Volume 25 - 23 Dicembre 2022

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Ben-essere a lavoro. Una nuova prospettiva di formazione e intervento nel Dipartimento di Salute Mentale dell’ASP di Agrigento

Autori

Ricevuto il 5/11/2022 – Accettato il 15/11/2022


Ma allora – disse Alice –
se il mondo non ha assolutamente alcun senso, chi ci impedisce di inventarne uno.
Il segreto cara Alice, è circondarsi di persone che ti facciano sorridere il cuore.
È allora, solo allora, che troverai il Paese delle Meraviglie. Il Cappellaio Matto.

(Lewis Carrol, 1865)


Riassunto

Nel presente articolo descriveremo un modello di organizzazione e formazione aziendale adottato dal DSM dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento. Verranno inoltre discussi i primi dati relativi a questa esperienza che è nata sia per permettere agli operatori di usufruire di uno spazio di formazione continuo, migliorando il clima di collaborazione all’interno dei servizi e un più semplice e aggiornato scambio di informazioni; sia per avviare un circuito virtuoso di presa in carico dei pazienti e delle loro famiglie ponendole al centro di un progetto terapeutico di comunità volto al recovery e alla realizzazione di un progetto di vita finalizzato al benessere mentale del singolo e della comunità.


Abstract

In this paper we describe a model of corporate organization and training adopted by the DSM of the Agrigento Provincial Health Authority. We discuss the first data related to this experience, created to allow operators to take advantage of a space of continuous training, improving the climate of collaboration within the services and simple and updated exchange of information. Moreover, this model start a virtuous circuit of taking charge of patients and their families by placing them at the center of a therapeutic community project aimed at recovery and the implementation of a life project aimed at the mental well-being of the individual and the community.


La pandemia con la quale abbiamo iniziato a convivere negli ultimi anni ci ha messo dinanzi a un cambiamento di prospettiva profondo: gli strumenti tecnologici e gli smartphone ci hanno permesso di continuare a studiare e di sorvegliare sulla salute dei nostri pazienti, ma ci hanno anche offerto un’opportunità inimmaginabile fino a qualche tempo prima, ripensando radicalmente i nodi della nostra rete relazionale e professionale attraverso strumenti che ci eravamo spesso trovati a demonizzare come “anti-socializzanti” per eccellenza.

Così il mondo adulto si è ritrovato ad imparare dagli adolescenti a familiarizzare con un nuovo modo di comunicare e anche il sistema sanitario e dei servizi si è trovato ad abbracciare la sfida che l’emergenza sanitaria ci poneva dinanzi: così in tempi bui la luce di una webcam ha illuminato le stanze di chi ha provato a restare uniti di fronte alla necessità di mantenere le distanze, di chi ha tentato di avvicinarsi all’altro ma rispettando le regole di un gioco che tutti stavamo provando a imparare e riscrivere.

Su questa nuova cornice sociale si inserisce l’esperienza agrigentina del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) che dal gennaio 2022 sta provando a co-costruire con i suoi operatori non solo un nuovo modello organizzativo aziendale per la Salute Mentale, ma una vera e propria rivoluzione culturale in termini di valorizzazione umana del paziente, ma anche e soprattutto degli operatori. Benessere mentale, rispetto della persona, buone pratiche (Barone, Tarascio, 2020) rappresentano gli elementi cardine su cui si è fondata la riflessione clinica in tema di salute mentale di una parte della ricerca italiana e internazionale che ha voluto rimettere al centro dell’interesse la persona e il suo mondo relazionale inteso non più solo come mondo interno, ma più propriamente come contesto di vita, espressione del benessere e del malessere psicologico, teatro della propria esistenza.

L’idea che si è sviluppata è quella di una comunità di operatori che si fonda a partire dal gruppo, che diventa non solo strumento di lavoro con i pazienti, ma momento di riflessione per gli operatori e per l’istituzione stessa; la quale può ripensarsi all’interno di uno spazio in cui livelli organizzativi, personali, professionali, possono essere riattraversati nell’ottica di un DSM che prende in cura i pazienti e si prende cura di sé.

L’etimologia stessa della parola Comunità, dal latino cum munus, rimanda al significato del dono comune: «affinché la vita sia, affinché noi esistiamo - è necessario che vi sia all’origine un dare, un donare disinteressato» (Pagliarani, 1985, pag. 125). Rimanda a qualcosa che è costitutivo di ciò che i singoli sono e che declina il patrimonio affettivo, emotivo, simbolico da cui nessuna persona può prescindere (Ruvolo, Monteverde, 2008). È a partire da questa declinazione del concetto di comunità - quale luogo in cui il dono diventa non solo comune, ma anche bidirezionale, incrociandosi all’interno delle relazioni tra pazienti e operatori, mondo familiare e mondo sociale - che prende avvio la nostra riflessione sulla possibilità di pensare alla configurazione dei servizi per il benessere mentale come un luogo di cura e cultura “gruppale” (Barone, Bellia, 2000; Barone, Bruschetta, Giunta, 2010).

La Salute Mentale, secondo questa prospettiva, non può essere pensata come equivalente alla psichiatria, né come assenza di malattia, ma come un processo attivo in cui ogni individuo possa pensarsi come protagonista del proprio percorso di cura per il raggiungimento di uno stato di benessere bio-psico-sociale (Barone, Volpe, 2020). Il benessere psichico coincide, secondo la nostra prospettiva, con il vivere una vita degna di essere vissuta costruita su misura dei propri interessi e delle proprie priorità.

Riconoscere, valorizzare e utilizzare i punti di forza dei nostri pazienti deve diventare il fulcro di ogni valutazione, piano assistenziale o progetto terapeutico, attraverso un procedere collaborativo e non più solitario (solo del paziente o solo dell’operatore), per garantire che venga rispettato per ognuno il proprio diritto di autodeterminarsi. Questo obiettivo diventa raggiungibile solo a condizione di ricostruire un sentimento di fiducia dei pazienti verso l’operatore, dell’operatore verso il paziente e la sua famiglia, dell’istituzione verso dell’operatore e dell’operatore verso l’istituzione.

Immaginare servizi di Salute Mentale che sposino una idea di cura recovery oriented (Davidson et al. 2012) appare ai più utopico e irrealizzabile, ma solo nella misura in cui continuiamo a pensare che il mondo sia diviso tra chi cura e chi viene curato, tra chi è sano e chi è malato, tra chi eroga il servizio e chi lo riceve, tra chi è normale e chi è diverso. In questo campo la sociolinguistica entra in nostro soccorso ricordandoci che anche il concetto stesso di inclusione parte da un presupposto secondo il quale c’è una minoranza che viene inclusa da una maggioranza che include (Gheno V., 2022): “io che sono normale mi prendo cura di te che sei differente” (ibidem, pag. 54). Solo se si inizia a intravedere una transizione possibile verso il concetto di convivenza delle differenze sarà possibile pensare a pazienti e operatori come soggetti attivi e partecipi di un processo in cui ognuno interviene sulla base delle proprie conoscenze ed esperienze (nessuno può conoscere il proprio mondo interno, i propri desideri, le proprie paure e le proprie speranze meglio di se stessi).

Questa rivoluzione non solo allevia la posizione dei pazienti restituendo loro la speranza, ma offre agli operatori la possibilità di re-incontrare la propria umanità e di metterla al servizio del proprio lavoro facendone strumento di cura per se stessi e per gli altri.

“Per lavorare bene in Salute Mentale bisogna essere provvisti di una tendenza alla curiosità e alla felicità. La felicità dipende in gran parte dalla relazione con gli altri. Senza amore, amicizia e comunità chi potrebbe essere felice? (…) Quindi per essere felici dobbiamo prenderci cura della nostra famiglia, dei nostri amici e dei membri della comunità. Prenderci cura di noi stessi e degli altri ci rende felici” (Barone R., 2020 pag. 19).

L’operatore, secondo questa prospettiva, può prendersi cura degli altri a partire dalla possibilità di prendersi cura anche di sé. Questa trasformazione può avvenire solo attraverso un aggiornamento professionale che si configuri come elemento cardine e strategico per le Aziende Sanitarie, ripensando alla formazione del personale in termini innovativi rispetto all'agire terapeutico, all’agire umano e all’agire professionale, ponendo il lavoro di gruppo e il gruppo di lavoro come fondamento dell’intervento clinico, sociale e abilitante dei sevizi del DSM.

Il gruppo agendo come strumento conoscitivo rispetto alla conoscenza di se stessi, attraverso l’analisi di come gli altri ci vedono e ci sentono, rappresenta quindi un dispositivo privilegiato per la realizzazione di una rinnovata consapevolezza di parti di se, nella prospettiva di un cambiamento che non si configura semplicemente come «un’evoluzione, semmai una rivoluzione» (Pagliarani, 1985, pag. 159).

La ricerca clinica sui gruppi di supervisione (Barone, Bruschetta, Di Falco, Frasca, 2014) ci ha permesso di comprendere che “Il lavoro di équipe, oltre l’immagine concreta dell’utente, deve analizzare anche il vissuto emotivo individuale degli operatori nei confronti della persona in carico. È qui che entrano in gioco le emozioni, i sentimenti. È qui che l’operatore pone in gioco il proprio codice personale, i propri affetti, la propria risonanza emotiva.” (Gastaldi, 2006, pag. 95-96)

Le istituzioni preposte alla cura della sofferenza psichica diventano per i pazienti spazi in cui proiettare il proprio mondo interno, territori in cui mettere in scena scissioni e frammentazioni, funzioni mancanti nella loro vita presente e passata. La relazione intrattenuta dai pazienti con i propri contesti di cura pone spesso gli operatori nella condizione di intervenire direttamente sulla dimensione quotidiana dei pazienti, rinunciando ai tradizionali strumenti di intervento verbale e utilizzando sempre di più quello strumento ben descritto nella definizione di “azioni parlanti” data da Racamier (1972).

Ri-pensare al proprio lavoro potendo progressivamente entrare in contatto con le emozioni, le paure e i dubbi che il paziente attiva, significa poter guardare alla relazione clinica come ad un campo relazionale complesso del quale entrano a far parte gli aspetti istituzionali, quelli personali e professionali degli operatori.

La ricerca più recente sulla Salute Mentale di comunità, andando ancora più a fondo sul delicato tema delle dinamiche relazionali tra paziente e servizi, ci fa notare come le reti formali e informali sulle quali si basa l’esistenza stessa di ogni individuo devono entrare necessariamente nel campo di lavoro dei servizi, perché è proprio a partire da questa complessa rete di relazioni che dipende la possibilità non solo di prevenire gli effetti più gravi del disagio psichico, ma soprattutto di promuovere il benessere mentale come bene comune. Questo significa implementare il lavoro con le famiglie reali dei pazienti, coinvolgere i gruppi formali e informali di riferimento degli individui all’interno del trattamento e farli diventare perno di un comune e condiviso progetto di cura.

Lavorare attraverso i gruppi significa aiutare le persone a ricostruire una rete reale di sostegno che lo traghetti al di là del momento di crisi; ma significa anche offrire agli operatori uno strumento concreto e agile di lavoro in cui possa sentirsi meno solo, più supportato e più felice.

Lavorare con i gruppi e attraverso i gruppi nel DSM rappresenta una sfida entusiasmante, ma soprattutto un sistema economicamente conveniente sia in termini di tempo che di risorse economiche e umane.

Questo lavoro di gruppo non può però essere pensato in termini classici, con il lavoro sul singolo gruppo di operatori o su un singolo servizio. Tale sistema si è rivelato nel corso degli anni disfunzionale, rispondendo poco e male alla complessa realtà dei servizi, ponendo altresì il rischio di una frammentazione ancora più evidente tra Centro di Salute Mentale (CSM), Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza (NPIA), Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), Servizio Dipendenze Patologiche (SER.D) ecc. in territori in cui le comunicazioni sono rese difficili da una rete infrastrutturale che fa da specchio alla difficoltà di comunicare efficacemente tipica del nostro tempo.

Così la formazione va ripensata in termini innovativi, con la possibilità di utilizzare nuove modalità di aggregazione in gruppo, nuove modalità di utilizzo dei gruppi e nuove modalità di utilizzo delle tecnologie. Tutto ciò passa necessariamente attraverso una nuova alfabetizzazione digitale che obbliga i professionisti a trovare un modo e un “mondo” di relazioni del tutto nuovo rispetto al passato.

L’utilizzo di nuovi strumenti per la pianificazione, l’organizzazione e lo svolgimento di attività di gruppo a distanza, se usati con consapevolezza, possono favorire la partecipazione ai processi gruppali, arricchendo attraverso lo scambio e il confronto tra gli operatori anche il senso di appartenenza al gruppo di lavoro, l’assunzione di responsabilità e la partecipazione ai processi decisionali (Barone R., Cirignotta M., Volpe A., 2021).


Obiettivi e metodo
A partire dalle premesse teoriche e dall’analisi dei macrocambiamenti socioculturali intervenuti negli ultimi anni ed esposte nel paragrafo precedente prende avvio il lavoro di indirizzo e la riorganizzazione del DSM dell’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP) di Agrigento. Un atto aziendale affida al Direttore del DSM il compito di dare un indirizzo culturale ai servizi e quello che il Direttore del DSM dell’ASP di Agrigento ha proposto si sviluppa seguendo tali premesse.

L’indirizzo dello staff dirigenziale parte dalla constatazione che “le istituzioni a muri alti” e le teorie e le metodologie ormai datate risultano inefficaci, da qui la necessità di “offrire gruppalità” nell’ambito di una società estremamente individualistica, occupandosi in primis degli operatori come punto nodale della rete dei servizi aziendali per la salute mentale. Costruire “interdipendenze sane” (Barone 2010) diventa necessario per creare un clima di collaborazione all’interno dei servizi al fine di prevenire il malessere psichico e promuovere benessere mentale di comunità.

Questi presupposti hanno dato impulso ad un processo trasformativo importante che ha permesso di trovare un senso nuovo, un’identità nuova e un rinnovato desiderio di fare salute mentale e di comunità. Pensare all’ambientazione, costruire la scena, forse significa proprio questo, ricorda R. Barone: “costruire gruppi per le persone che chiedono aiuto, nel momento in cui chiedono aiuto (per esempio all’esordio), dove ci chiedono aiuto (a casa loro, a lavoro, al Servizio…), con il coinvolgimento di tutte le persone utili a quel gruppo (famiglia, rete sociale, operatori che sono nella scena con tutte le loro emozioni, le loro vite, la loro umanità e il loro cuore)”.

Da qui l’esigenza di adottare nel DSM dell’ASP di Agrigento un modello gruppale multi-modulare descritto nella Figura 1.

Figura 1

Il primo gruppo che è stato creato è il “gruppo dei gruppi” o “gruppo dei facilitatori” di cui fanno parte operatori afferenti ai diversi servizi del DSM dell’ASP di Agrigento: CSM, SPDC, Comunità Terapeutica Assistita (CTA), Centro per il trattamento dei disturbi del comportamento alimentare – Metabolè; Malattie Psichiatriche Degenerative ed Involutive - CDCD - Centro Disturbi Cognitivi e Demenze; SER.D; NPIA. Tale gruppo, promosso dal Direttore del DSM fin dal suo insediamento e coordinato da una dirigente psicologa membro dello staff, ha visto coinvolti operatori con professionalità e formazione differenti ma aventi in comune l’esperienza di conduzione di gruppi, la formazione sulla conduzione di gruppi o la voglia di avviarsi ad un approccio gruppale del lavoro all’interno del proprio Servizio. Gli incontri hanno cadenza settimanale e avvengono on line. Il regolare e costante ritrovarsi di operatori provenienti da vari servizi territorialmente distanti è stato reso possibile dall’adattamento alle alternative modalità di lavoro da remoto utilizzate negli ultimi due anni per fronteggiare l’emergenza sanitaria da Covid – 19; siamo inseriti nel contesto ambientale che continuamente cambia, interagiamo con gli altri che continuamente cambiano e cambiamo anche noi. Se l’incontro da remoto elimina i limiti legati alle distanze e al tempo necessario per raggiungere il luogo fisico della riunione rappresentando un enorme vantaggio, di contro rende più difficile l’eliminazione di distrazioni, il contatto visivo appropriato e l’osservazione dei segnali non verbali.

Gli operatori che partecipano a questo gruppo hanno assunto a loro volta il compito di organizzare, avviare e facilitare i gruppi di modulo (nota1) dipartimentale e i gruppi delle Unità Operative Complesse (UOC) del DSM cui sono invitati a partecipare tutti gli operatori dell’equipe di ogni singolo servizio (medici, psicologi, assistenti sociali, infermieri, OSS, amministrativi, ausiliari…). In un secondo momento, dall’esperienza avviata da questi gruppi, ne sono nati altri due: il gruppo dei direttori UOC del DSM e quello interdistrettuale formato da tutti i servizi afferenti a uno stesso distretto.

Si tratta di gruppi volti alla promozione del dialogo ed orientati ad una ricerca del confronto e della condivisione, nella prospettiva della finale autonomizzazione dei singoli attraverso un processo di individuazione-separazione e attraverso forme di rispecchiamento e risonanza.

I gruppi di modulo e i gruppi di UOC se pur differiscono per alcune caratteristiche peculiari legate a specificità quali la territorialità, la professionalità degli operatori in servizio e la numerosità, hanno tra loro alcuni elementi comuni legati al setting: incontri da remoto della durata di 60 minuti a cadenza settimanale. Così in alcuni casi si è in presenza di un grande gruppo cui partecipano più di 50 operatori, mentre altri assumono la forma di gruppi mediani.

Questa organizzazione aziendale ha un duplice obiettivo: permettere agli operatori di usufruire di uno spazio di formazione e confronto continuo, migliorando il clima di collaborazione all’interno dei servizi, e permettere un più semplice e aggiornato scambio di informazioni tra i servizi che operano sui territori e la dirigenza del dipartimento.

Il macro obiettivo di questa nuova organizzazione aziendale è quello di fornire una formazione continua, sostenendo gli operatori nell’avviare un circuito virtuoso di presa in carico efficace ed efficiente dei pazienti e delle loro famiglie ponendole al centro di un progetto terapeutico di comunità volto al recovery e alla realizzazione di un progetto di vita finalizzato al benessere mentale del singolo e della comunità curante.

Il modello gruppale multimodale, basandosi su una struttura e un funzionamento aperti, permette la libera circolazione di contenuti ed esperienze da un contesto terapeutico all’altro e tra diversi servizi, senza creare pericolose interferenze, anzi costituendosi come fondamentale momento di rassicurazione emotiva per gli operatori, i pazienti e le loro famiglie.

Lo stile comunicativo dei gruppi è discorsivo. Secondo P. De Marè (1996) il dialogo nascerebbe da un’ostilità dipendente dalla frustrazione di essere insieme, dalla suscettibilità alla presenza degli altri, da una perdita di sicurezza e intimità personale. Le interazioni sono continue e vivaci e spesso si attivano dinamiche relative ad una contesa dello spazio tra vecchi e nuovi membri, a come possano essere condivise, tramandate o modificate le norme esplicite ed implicite del gruppo. Il facilitatore, che conduce il gruppo secondo un approccio dialogico (Kay Alhanen, 2019), ha il ruolo di favorire il dialogo, sollecitare punti di vista differenti (polifonia), centrare gli interventi nel qui e ora, tollerare l’incertezza, garantire il rispetto del setting e “accudire” il gruppo, come se fosse un bambino bisognoso di cure.

Nell’ambito della condivisione di una cultura formativa, al fine di acquisire competenze mirate a facilitare il dialogo, il gruppo dei facilitatori ha preso parte ad una giornata di formazione sulla conduzione dei gruppi basata su “Timeout e pratica dialogica”. Il metodo Timeout fa parte delle pratiche dialogiche diffuse in Finlandia ed è stato sperimentato in diversi contesti con la finalità di rafforzare la fiducia tra i cittadini e verso le istituzioni, sviluppare la democrazia e sostenere la resilienza sociale (ibidem). Possiamo definire il Timeout come una discussione facilitata. “Time out”, in ambito sportivo, significa offrire l’opportunità di fare una pausa e riflettere in pace sugli eventi in corso. Tale metodo descrive il dialogo come un modo costruttivo ed equo di conversare, che ha lo scopo di comprendere gli altri non per raggiungere l’unanimità, generando ogni qual volta intuizioni inaspettate e nuove idee. Il Timeout prevede l’utilizzo di carte per facilitare il dialogo, queste carte forniscono suggerimenti e frasi per guidare la conversazione partendo dalla ricerca di un buon modo per sintonizzarsi, spostando l’attenzione al momento presente, per poi passare alla creazione di un incontro in cui tutti possano partecipare alla pari, fino a giungere alla corretta conclusione della conversazione.


Le regole dei gruppi

I partecipanti ai gruppi condividono delle regole finalizzate a rendere funzionale, sicuro e armonico il confronto, creando un clima di apertura, fiducia e rispetto. Le regole alla base del buon funzionamento del dispositivo gruppale sono mutuate dai gruppi di auto mutuo aiuto e possono essere riassunte in pochi punti: parlare in prima persona, avere un atteggiamento non giudicante, porsi in una posizione di ascolto; parlare uno alla volta; mantenere la riservatezza; rispettare i tempi di inizio e di fine di ogni incontro.

Parlare in prima persona: ogni volta che si parla a qualcuno usando la seconda persona - ovvero il tu - lo si fa sentire colpevolizzato, sotto attacco; inoltre, gli si scarica addosso la responsabilità di come ci si sente. Se ti dico: “mi stai facendo arrabbiare, stai mandando tutto all'aria”, non mi assumo la responsabilità delle mie emozioni e di come mi sento. La discussione in tal senso non sarà utile e fruttuosa. Si partirà da avversari, secondo una prospettiva che implica che il problema è dell'altro e che lui deve cambiare perché è sbagliato. Si finisce quindi a discutere di chi ha ragione, portando argomenti sepolti che vengono tirati fuori per essere rinfacciati. Se invece durante il dialogo si usa la prima persona, si presenta il proprio punto di vista senza colpevolizzare il prossimo (Delizonna, 2017). Se si dice: “mi arrabbio a parlare di queste cose, faccio fatica a rimanere calmo quando penso che stia per andare tutto all'aria” si manda un messaggio completamente differente. Ci si assume la responsabilità della propria reazione. Assumersi le responsabilità di ciò che si dice vuol dire anche imparare a descrivere invece di giudicare.

Avere un atteggiamento non giudicante: diventa utile descrivere il comportamento dell'altro e le sue conseguenze su di sé astenendosi da ogni giudizio, questo permette di affrontare critiche e argomenti difficili con facilità promuovendo un atteggiamento più empatico tra i partecipanti. La resistenza degli altri nasce quando gli individui si sentono sotto accusa. Se si parla dei propri bisogni e dei propri desideri si sviluppa invece collaborazione (Watzlawick, 1971).

Libera associazione, presentata come invito a parlare, ad esprimere tutto quello che viene in mente cercando di limitare il più possibile quei filtri o giudizi che segnano la differenza tra ciò che si pensa davvero e ciò che si finisce per condividere. Un esempio di formulazione potrebbe essere il seguente: “ognuno di voi è invitato a parlare liberamente, quando ne ha voglia, dell’argomento che gli viene in mente. Per noi saranno importanti i pensieri tanto quanto gli accadimenti delle vostre routine”. Quando parliamo, operiamo una selezione tra le possibili parole che ci permettono di trasmettere un messaggio coerente. Nonostante questo processo di selezione, che avviene più o meno in fretta, si presentano sistematicamente nel nostro parlato, errori o lacune come i lapsus linguae, le dimenticanze, le ripetizioni, etc. Questi “errori” che occorrono in una normale conversazione passano spesso inosservati; tuttavia, in un contesto analitico sono molto importanti e diventano essi stessi stimolo di discussione e cambiamento.

Porsi in una posizione di ascolto: l’ascolto, in psicoterapia familiare psicoanalitica, è ascolto della circolazione fantasmatica ai livelli inconscio e preconscio attraverso i racconti, gli scambi, le discussioni, i sogni, le associazioni. È ascolto del livello manifesto del funzionamento intersoggettivo gruppale per cogliere il senso latente del funzionamento stesso del gruppo. Uno degli aspetti della comunicazione che incide di più nel renderla efficace è l’ascolto: mettendosi in posizione di ascolto si lascia tempo all'altro per dire ciò che vuole mentre si raccolgono informazioni utili.

Mantenere la riservatezza: ogni informazione che si acquisisce all’interno del gruppo è vincolata da un patto di riservatezza, anche se informale, ai cui il gruppo aderisce e che preserva i contenuti che emergono nel corso degli incontri dalla divulgazione all’esterno, per garantire ad ognuno il mantenimento della privacy.


Riflessioni sull’esperienza dei gruppi

Attualmente all’interno del DSM dell’ASP di Agrigento sono presenti 9 gruppi di operatori che a loro volta hanno dato impulso alla creazione di vari gruppi con gli utenti e con i familiari degli utenti all’interno dei diversi servizi.

Quando un gruppo funziona, infatti, inizia a generare altri gruppi e così la cultura formativa e il modello organizzativo del “gruppo dei gruppi” sono stati trasferiti dai suoi partecipanti in ulteriori gruppi, nei rispettivi luoghi di lavoro. Avviene un processo per cui la leadership cresce realizzando azioni e progettualità, attraverso l’assunzione di responsabilità.

Ogni gruppo è facilitato da due operatori non solo per garantire la continuità delle attività ma anche per rendere più solido il dispositivo, con il vantaggio di alleggerire il compito dei facilitatori attraverso la condivisione nel post-gruppo di difficoltà e preoccupazioni.

L’avvio di ogni gruppo è stato formalizzato dai direttori dei servizi, la partecipazione ai gruppi è volontaria e, per incentivare le presenze ma anche per valorizzare l’impegno dei partecipanti, la stessa è stata inserita nel Piano degli Obiettivi di Performance.

I gruppi delle varie Unità Operative hanno attraversato una prima fase caratterizzata dalla condivisione di lamentele riguardanti la consistente riduzione del personale nei servizi e la progressiva disillusione degli operatori, le carenze organizzative e strumentali, per poi passare all’ottimizzazione delle risorse e alla possibilità di valorizzare l’esistente. Abbiamo assistito ad un cambiamento di visione o ad un’integrazione della stessa, dal prestare attenzione a ciò che non funziona, retaggio della nostra cultura scientifica, al punteggiare gli aspetti positivi, ciò che si possiede, quello che si realizza, il momento presente.

I gruppi hanno dovuto affrontare e affrontano delle difficoltà, tra queste la mancata partecipazione di alcuni direttori, oltre che di operatori, l’infrazione di regole per cui alcuni contenuti sono stati portati fuori dal gruppo, gli attriti tra facilitatori mossi da invidia, gelosia, competizione. Riconoscere queste dinamiche che si presentano nei gruppi e accoglierle come tali, tollerare l’incertezza dell’andamento dei gruppi, riponendo la fiducia nella sua utilità a lungo raggio e avere la pazienza di aspettare i tempi di “maturazione/disponibilità” dei più resistenti diventano le modalità attraverso cui fare crescere i gruppi e consentirgli di definirsi; il conflitto può essere costruttivo e le resistenze sono spesso alla base del cambiamento, e in questo il dialogo aiuta a comprendere.

Se per alcuni operatori l’avvio dei gruppi è stato vissuto sin da subito come un’opportunità, settimanalmente attesa, per altri ha rappresentato e per altri rappresenta ancora oggi uno scomodo impegno. Chi non partecipa perché non partecipa? I gruppi fanno paura, non tutti sono pronti a mettersi in gioco, ad esporsi, a parlare di se, a condividere. In realtà lo scambio tra i partecipanti offre molte risorse; attraverso il lavoro di gruppo e attraverso il dialogo è possibile non cadere nella trappola della logica dicotomica dell’esistenza dei buoni e dei cattivi, in quanto ognuno di noi ha delle parti buone e delle parti cattive, ed è più probabile che non ci si faccia guidare dal pensiero giudicante secondo cui c’è chi lavora bene e c’è chi non lavora.

Nell’ambito degli incontri sono emerse delle criticità che rendono i nostri servizi impreparati ad affrontare le richieste di una società che cambia e con questa l’utenza e il modo attraverso cui si manifesta la sofferenza. I nostri servizi, infatti, funzionano per compartimenti stagni in un momento storico in cui è diventata sempre più urgente la necessità dell’integrazione. Ci ritroviamo a prenderci cura di adolescenti sedicenni, dipendenti da sostanze, che commettono atti autolesionistici e che vengono ricoverati in SPDC, e non ci possiamo più limitare a chiederci quale servizio è deputato alla presa in carico di quell’utente. In questo caso, la conoscenza diretta dei colleghi e delle modalità di lavoro e presa in cura all’interno dei diversi servizi, avvenuta durante la partecipazione ai gruppi e ai percorsi formativi aziendali su Timeout e pratica dialogica, Open Dialogue e Gruppi Multifamiliari, ha consentito interventi maggiormente mirati e più aderenti ai bisogni reali dei pazienti.

L’attuale realtà del nostro sistema di cura è caratterizzata dalla drastica riduzione delle risorse e dalla conseguente demotivazione degli operatori, per tale ragione diventa ancor più necessario fare incontrare regolarmente gli operatori e aiutarli a comunicare in termini dialogici. All’interno del modello di “Servizio di salute mentale di comunità”, il “gruppo dei gruppi” o “gruppo dei facilitatori” è stato creato per consentire a chi ne fa parte di prendersi cura di sé ma anche con l’obiettivo di attivare ulteriori gruppi nell’ambito delle proprie Unità Operative con il coinvolgimento di tutti i colleghi in esse operanti e finalizzati al prendersi cura di chi cura. I partecipanti a questi ulteriori gruppi a loro volta hanno avviato gruppi per utenti e per i familiari degli utenti all’interno dei propri servizi. Inoltre, i facilitatori hanno avuto e hanno il ruolo di garanti dei vari gruppi formati, che nel tempo rischiano di sfaldarsi. Ma come ci si prende cura di chi cura? Attraverso l’ascolto, permettendo alle persone di dire quello che pensano e di manifestare quello che sentono, attraverso la gentilezza e l’accoglienza, curando il clima relazionale, sviluppando appartenenze, creando alleanze, condividendo una cultura formativa; tutto ciò, avendo come cornice il modello di democrazia partecipata, a cascata modifica la dimensione motivazionale. Prendersi cura di chi cura permette di suddividere il carico emotivo-lavorativo, consentendo di superare il senso di solitudine, di frustrazione, di insicurezza dell’operatore, permette di prendersi cura delle dinamiche interne ai luoghi di lavoro, per esempio trasformando il conflitto in elementi costruttivi, e di quelle legate al contesto più ampio in cui siamo immersi, in quanto viviamo nello stesso ambiente delle famiglie di cui ci prendiamo cura. Inoltre, prevedere uno spazio e un tempo in cui potersi fermare offre l’opportunità di operare pensando. Infine, un gruppo dei gruppi formato e definito produce nuove idee e diventa un punto di riferimento per i suoi componenti, assumendo il ruolo di rete o paracadute per ogni facilitatore e per le azioni dallo stesso intraprese, con relativa assunzione di responsabilità, nell’ambito della propria Unità Operativa.


La valutazione del lavoro di gruppo attraverso l’approccio multimodulare

Il processo di valutazione degli operatori dei servizi persegue differenti finalità, quali orientare la prestazione dei dipendenti verso il raggiungimento degli obiettivi dell’Ente, ma anche e soprattutto la valorizzazione del personale, l’introduzione di una cultura organizzativa della responsabilità per il miglioramento della performance rivolta allo sviluppo della qualità dei servizi offerti e del merito, l’assegnazione degli incentivi di produttività.

Il processo di valutazione permette a chi valuta di:

  • attivare un miglior dialogo con gli operatori sugli obiettivi da raggiungere e sui risultati conseguiti;
  • migliorare la trasparenza nei rapporti tra gli operatori;
  • migliorare l’efficienza dei diversi servizi.

Il processo di valutazione inoltre permette al dipendente di:

  • migliorare la conoscenza e consolidare i rapporti d’equipe;
  • aumentare la partecipazione nella definizione degli obiettivi;
  • migliorare la conoscenza sui parametri e sui risultati della valutazione del proprio lavoro.

Gli obiettivi della valutazione possiedono determinate caratteristiche, in particolare sono:

  1. rilevanti e pertinenti rispetto ai bisogni della collettività;
  2. specifici e misurabili in termini concreti e chiari;
  3. tali da determinare un significativo miglioramento della qualità dei servizi erogati e degli interventi;
  4. riferibili ad un arco temporale determinato;
  5. correlati alla quantità e alla qualità delle risorse disponibili.

Lo strumento da noi utilizzato per l’estrinsecazione della valutazione degli operatori dei servizi è la scheda di valutazione del gruppo che si divide in sei aree:

  • la prima area riguarda la PARTECIPAZIONE ALLE ATTIVITÀ DEL GRUPPO;
  • la seconda area PERTINENZA AL TEMA PROPOSTO;
  • la terza area CONTRIBUTI AL LAVORO DI GRUPPO;
  • la quarta e la quinta area riguardano CONSIDERAZIONE e COINVOLGIMENTO DEGLI ALTRI;
  • la sesta area la COMUNICAZIONE.

Per ognuna di queste aree sono stati estrapolati degli indicatori specifici (3 per ogni sezione) sui quali è stata espressa una valutazione da Raramente a Quasi sempre: Raramente (1); Qualche volta (2); Spesso (3); Quasi sempre (4).

In base ai punteggi medi ottenuti per ogni singola area si è ricavato un giudizio complessivo secondo una scala da Ottimo a Scarso: Ottimo (9-10), Buono (7-8), Sufficiente (6) Scarso (4-5).

Dall’analisi delle risposte ottenute si osserva che i singoli partecipanti al “gruppo dei gruppi” percepiscono ottimi livelli di partecipazione, pertinenza, contributi e comunicazione, nonché buoni livelli di considerazione e coinvolgimento degli altri. Solo in alcuni casi partecipazione, coinvolgimento e comunicazione sono considerati sufficienti. In nessun caso è percepito uno scarso livello per le aree indagate.

Si veda grafico 1.

Grafico 1

Nel corso dei mesi, il gruppo ha visto un crescente aumento del numero dei partecipanti agli incontri. Si è passati da un n. di 30 a 42 partecipanti. Questo incremento può essere visto come un dato quantitativo del crescente interesse verso il modello proposto, nonché della progressiva interiorizzazione delle metodologie adottate.


Conclusioni

A fare da cornice alle modalità di lavoro esposte vi è stata una scelta, presa in prestito dal mondo imprenditoriale, che prevede di replicare dei modelli di intervento e una cultura organizzativa, appartenenti anche ad altri campi e che si sono rivelati produttivi.

Innovazione e originalità guidano le imprese, e uno dei miti imprenditoriali più diffusi è quello che essere i primi nell’innovazione garantisce un vantaggio competitivo sulle altre aziende costrette a inseguire. Alcuni studi dimostrano tuttavia che essere i primi non significa essere i migliori e che puntare al miglioramento del prodotto o - come nel nostro caso - del servizio offerto è potenzialmente ancora più importante.

Gli attuali modelli organizzativi aziendali vincenti mettono al centro dell’azienda le risorse umane che ne fanno parte, il leader instaura delle relazioni dirette con i dipendenti per rafforzarne il legame, favorisce momenti di collaborazione e scambio (riunioni aziendali, attività di team building) e dedica del tempo per ascoltare le necessità dei dipendenti, prendendo spunti dalle loro considerazioni per favorire la produttività (Sena, 2015).

Nell’ambito della Salute Mentale studi recenti dimostrano che le pratiche rivelatesi più efficaci sono quelle che vedono l’utilizzo di Gruppi Multifamiliari, dell’Open Dialogue, dell’IPS – supporto individuale all’impiego - e della Comunità Terapeutica Democratica nel contesto di un DSM orientato al recovery e a un’ottica di Psicoterapia di Comunità (Barone, 2020).

Per concludere aprendo al contempo a future riflessioni sul tema si potrebbe apostrofare che “nella nostra esperienza agrigentina innovazione è incontrarsi da remoto, originalità è replicare modelli che si sono rilevati produttivi.


Note

Nota 1: il modulo è l’insieme dei servizi del DSM afferenti a distretti limitrofi.


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