione la complessità dei fattori che costituisce la vita di un servizio.

Affinché questo accada, è necessario condividere le modalità di leadership. I membri dell’équipe, come sappiamo, si identificano con il leader e questo avviene più facilmente se il coordinatore utilizza modalità franche e dirette, evitando malintesi e fraintendimenti.

Una équipe dovrebbe possedere delle indicazioni sugli indicatori del suo buon funzionamento, così come sarebbe importante che alla fine di ogni riunione le persone avessero variabili attraverso le quali valutare il buon esito del lavoro. Purtroppo, normalmente, nelle istituzioni questi aspetti sono trascurati, così come è poco valutato il processo di mentalizzazione che un’équipe riesce a comporre. Talvolta i processi di valutazione riguardano prevalentemente gli aspetti organizzativi del lavoro, concreti, allineandosi ad un’immagine di gruppo in cui tutte le componenti emotive, affettive, della rêverie non abbiano nessuna ricaduta sul processo di lavoro.

Nell’ambito del lavoro psicosociale, riteniamo sia fondamentale per i coordinatori non perdere il contatto con il lavoro sul campo, mantenendo così una rappresentazione dei bisogni dei pazienti, un’osservazione del legame tra i pazienti e gli operatori e un contatto con la comunità. Tutto questo, porta ad avere una maggiore ricchezza di visione da integrare nella cornice istituzionale. Attraverso questo processo si riduce la distanza tra i bisogni comunitari, i compiti delle istituzioni e il lavoro dei servizi. In altre parole, stiamo parlando di attenzioni che consentono di tenere viva un’attitudine alla ricerca, una curiosità reale per le persone e un atteggiamento di prevenzione rispetto i rischi di burocratizzazione e perdita di umanità delle istituzioni stesse.

La riflessione che stiamo facendo evidenzia che potenzialmente il coordinatore detiene una leadership verso il gruppo di lavoro, così come verso l’istituzione nella quale opera. È chiamato, su questi due piani, a chiarire le differenze tra i due gruppi: équipe ed apparato istituzionale per perfezionarne il dialogo e il funzionamento.

Ogni organizzazione, cooperazione sociale, associazione, istituzione pubblica corre ininterrottamente un rischio di istituzionalizzazione. Il coordinatore può parzialmente contrastare tutto questo attraverso una buona gestione dei tempi e degli spazi e dedicando quote importanti di pensiero alle riunioni di équipe, al loro svolgimento, agli emergenti che appaiono e al rapporto tra la sua équipe e la dinamica istituzionale.

La cura di cui stiamo parlando prevede un alto tasso di libertà nelle équipe, di poter esprimere le difficoltà verso gli utenti, le famiglie e le istituzioni stessa, cosicché la fatica vissuta non si trasformi in aggressività attiva o passiva verso gli utenti o pazienti, ma diventi un fattore di ulteriore disamina dei processi patologici e di cura.

In questa logica di lavoro, il coordinatore ha altresì il compito di occuparsi delle censure esterne ed interne al gruppo, ovvero quegli sbarramenti, limiti, blocchi che un’équipe abita anche inconsapevolmente, limitandosi così le aree di trattazione e di pensiero, legate al proprio operare. Le censure interne possono essere legate al timore di manifestare le proprie fragilità, ansietà o paure. Tutto questo potrebbe portare alla copertura complice di alcuni errori o mancanze, impedendo così il processo di apprendimento dall’esperienza.

Ostilità e aggressività, quando non trattate e considerate nel gruppo di lavoro, concorrono ad aumentare segreti, tabù, non detti che hanno il potere di essere trasmessi da una generazione di operatori all’altra, attraverso meccanismi analoghi a quelli che vediamo prodursi all’interno dei gruppi familiari.

Da quanto va emergendo, appare dunque evidente che le riunioni d’équipe possano costituire una sorta di “seconda pelle necessaria” che consente a “qualcosa di buono” di crescere: in campo psico-sociale, assistenziale, sanitario, pedagogico e identitario. Evidentemente, questa seconda pelle ha a che fare anche con i pazienti. Sono pertanto fondamentali le parole che si usano per parlare di loro. Di tanto in tanto, dunque, una équipe dovrebbe occuparsi del linguaggio che utilizza e delle associazioni tra realtà, immaginazione e piano simbolico del proprio agire.

Per ognuno di noi, diventa arricchente frequentare più gruppi, cambiare quindi di tanto in tanto “pelle” e attribuire a questo spostamento di gruppo un processo trasformativo.

Le parole che vengono utilizzate in gruppo sono un indicatore interessante circa i suoi processi di pensiero: infatti il discorso può essere esclusivamente sintomatologico, diagnostico oppure aprirsi ad un’analisi contestuale, ovvero il cominciare a chiedersi che tipo di emergente familiare o comunitario possa essere la patologia di quel soggetto.

Con le parole infatti possiamo parlare del paziente o del rapporto che noi intratteniamo con il paziente. Nel primo caso il paziente è una sorta di oggetto, de-soggettualizzato, qualcosa che risponde ad un criterio prestabilito. Mentre nel secondo si porrà attenzione ad un rapporto vincolare, ovvero noi siamo implicati nella salute e nella malattia del soggetto. Le parole trasmettono empatia, vicinanza, supporto anche attraverso il suono della voce, il timbro, il ritmo e le pause.

Un valore fondamentale nel processo di cura è dato evidentemente alle stesse parole del paziente, al suo linguaggio, ai suoi riferimenti culturali, alla sua rappresentazione del mondo. Dare parola al paziente, ai suoi gruppi, amici, familiari, rappresenta per lui una occasione di assunzione di potere, un potere che prelude a possibilità di guarigione, di autonomia, di autodeterminazione.

A questo proposito, in Spagna, sta nascendo una riflessione su una nuova forma di clinica: la clinica partecipata, secondo la quale i pazienti non sono oggetti a quali destinare una prestazione ma sono riconosciuti come persone alle quali viene restituita una capacità di accettare o meno le proposte dei professionisti. Questa nuova forma clinica si pone l’obiettivo di conferire un ampio spazio ai diritti umani dei pazienti e cittadini, riducendo al massimo il rischio di sottomissione delle persone, rischio sempre presente nelle istituzioni.

Clinica partecipata dunque è il modo di chiamare una clinica istituzionale che cerca di collegare la sofferenza psichica con la situazione sociale, le condizioni politiche in linea di massima con tutta l’organizzazione sociale.

Questa visione comprende la sofferenza psichica nel processo terapeutico, ma le restituisce la competenza di prendere decisioni, fare delle scelte, come dire, esprimere un parere sulle proposte istituzionali. Si tratta di “dar voce ai pazienti” impostando un nuovo compito che ruoti intorno alla lotta per la cittadinanza attiva del “paziente”, un compito che apra spazi affinché si consideri il suo linguaggio non solo nel registro della malattia, ma come indice della sua condizione soggettiva. Si tratterebbe di poter articolare il sapere professionale con l’esperienza della follia o sofferenza psichica, ricercando la pratica di una possibile cittadinanza a partire dall’ascolto e dal dialogo orizzontale.

Ne appare così, una clinica attenta alla sua funzione sociale di controllo. Questo implica il prendere maggiormente in considerazione la domanda che la popolazione psichiatrica realizza riguardo i propri bisogni o desideri. Ci troviamo di fronte ad una clinica critica, verso il mandato sociale dell’istituzione, concepito come un insieme di saperi e norme ideali che definiscono a priori quello che è meglio per il soggetto, quando far zittire il soggetto, i suoi desideri e il suo tentativo di inserirsi nel mondo.

Queste considerazioni etico-politiche oggi sono guidate dai cambiamenti legislativi, che tendono al recupero della cittadinanza; queste trasformazioni ci spingono e ci permettono di rafforzare le nostre pratiche assistenziali. Il rispetto che impongono queste nuove leggi, che si oppongono all’autoritarismo delle pratiche, rendono possibile un’apertura alla soggettività dei pazienti e ad un nuovo modo di contemplare la clinica e la prassi istituzionale. Anche se come metteva in guardia Rotelli: “Non si può cambiare con una legge un paradigma”; si tratta, come in modo conciso affermava Eva Muñiz, di “mettere il potere che abbiamo a servizio dei cittadini senza infrangere i loro diritti”.

Prendersi cura, in questa prospettiva, significa includere, in opposizione all’esclusione, alla trascuratezza e all’abbandono che caratterizzarono le pratiche psichiatriche tradizionali.

Ma “partecipata” implica ammettere questa clinica nella società con il compito di prendersi cura includendo il soggetto affetto da sofferenza psichica nel vivere sociale.

A questo punto dirimente appare l’importanza dei saperi profani, il coinvolgimento della cittadinanza, dei suoi diversi ambiti nella pianificazione, gestione e sviluppo dei processi terapeutici nella salute mentale. Si tratta di stimare l’importanza degli aspetti di cura dei nuclei esperienziali naturali della popolazione, ovvero una rivalorizzazione delle relazioni umane e delle relazioni sociali in funzione del sostegno della salute.

Da questa concezione ecologica si tratta di intendere la salute mentale e il benessere come compito collettivo, attraverso le condivisioni delle proprie vulnerabilità, anche quando diverse.

Nella clinica partecipata c’è una rivendicazione importante delle esperienze e conoscenze non esattamente professionali.

Ad esempio i migranti sono i maggiori portatori di sapere sulla loro cultura.

Per poter valorizzare questo dato, si dovrebbe accettare ciò che le istituzioni non sanno, ciò che non padroneggiano e hanno un profondo bisogno di ascoltare. È chiaro che tutto questo porta nella direzione di rimodulare il processo della conoscenza ed i poteri istituzionali nel verso di un’accoglienza più ampia ed integrata delle esperienze “altre”, trovando spazi di creativi e rigenerativi che vadano oltre una standardizzazione dei sintomi.

Il coordinatore dell’équipe, in tutto ciò, riveste un ruolo estremamente significativo, a patto che mantenga un’accurata riflessione su se stesso.


Note biografiche

Antonio Tarì Garcia, medico, psichiatra e psicoterapeuta di gruppo, coordinatore del Centro di Salute Mentale di Saragoza, di cui in passato ne è stato presidente. Antonio scrive inoltre per conto di una rivista dal titolo Área3 (www.area3.org.es)

Luciana Bianchera, psicopedagogista, formatrice, docente universitaria, supervisore e counselor è Responsabile Scientifica del Centro di Formazione Sol.Co. Mantova.

Angelica Ferrarin, educatore professionale, in formazione al corso di Laurea Magistrale in Pedagogia presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.


Autori consultati

Abraham N., Torok M. (1993), La scorza e il nocciolo, Borla, Roma

Anzieu D. (1987), L’Io pelle, Borla, Roma

Bion W. (1971), Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma

Bauleo A. J. (1994), Clinica gruppale. Clinica istituzionale, Il Poligrafo, Padova

Enriquez E. (2007), Clinique du pouvoir. Les figures du maître, ERES, Paris

Irazabal E. (2014), Situaciones grupales dificiles en salud mental, Editorial Grupo 5, Madrid

Lacan J. (2004), Le formazioni dell’inconscio, a cura di Antonio di Ciaccia, Einaudi, Torino

Lewin K. (1965), Teoria dinamica della personalità, Giunti Editori, Firenze

Muñiz Giner E. (2016), Primum non nocere también en rehabilitación, in Ortiz lobo A. hacia una psichiatria critica, Editorial Grupo 5, Madrid Pichon-Rivière E. (2021), Il processo gruppale, Pgreco, Milano

Rotelli F. (2015), Quale psichiatria? 23 scritti di Franco Rotelli, Psychiatry onile