La cura nel tempo del “covid”
Professore Ordinario di Epistemologia della Ricerca Qualitativa presso la scuola di Medicina e di Filosofia della cura, Dipartimento di Scienze Umane - Università degli Studi di Verona
(Ricevuto l’08 marzo 2021; accettato il 13 marzo 2021)
Il tempo presente, segnato dalla pandemia da “covid-19”, è un tempo difficile. Ha generato incertezza e paura: incertezza sulla giustezza dell’agire, paura di non potere tornare alla vita così come era quotidianamente vissuta. A costituire materia da pensare per una politica dell’esistenza è il fatto che il difficile che stiamo vivendo ha messo in evidenza sia problemi che tendevamo a non vedere sia cose essenziali a lungo dimenticate.
Tendevamo a distrarre lo sguardo dalle forme di ingiustizia che feriscono il tessuto sociale: a pochi è dato di possedere grandi quantità di risorse, a molti di faticare a mettere insieme quanto necessario per condurre una vita degna di essere vissuta; la crisi economica prodotta dalla pandemia ha ulteriormente messo in difficoltà i molti che hanno poco e rafforzato il potere di chi ha tanto. Ci preoccupano i DPCM, ma non siamo stati educati a preoccuparci per l’ingiustizia dilagante. Abbiamo dimenticato, forse annientato, le radici della nostra cultura, quel pensiero socratico che dice: “meglio ricevere ingiustizia che farla”.
Fra le cose di valore per la vita a lungo trascurate è la cura, o meglio le pratiche di cura, quelle che procurano quanto necessario a vivere, quelle che la fanno fiorire, quelle che la riparano quando qualche ferita nel corpo o nell’anima segna l’esistenza. A costituire un fatto certo, evidente è che fondamentale nella vita è la cura, poiché senza cura la vita non può fiorire.
La cura è azione ontologica necessaria perché la qualità essenziale della vita umana è di essere incompleta e fragile. L’essere umano nasce, infatti, mancante d’essere e per tutto il tempo della vita è chiamato a fare fronte a questa debolezza ontologica. Debolezza dovuta al fatto che il mio esserci non è deciso endogamicamente, ma dipende da altro da me; nessuno ha sovranità sul proprio essere, da sé soli non si è nulla, ma si il proprio esserci si struttura ricevendo da altri ciò che positivamente e negativamente danno forma al tempo della vita. Di una grande potenza espressiva sul piano ontologico sono le parole di Edith Stein: «io non sono da me, da me sono nulla, in ogni attimo mi trovo di fronte al nulla e devo ricevere in dono attimo per attimo nuovamente l’essere»; per questo definisce l’esserci “inconsistente” (Stein, 1999, p. 92). A causa di questo insuperabile dipendere-da-altro il nostro esserci è vulnerabile ed è in quanto tale che ha necessità di dedizione continua. L’essere, in cui mi trovo prorogato di momento in momento, non è mai dato in una forma compiuta né è mai posseduto, ma chiede quel lavoro della cura necessario a dare a esso forma. Il venire al mondo coincide con l’assunzione del compito di aver cura della vita perché possa continuare nel tempo e perché prenda una buona forma.
Questo lavoro sull’essere che è la cura ha la tonalità di un gravame, di un peso, perché il lavoro del vivere è incessante, «non può fermarsi» (Stein, 1999, p. 91); il lavoro della cura non lascia respiro, non consente soste. La cura è un lavoro faticoso: tesse i fili dell’essere, ma senza mai riuscire completamente nella realizzazione dei suoi progetti, poiché all’essere umano risulta impossibile chiamare all’essere tutto ciò che vede essenziale. Si trova da subito e per tutto il tempo della vita vincolato al compito di dare forma al proprio esistere senza però mai avere sovranità sulle mosse del proprio divenire. Si ha cura di sé per far fronte alla fragilità e vulnerabilità della condizione umana, senza mai poter ridimensionare questo essere intimamente fragili e vulnerabili, nella carne e nell’anima.
Se la cura è qualità ontologica fondamentale dell’esser-ci, il prendersi-a-cuore-la-vita è l’imperativo etico: prendersi a cuore sé, gli altri, il mondo delle istituzioni e il mondo naturale.
Sempre ciascuno ha necessità della cura che solo altri può fornire, poiché la sostanza dell’essere umano è relazionale, nel senso che l’esistenza è un filo strettamente intessuto insieme ad altri fili. Heidegger spiega la sostanza relazionale dell’essere dicendo che non solo «non è mai dato un soggetto senza mondo», ma «non è mai dato, innanzitutto, un io isolato, senza gli altri» (1976, p. 151). Che l’esserci sia sempre un con-esserci costituisce un dato fenomenologicamente evidente; questo dato sarebbe invece scorrettamente interpretato da quelle filosofie che arrivano a teorizzare la qualità intersoggettiva dell’esistenza solo dopo aver posto un soggetto definito in sé rispetto al quale gli altri compaiono sulla scena in un secondo momento. Non ci sono enti delimitati e chiusi in se stessi, ma «gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche» (Heidegger, 1976, p. 153). Sinteticamente, «l’essere è in se stesso essenzialmente con-essere» (1976, p. 155). Una conseguenza ontologicamente rilevante della sostanza relazionale della condizione umana è che nulla dell’esistenza può essere pensato in modo isolato e atomistico, ma sempre in relazione agli altri; da ciò consegue che la cura non può non essere essenzialmente un aver cura anche per gli altri (nota 1).
Ma prima di sviluppare qualsiasi discorso che abbia per oggetto la cura, si deve definire in che cosa essa consiste. Operazione quanto mai necessaria dal momento che “cura” è parola del quotidiano e in quanto tale su di essa si sono depositati nel tempo molti significati, più o meno differenti, ai quali si aggiungono le riflessioni scientifiche, anch’esse spesso differenti l’una dall’altra.
C’è chi dice che la cura sia un valore, chi la definisce un sentimento, chi la considera una scienza. Se ci atteniamo a un’analisi fenomenologica dell’esperienza umana, possiamo dire che la cura, presentandosi come qualcosa di agito nel mondo con altri, è una pratica. Precisamente la definisco come una pratica che ha luogo in una relazione fra un caregiver e una persona che riceve cura, è messa in moto dall’interesse per l’altro, dalla preoccupazione per la sua condizione e per il suo modo di essere, ed è orientata dall’intenzione di procurare benessere per l’altro.
Se si accetta questa definizione, allora si deve fare i conti con il carattere protensivo della cura, cioè il suo essere rivolta verso l’altro, il suo implicare una decisa conversione dello sguardo sull’altro. Una buona cura è una pratica ricettiva e responsiva, che si attualizza nella forma dell’attenzione per l’altro, della com-passione da intendersi come un sentire con l’altro, della presenza disponibile e sollecita a mettere l’altro - il bambino piccolo che ha bisogno di imparare i modi del suo essere più proprio, l’adolescente che sta esperendo il difficile di costruire il suo cammino nel mondo, l’adulto che si trova in difficoltà e che sente la necessità di un sostegno, il malato che sperimenta tutta la vulnerabilità della condizione umana, l’anziano che patisce una graduale perdita di autonomia – nelle condizioni di esperire una buona qualità della vita.
Quando nel divenire della vita qualcosa si inceppa nel corpo o nell’anima, si fa esperienza della malattia. A prendersi cura di noi in questi casi sono coloro che svolgono le professioni sanitarie: medici, infermieri e con essi altri professionisti. Quando l’organismo statale si prende cura dei cittadini garantisce contesti accessibili a tutti per la cura delle malattie. Il problema consiste nell’interpretare con giustezza il servizio sanitario. Per capire di cosa ci sia necessità conviene concettualizzare l’essenza della buona cura sanitaria.
Ai sanitari è chiesto di saper avere a che fare con la sofferenza mostrando di avere cura dei pazienti. Se per molto tempo la professionalità veniva ricondotta unicamente alle competenze di tipo scientifico e clinico, da un po’ di tempo ha preso corpo la tesi secondo la quale per saper agire la giusta cura è necessaria anche quella che si può definire la sapienza dell’umano, che ha la sua essenza nelle virtù terapeutiche: avere un profondo rispetto per il paziente, agire con delicatezza, essere disponibili, essere capaci di comprensione del vissuto dell’altro, dedicare il tempo necessario a rassicurare e confortare, ecc.
La pandemia ha messo in crisi il sistema di cura, rendendo difficile offrire la migliore qualità di cura possibile. Qui di seguito il resoconto dell’esperienza di una infermiera:
Il 1 marzo ero in servizio, i pazienti COVID positivi erano 4, il 2 marzo 6, il 3 marzo 8. Tornai a lavorare il 6 marzo e i pazienti erano diventati 14. Il 7 marzo fu un giorno terribile, ricoverammo 6 pazienti nel giro di 12 ore. Ormai le attività su tutti i ricoveri erano standardizzate: intubazione orotracheale, posizionamento di catetere arterioso e catetere venoso centrale, inizio di analgo-sedazione profonda e curarizzazione in continuo e pronazione precoce quasi in tutti i casi.
L’adrenalina era tanta, non avevo nemmeno il tempo di rendermi conto di quello che stava succedendo, era importante lavorare a ritmi altissimi, mantenendo una concentrazione elevata.
Mi resi conto nel giro di poco tempo che la relazione con questi pazienti era diversa e per questo richiedeva un sistema di cura differente. In rianimazione non siamo quasi mai abituati a conoscere il paziente, a parlarci. I pazienti COVID sono diversi. Arrivano quasi tutti vigili, coscienti, collaboranti, orientati, con una discreta soggettività respiratoria, una buona forza muscolare, chiedono di poter parlare con la famiglia, di poter salutare i propri cari prima di essere intubati.
Mi ricorderò per sempre di un paziente. Arrivò nel tardo pomeriggio, provarono a tenerlo in ventilazione non invasiva per qualche ora, sperando in un miglioramento degli scambi respiratori. Io entrai in stanza alle 21 per fargli l’EGA arterioso, in base ai valori degli scambi il medico avrebbe deciso se intubarlo. L’EGA era critico. In stanza iniziai a preparare il materiale per l’intubazione in attesa che il medico entrasse. Il paziente era tranquillo, non manifestava particolare ansia. Mi disse: “Stavo male da un po’ ma non avrei mai pensato che fosse il virus. Sa, mio figlio vive lontano non lo vedo spesso, ma mi ha promesso che appena esco dall’ospedale viene a trovarmi”. Non riuscii a trattenere le lacrime. Fortunatamente ero bardata con tuta e visiera e il paziente non se ne accorse. Dopo alcuni giorni morì. Per me fu straziante.
Fu straziante anche vedere che per il primo periodo gli unici posti letto che riuscivamo a liberare era perché i pazienti morivano. Mi chiedevo: “Ma riusciremo a salvarne qualcuno”.
La cura trova la sua ragione d’essere nella possibilità di migliorare le condizioni del paziente. Quando questo non succede il personale sanitario sente sofferenza. Quando l’impossibilità di guarire il paziente si ripete con una percentuale elevata nel corso dei giorni, la coscienza si trova a patire un senso di inefficacia non facile da sostenere. Già è difficile fare i conti con la morte inaspettata di un paziente, quando nel corso della giornata questo accade più volte, la fatica cognitiva ed emotiva può assumere contorni insostenibili. Ciò risulta evidente dal racconto di infermieri che parlano di fatica a prendere sonno la sera e poi di incubi notturni ricorrenti, di un lavorio della coscienza che esaurisce le energie cognitive ed emotive. Il sistema sanitario sta pensando a questi operatori? Per chi ha cura degli altri in situazioni così difficili c’è il supporto a trovare qualche energia per avere cura di sé.
La cura chiede disponibilità. Chiede un modo di pensare non-mercantile, un modo di pensare che mette al centro l’imperativo di fare ciò che è necessario. Scrive la figlia di una operatrice OS:
“Mia madre è assistente sociosanitaria presso una struttura residenziale per anziani. Sin dall’inizio della pandemia ero preoccupata a sapere che mia madre lavorava in un contesto a rischio. Da parte mia il livello di preoccupazione era sopportabile, questo però fino a quando un ospite manifestò forti sintomatologie riferibili al covid. In quel momento la struttura valutò necessario e improrogabile istituire una zona adibita all’accoglienza e alla cura dei pazienti-covid. Per poter attuare questa disposizione erano necessari operatori volontari, che si dichiarassero disponibili a prendersi carico di organizzare un reparto covid e a prendersi cura di quei pazienti. Mia madre non ci rifletté molto e decise di inserirsi per prima nella lista dei volontari per questa sezione. Non nascondo che quando venni a conoscenza della sua decisione la mia reazione non fu del tutto positiva. Ero preoccupata per lei, ero preoccupata per me e la mia famiglia. Ero quasi spazientita da questo gesto di cura e attenzione che mia madre decise di intraprendere. Quando le chiesi il motivo la risposta fu semplice, era quello che si doveva fare mi disse, e solo dopo capii che aveva ragione. Dedicò molto del suo tempo a questa scelta, impiegando non solo il tempo per sé ma anche il tempo da condividere con noi. Devo confessare che all’inizio non avevo capito questa sua deduzione, poi con il tempo mi resi conto che la scelta di fare un lavoro di cura ha un orizzonte di riferimento che chiede di agire in un certo modo. Un modo che va compreso nel suo valore.”
Il lavoro di cura nella sua essenza chiede premura e dedizione all’altro. Quando l’altro mostra con evidenza la necessità di ricevere cura il caregiver sente inaggirabile la sua richiesta e si assume il compito della cura. Il rendersi disponibili alla responsabilità della cura chiede tempo e chiede energia. In certi casi l’energia richiesta è di una misura elevata, in questi casi i ritmi di vita del caregiver subiscono dei cambiamenti rilevanti. la cura al tempo del covid ha chiesto energia non solo al caregiver, ma anche ai familiari. Mentre i tempi di lavoro in ceti casi aumentavano fino al limite della sostenibilità, mentre il carico emotivo pesava nella mente secondo modi non mai sperimentati, la vita familiare subiva scossoni.
Con la pandemia cambia il modo della cura non solo nei reparti covid, ma in ogni contesto di azione:
o lavoro come infermiera in un reparto di oncologia, in un ospedale che oggi si definirebbe covid free. Non sono coinvolta in prima linea per l’assistenza dei pazienti covid e questo mi fa sentire privilegiata rispetto ai miei colleghi che si ritrovano a dover lavorare costantemente bardati per il rischio di contagio. Tuttavia si è modificato anche il nostro modo della cura. Devi mantenere l’attenzione sempre alta per cercare di tenere fuori il covid dal reparto. Anche la più piccola variazione nello stato del paziente, come un lieve raffreddore, deve essere attentamente valutata. Sapere di lavorare con pazienti immunodepressi con scarse difese immunitarie a causa dei trattamenti terapeutici cui sono sottoposti tiene continuamente in allerta poiché una tua disattenzione potrebbe metterli in pericolo.
Poiché si è consapevole che tutto quanto accade nel tempo libero può mettere a rischio il proprio stato di salute e di conseguenza quella dei malati con cui si entra in contatto, l’attenzione di controllo su quello che si fa assume quasi contorni ossessivi. Mi sono chiesta più volte se fosse giusto fare attività nel tempo libero che, seppur consentite dalla legge, mettono in contatto con molte persone. Avevo bisogno di stare con le persone cui sono legata ma vivevo questa necessità come un problema, e ogni decisione di incontro agitava un forte senso di colpa, che finiva per annullare il positivo che da quell’incontro mi aspettavo. Ho vissuto questo periodo in un continuo stato di conflitto interiore: da una parte penso che siamo persone non solo sanitari, con un bisogno insuperabile di incontrare gli altri e di avere qualche momento di piacere nella giornata, dall’altra penso che siamo prima di tutto sanitari e che questa scelta di lavoro sia una scelta di vita che in certi momenti impone scelte drastiche.
Sentire di non potere dare al paziente tutta la cura di cui ha necessità lascia segni nella mente del caregiver:
Per ogni paziente è di fondamentale importanza la vicinanza dei familiari. Adesso che le visite dei parenti sono bloccate, li ritrovi soli, spesso giù di morale, un po’ smarriti. Chi ha la fortuna di essere abituato alla tecnologia si aiuta con qualche videochiamata. Ma ci sono anche tanti pazienti più anziani che fanno fatica a mantenersi in contatto con i familiari, o per l’età o per le condizioni cliniche che non lo permettono. Se hai tempo (e purtroppo quello non basta mai) li aiuti a digitare un numero o avvicini il loro cellulare in modo che sia a portata di mano in caso di chiamata. Fai quello che puoi, ma sai che non è la stessa cosa.
Nelle nostre strutture sanitarie provate dalla pandemia il personale ha fatto esperienza della drammaticità conseguente al non potere erogare le cure necessarie. Se qualifichiamo la cura come una pratica che si concretizza in azioni finalizzate a procurare il suo ben-esser-ci, la postura dell’esserci che si profila essenziale per agire con cura è il sentirsi responsabili per l’altro, che si manifesta nella forma del “sentire di dovere fare qualcosa” (Noddings, 1984, p. 14). Questa postura etica dell’esserci prende forma quando il soggetto è capace di una dislocazione dello sguardo verso l’altro, che segnala il suo considerare l’altro come ente di valore cui va dedicata considerazione e riguardo. Quando la realtà dell’altro diventa qualcosa cui si sente di dovere la massima considerazione allora si crea la condizione etica per agire con cura. Ma quando risulta difficile trovare la terapia giusta e la vita del malato si spegne senza che si sia potuto fare tutto quanto è necessario, non si può non patire un senso di sconfitta. Quando non si è potuto garantire al malato il giusto conforto che solo i familiari possono dare non si può non sentire dentro l’avere mancato a qualcosa di essenziale.
Nelle situazioni di fine-vita può essere dato il permesso ad un familiare di accedere in reparto. Sulla base delle direttive aziendali, è l’equipe sanitaria che valuta caso per caso. Se consentite, quelle rare visite sono rigide e limitate. E io, infermiera di reparto, sono combattuta perché da un lato mi ritrovo a dover essere severa nel far rispettare l’orario di visita concesso, dall’altro, vorrei nascondermi la faccia quando è il momento di andare a dire alla madre, alla moglie o al figlio di un paziente che non può più restare e che ci pensiamo noi a lui. Devo rassicurarli. Ma io per un attimo mi immedesimo in quella madre, in quella moglie, in quel figlio che forse si domandano come possano da casa, far percepire la loro presenza ad un familiare al quale non è possibile fare una telefonata di conforto.
Il timore di non fare fatto quanto necessario può fare sentire inadeguati, può fare ritenere di non avere agito con giustezza: se questi vissuti si ripetono nel tempo un sentire pesante e opaco invade la mente. Qualcuno si sta occupando degli operatori sanitari? Noi siamo dunamis, termine questo dell’antico greca che significa potenzialità, potere di fare. Nella nostra essenza siamo enti che hanno la potenzialità di agire nel mondo. Ma per concretizzare il potere di fare qualcosa serve energia. Una energia che in molte situazioni occorre trovare da soli. Ma viene sempre il momento in cui abbiamo necessità a nostra volta di ricevere cura dall’atro, per ritrovare la forza e il ritmo giusto dell’agire. Un buon sistema sanitario si occupa dei caregiver offrendo loro contesti che aiutino a trovare i modi per avere cura di sé.
L’esperienza della pandemia da “covid-19” ha mostrato come, per affrontare un’emergenza complessa, che ha chiesto di rivoluzionare l’organizzazione dell’assistenza nelle strutture sanitarie, sia stato necessario reinterpretare l’azione di cura: un’attenzione più intensa al paziente, riducendo il tempo dedicato alle procedure burocratiche per ritornare al point of care, la necessità di personale capace di collaborare con gli altri componenti del team, e questo richiede capacità di fiducia nell’altro e di comprensione empatica del suo vissuto, un’interpretazione etica del lavoro di cura che porta a intensificare la premura per l’altro.
Dall’esperienza della pandemia possiamo ricavare indicazioni per trasformare radicalmente i servizi sanitari che, diventati aziende, hanno dimenticato il loro compito proprio, e dovrebbero ora ritrovare la loro missione che è propriamente il caring.
Cosa aspettarsi da una buona politica sanitaria? Promuovere una diversa formazione del personale sanitario; trasformare l’organizzazione degli ospedali in modo che a governare i processi siano i principi della cura e non mere logiche finanziarie. Il sistema sanitario, così come il sistema scolastico, è un bene sociale primario, pertanto richiede di essere strutturata al meglio. Non può essere gestito da una logica aziendalistica, ma da una politica della cura.
A caratterizzare una buona e giusta cura da parte del personale sanitario è innanzitutto la capacità di sviluppare una consapevolezza specifica rispetto a ogni situazione e di formulare una valutazione contestuale che non può essere articolata se ci si basa solo su principi generali. La complessità del lavoro terapeutico è connessa non solo al fatto che si è chiamati a far fronte alla sofferenza dell’altro, ma anche al peso della non sempre facile decidibilità su ciò che è meglio fare. Se da una parte è necessario possedere determinate abilità tecniche che rendono possibile mettere in atto una buona terapia, d’altra parte sono richieste capacità di pensiero riflessivo che consentono una comprensione profonda della situazione che ci si trova ad affrontare. Il curante capace di reale attenzione al malato avverte spesso come ogni caso sia unico, difficile da far rientrare nei protocolli stabiliti e, dunque, difficile da comprendere. Capita spesso di dovere prendere decisioni sulla base di intuizioni che dicono la realtà essere differente da quella prevista dai protocolli, senza tuttavia disporre di evidenze precise su cui fondare il giudizio; si tratta di decidere in condizioni di incertezza che richiedono un forte investimento non solo cognitivo ma anche emotivo. Da garantire è dunque una competenza sanitaria che si esprime non solo in termini applicativi, ma di pensiero generativo e critico.
L’esercizio del pensiero analitico e riflessivo, necessario a trovare una soluzione adatta al caso nella sua singolarità, chiede innanzitutto che si sappia coltivare attenzione nei confronti del paziente. Un’attenzione continua e sensibile nei confronti dell’altro consente di pervenire a quel livello di comprensione della situazione che rende possibile rispondere in modo adeguato ai bisogni del paziente. Rispetto al prevalere di un’interpretazione tecnologica della formazione va recuperato lo spazio per coltivare la sapienza clinica, che si esprime nella capacità di attenzione al linguaggio del corpo, alle emozioni che trapelano dai gesti, alle parole non dette per paura; è questa attenzione sensibile al modo di essere dell’altro che rende possibile costruire un ponte verso l’esperienza vissuta che il paziente ha della sua malattia. La stessa malattia è vissuta in modo diverso da pazienti diversi, perché il modo di viverla dipende dai significati che ciascuno attribuisce alla propria situazione e al modo in cui concettualizza se stesso in rapporto alla malattia. È solo a partire dalla comprensione dell’esperienza vissuta dal paziente che il curante può aiutarlo a non soccombere al senso di dipendenza e vulnerabilità e aiutarlo a recuperare il senso di integrità e la disponibilità ad una presenza attiva.
Anche l’ascolto è una forma di cura. L’ascolto capace di cura è quello attivo che si attualizza in un dialogo dalla valenza medicinale; può essere, infatti, necessario aiutare il paziente a rielaborare i significati attribuiti al proprio vissuto per uscire da situazioni emotive che ostacolano il processo terapeutico. Aiutare ad affrontare la malattia significa lavorare sulle interpretazioni che ciascuno costruisce della propria situazione.
In una visione del caring che considera inscindibili la cura del corpo e la cura della mente, la competenza dialogica assume un valore centrale, perché è il dialogo che dà inizio alla cura e che accompagna il processo di guarigione. Si tratta di essere capaci di una parola medicinale, quella che aiuta a ristrutturare l’orizzonte simbolico da cui il paziente interpreta la malattia, in modo che possa trovare la speranza in un futuro buono. Nella relazione dialogica il paziente si ritrova a essere soggetto e non più solo l’oggetto di azioni decise da altri e da questa posizione può attivare le sue risorse interne.
Stare in ascolto e pronunciare parole medicinali è una condizione necessaria per entrare in contatto con il paziente, che rappresenta la mossa inaugurale della relazione di cura. L’instaurarsi di una relazione accade quando l’intenzione del curante di comprendere l’esperienza vissuta dell’altro è non solo avvertita, ma anche da questi accolta con favore. Prestare attenzione e ascoltare significa non semplicemente essere lì occupandosi di qualcosa come previsto dal protocollo, ma essere presente all’altro rendendosi disponibile all’accadere di una connessione comunicativa.
Lo sviluppo della competenza di caring richiede che il curante, anziché interpretare il suo ruolo come quello di un tecnico che agisce sul corpo-oggetto, si pensi come soggetto responsabile per l’altro. Sentire la responsabilità di raggiungere una comprensione profonda dello stato del paziente, sia delle sue condizioni organiche sia del suo vissuto interiore, è necessario affinché il lavoro terapeutico da attività di cura impersonale in cui l’altro è solo uno dei tanti (è il modo dell’occuparsi) si trasformi in attività di buona cura (è il modo del preoccuparsi). Prestare attenzione sia alle parole che si pronunciano e al modo di pronunciarle, sia ai sentimenti che si lasciano trapelare.
La cura compassionevole è quella attenta e sensibile sia alla condizione organica sia al vissuto del malato. È importante non misinterpretare l’attenzione compassionevole nei termini del farsi carico del dolore del paziente, della sua sofferenza. Un continuo parlare a sproposito dell’empatia chiede ai caregiver di fare proprio il vissuto dell’altro, ma per chi svolge l’azione di cura sarebbe insostenibile sentire dentro di sé il dolore del malato, perché i malati di cui un professionista deve aver cura sono tanti, e insostenibile sarebbe l’esperienza di avvertire dentro di sé il dolore di ogni paziente. Portare aiuto a chi soffre deve accadere senza cadere nell’errore di ritenere che solo condividendo il dolore dell’altro si possa avere cura. Quello che è richiesto al curante è la capacità di profonda comprensione della situazione dell’altro, cosa questa che non richiede fusionalità emotiva, ma interpretazione lucida e profonda dell’essere dell’altro. Spesso è richiesto di dedicare tempo al paziente per comprendere ciò che da solo non riesce a esplicitare; in altri casi può essere sufficiente, ma essenziale, una presenza silenziosa e capace di attestare la propria disponibilità. Accade ad esempio quando, di fronte a una diagnosi di essere colpiti da una malattia cronica, l’angoscia invade la mente; il futuro si fa opaco e incerto, i pensieri si disordinano e le emozioni si accavallano. Prestare attenzione, ascoltare e interpretare con rigore e con premura sono gli imperativi del buon caring.
La vulnerabilità della condizione umana è conseguente al fatto che ciascuno di noi dipende da altri: da chi ci procura quanto è necessario a conservare la vita, da chi nutre il nostro pensare e il nostro sentire, da chi ci supporta nella realizzazione dei nostri desideri. Lo stato di dipendenza diventa critico nel tempo della malattia. Il malato è costretto a mettere se stesso nelle mani di altri, questo sentirsi privati di autonomia e di padronanza sulla propria vita può provocare una sofferenza insostenibile. Una buona cura è quella che non si limita a fornire la terapia necessaria, ma sa nutrire nell’altro la fiducia nell’azione di caring in cui è coinvolto. Il senso angoscioso della perdita della normale condizione di padronanza di sé è aggravato dall’organizzazione dell’istituzione sanitaria che tende a trattare il malato come un numero, un caso da rubricare nei protocolli. Uno sguardo attento da parte del curante può trasformare il vissuto del paziente dal sentirsi oggettivato, poiché vede la propria soggettività annullata dentro le categorie concettuali della scienza clinica, al sentirsi considerato dentro uno sguardo che tiene in conto il suo sentire che è unico e originale. C’è inoltre da considerare che le terapie sono sempre più mediate da tecnologie sofisticate e complesse rispetto alle quali il paziente può esperire un senso di alienazione e di ulteriore disempowerment, che aggrava il senso della propria vulnerabilità.
Oggi gli investimenti nel mondo della sanità riguardano innanzitutto le tecnologie che devono essere le più avanzate possibili; certamente le innovazioni tecnologiche garantiscono un miglioramento delle cure offerte, ma la salute non è solo funzione della tecnologia poiché necessita anche di una buona cura. Una presenza competente presso la sofferenza richiede che si sappia stare con intensa attenzione sull’altro, capaci di tenere presenti nella propria mente la situazione del malato non solo nel suo corpo ma anche nella sua mente.
Il lavoro di cura è un lavoro faticoso. Frequenti sono i casi di super affaticamento fisico, ma anche di un burn-out emotivo, nonché di quel vissuto che viene definito come “moral distress”. Nelle relazioni asimmetriche si tende a vedere chi-riceve-cura come il solo soggetto vulnerabile: nella relazione materna il bambino è vulnerabile alle disattenzioni della madre e alla sua eventuale incapacità di proteggerlo; il paziente è vulnerabile poiché non è autonomo ed è dipendente dalle decisioni dell’équipe terapeutica; lo studente è vulnerabile perché sottoposto al potere dell’insegnante. In realtà anche chi-ha-cura è vulnerabile: l’impegno a offrire la migliore cura possibile consuma le energie mentali, sia cognitive sia emotive.
La vulnerabilità del caregiver diventa ancora più intensa quando si trova ad assumere il compito di una cura che non può guarire l’altro, situazione questa vissuta da molti medici e infermieri soprattutto all’inizio della pandemia. In queste situazioni al caregiver è chiesto di fare tutto il possibile per guarire il malato, ma poi quando la vita viene meno al caregiver viene chiesto il difficile lavoro interiore di sapere accettare il proprio non-potere conservare la vita dell’altro, che è l’imperativo proprio del caring. Accettare la propria impotenza e trovare le energie per ricominciare il lavoro di cura con il timore che l’irreparabile torni ad accadere.
Per ridurre i rischi di burn-out e sostenere i caregiver, le strutture sanitarie dovrebbero prevedere esperienze compensative ed esperienze formative finalizzate alla cura di sé. Si possono prevedere regolarmente semplici “gruppi di parola” nei quali gli operatori possono condividere i vissuti problematici e le difficoltà incontrate; non semplici luoghi di espressione, ma momenti istituzionalmente rilevanti per raccogliere dati utili ad intervenire sull’organizzazione del lavoro. Sarebbe importante prevedere anche, per chi lo ritiene necessario, percorsi di cura di sé, intesi a promuovere lo sviluppo dell’autocomprensione sia etica sia emotiva.
La possibilità per i malati di sperimentare una buona cura da parte del personale sanitario passa attraverso una nuova cultura nella gestione dei luoghi di cura, che porti le istituzioni a ridefinire il concetto di “servizio eccellente nella cura” che possono offrire. Da rimettere al centro è la seguente domanda: cosa significa offrire una buona cura? Come garantire ai caregiver una buona formazione e poi nel tempo un continuo supporto che li metta in condizione di offrire le migliori cure possibili? Non dunque una domanda aziendalistica, ma una domanda etica.
Molte sono le riflessioni cui obbliga l’esperienza della cura nel tempo della pandemia: (a) iniziare a decostruire certe narrazioni sulla vita sociale che non dicono l’essenza di quanto capita in certi contesti: non dunque impera l’individualismo; (b) ripensare al nucleo vitale dell’agire della cura che consiste nel sentirsi responsabili.
Il nostro tempo viene considerato essere caratterizzato da un forte individualismo. A dominare sarebbe la tendenza a preoccuparsi essenzialmente del proprio spazio vitale, considerando come indice di autenticazione dell’esistenza una condizione di libertà intesa come alleggerimento da ogni vincolo (Benner and Wrubel, 1989, p. 2). Ci sarebbe poca disponibilità alla responsabilità per gli altri e alla cura perché l’orientamento prevalente nella nostra società sarebbe fondamentalmente narcisistico. In luogo di quell’atteggiamento etico che è l’attenzione per l’altro prevarrebbe l’amore di sé che è kantianamente il contrario dell’etica.
L’individualismo, che porta a vedere il proprio sé indipendente dagli altri e quindi a non considerarsi come parte di una rete estesa di relazioni sociali e biologiche, si manifesta in una progettualità esistenziale tutta concentrata sul sé rispetto a cui gli altri restano mere comparse (Taylor, 1991, p. 4). Fra le perdite che l’individualismo si porta appresso viene individuato il venir meno dei grandi ideali, delle passioni; ma, innanzitutto, l’ethos della centratura su di sé comporta una svalutazione di tutti quei modi di essere che sono attenti alla relazione con l’altro, perché visti impoverenti il progetto di autorealizzazione del sé (Taylor, 1991, p. 4). L’individualismo che permea la visione della modernità «ci ha abituati a credere di credere di poter trovare in sé la completezza del proprio esserci (Zambrano, 2001, p. 260). Uno sguardo sulla fenomenicità relazionale del nostro tempo rivela una diffusa incapacità di sentire il legame emotivo con l’altro e di conseguenza di coltivare quella premura per l’altro che è la condizione per costruire mondi relazionali condivisi. A dominare sarebbe uno spirito edonista e narcisista, che attualizza un’autoreferenzialità esistenziale entro la quale il soggetto si percepirebbe libero da vincoli.
Molti dati confermano questa tesi, perché molti sono i fatti che attestano incuranza per l’altro, indifferenza, se non addirittura emarginazione e violenza. Nella vita quotidiana – al lavoro, per le strade, nelle istituzioni, nei servizi – spesso sperimentiamo un eccesso dell’amore di sé e di indifferenza per l’altro.
Però a fronte di quegli argomenti tesi a evidenziare tutto il grigio del nostro tempo due sono le considerazioni da fare. Innanzitutto l’individualismo esasperato e il narcisismo non sono una caratteristica solo della contemporaneità, come se oggi fosse un tempo degenerato che non ha precedenti; affrontare la realtà da questa prospettiva significa assumere uno schema interpretativo distorto. Plutarco (I sec. d.C.) scriveva che ai suoi tempi la causa principale di quella che si può definire una cattiva cultura del vivere era «il cieco amore di se stessi che rende desiderosi di primeggiare in ogni circostanza, di essere vincenti e di voler acquisire di tutto senza sazietà. (Perché) non pretendono soltanto di essere ricchi, eloquenti, forti, capaci di stare nei simposi, simpatici, amici dei re e dei governatori, ma si disperano se non hanno anche cani, cavalli, quaglie e galli da primo premio» (Serenità dell’anima, 12B). Inoltre è da considerare che il negativo, che c’era nei tempi passati e che c’è oggi, è sempre mescolato al positivo: così è da sempre. È sempre pericoloso vedere la realtà solo attraverso un solo tipo di lente. Se questo modo monocromatico di guardare alle cose fosse adatto a rivelare lo spirito dei tempi in generale allora la cultura della cura non troverebbe nessun campo in cui crescere, parlare di cura sarebbe come gettare i semi di grano su un terreno asfaltato.
La pandemia ha reso evidente il valore delle pratiche di cura e che dove c’è cura non c’è individualismo ma solidarietà.
È necessario vedere il positivo che l’agire con cura porta nel mondo, perché senza cura nessuna cultura sopravvivrebbe. È necessario andare a cercare testimonianza di quella che si può definire una “buona cura”, perché è da lì, dal positivo che c’è, che si può costruire una buona politica dell’esistenza. È un dovere di chi compie analisi del fattuale dire le cose come stanno senza lasciare che lo sguardo sia condizionato da precomprensioni.
Qui riporto brevemente solo una delle tante testimonianze raccolte nell’ambito di una ricerca narrativa che ha coinvolto molte infermiere e infermieri: in questo caso a raccontare è una caposala:
Mi ricordo il caso di W., di nemmeno 40 anni, affetto da melanoma in fase terminale. Una notte il gruppo degli infermieri che mi aveva preceduto nel turno ha cercato di fare il possibile per ridurre il dolore. Poiché l’infermiere non ha autonomia decisionale un sacco di volte è stato chiamato il medico perché non si riusciva a ridurre il dolore con niente; ogni medicinale fra quelli previsti era stato somministrato, ma era come dare acqua, neppure la somministrazione di morfina riusciva a rendere la sofferenza almeno sostenibile (…) era stata una notte particolarmente brutta. La mattina dopo, quando ho ricevuto le consegne e ho sentito il racconto di quanto accaduto, mi aveva preso una forte ansia. Capivo che dovevo fare qualcosa, che non potevo continuare ad accettare passivamente che una persona soffrisse così tanto. Così ho riferito al medico chiedendo un incontro di équipe per modificare la terapia. Ma come temevo il medico ha sottovalutato la situazione di cui avevo riferito. A quel punto non ce l’ho fatta più e ho deciso di prendermi tutto il coraggio possibile e sono scoppiata: ho manifestato in modo molto forte il mio disappunto verso la situazione e come era gestita, con rabbia, ho chiarito la posizione di noi infermieri, ho raccontato con emozione tanti attimi vissuti al letto di quel povero paziente, vissuti da me e dai miei colleghi. Lo scontro è stato durissimo, sapevo che da quel momento le relazioni con il medico non sarebbero più state facili, ma era necessario fare quello che ho fatto.
Ciò che è importante è che alla fine i medici hanno accettato di fare quanto noi infermieri chiedevamo: hanno chiesto una consulenza e a seguito di questa è stata introdotta una terapia del dolore adatta (…) e con quella terapia almeno per 3 o 4 ore riusciva a riposare. Ho notato che da allora anche i familiari erano molto più sereni …. E i medici non possono dire: “Più di così non possiamo”…o “Abbiamo paura”… Perché se voi medici avete paura cosa dovrebbe dire il paziente? O noi infermieri che stiamo vicini al dolore tutto il giorno?
(…) Quando sei lì con lui e piange, ti stringe la mano e ti chiede aiuto, e questo succede continuamente perché il dolore non molla la presa … non è facile. (…) In un modo o nell’altro bisogna risolvere. Bisogna prendersi a cuore la cosa in prima persona, e così ho sentito di dover fare, anche se sapevo che avrei dovuto sopportare una forte situazione conflittuale.
Siamo nel 2000, con tutti i farmaci a disposizione mi sembrava disumano lasciar soffrire un paziente in quelle condizioni senza aver tentato tutte le strade possibili. Le possibilità a volte ci sono, manca l’umiltà di cercare ciò che è meglio.
Il racconto documenta un’esperienza difficile, quella di un malato graffiato da una sofferenza insostenibile, quella sofferenza che fa desiderare il venir meno di ogni capacità di sentire fino a toccare l’insensibilità del nulla. Ma di fronte a questa sofferenza c’è chi attesta un esempio di buona cura. Quello che sa fare questa infermiera è saper trattare adeguatamente l’altro. L’infermiera non si limita a occuparsi del paziente così come le viene chiesto, somministrando le terapie previste, ma di lui si preoccupa e se ne prende cura. La fenomenologia dell’atto di cura rivela che, proprio perché sente il dolore del paziente, decide che deve assumersi la responsabilità di un atto coraggioso: confrontarsi con chi ha l’autorità di decidere la terapia e mettere in discussione le sue scelte.
Si tratta di un caso autentico di parresia, cioè del dire come stanno veramente le cose trovandosi a parlare in una posizione di svantaggio rispetto al proprio interlocutore. In questo caso il gesto della parresia è un gesto di cura perché innesca un processo di trasformazione delle cose. Si è capaci di parresia quando il proprio esserci ha optato per una postura responsabile nei confronti dell’altro. Questo non significa che il caregiver decida di essere coraggioso come risposta a un dover essere che si esprime nella forma del sottostare a imperativi categorici formalmente codificati, il lavoro di cura evidenzia che si è capaci del coraggio della parresia quando si sta in una relazione responsabile col reale. Come spiegano Patricia Benner e Judith Wrubel (1989, p. 4), si agisce con coraggio perché si sente che non c’è altra opzione compatibile col bisogno di cura dell’altro.
Alla radice di questo modo di essere c’è la capacità di sentire la condizione dell’altro, il lasciarsi toccare – non contagiare ma toccare – dalla sofferenza, e anziché scansare l’esperienza del dolore dell’altro perché troppo forte, fare di questo sentire la spinta ad agire con cura. Agisco per l’altro quando so sentire l’altro, quando non mi limito a vedere il suo volto, ma sento la qualità del suo vissuto.
Su questa capacità di sentire il sentire dell’altro, che viene definita empatia, i discorsi ormai sono molti ed è necessario segnalare un modo di interpretarla che è discutibile, quello che considera l’empatia come il mettere se stessi nella situazione dell’altro. Se chi opera nel mondo della cura della salute fosse chiamato per agire con cura a sentire in modo originario tutto il dolore dell’altro, verrebbe schiacciato e si troverebbe a non avere più un briciolo della forza vitale necessaria per agire. Il co-sentire non è immersione nell’altro, ma sensibile comprensione della qualità del suo vissuto.
Proprio a proposito della compassione, Plutarco dice rivolto a Faccio (destinatario del testo): «bisogna avere cura delle cose cattive senza dolore» nel senso di non prendere parte al dolore (Plutarco, Sulla serenità dell’anima. 6D). Sentire l’altro sì, ma allo stesso tempo mantenere una forma di distanza, quella data dal pensare riflessivo che è mosso dall’intenzione di stare nelle cose con giusta misura (6E). Il modo di esserci richiesto per stare in una relazione di cura non è uno stato di fusione con l’altro – dove la stessa relazione verrebbe meno – ma l’«essere in contatto» (Lévinas, 1991, p. 107). Essere in contatto con l’altro non significa né investire l’altro del proprio modo di pensare e di sentire, né cercare di «sopprimermi nell’altro», ma essere presente e fare sentire la propria presenza, ma con riguardo per l’altro, cioè senza invadere il suo spazio vitale, ma anche senza annullarmi nel suo essere, poiché in tal caso non sarei di aiuto alcuno.
Proprio perché il sentirsi responsabili per l’altro è postura essenziale dell’agire con cura, si rende necessario prendere in esame questo modo etico di stare nel mondo per capire da dove prende forma.
Lévinas ci introduce verso una concettualizzazione che scombina il modo ordinario di intendere la responsabilità, cioè quello che la concepisce come un modo di essere che segue una riflessione e una decisione. Per Lévinas la responsabilità per altri «è un debito contratto prima di ogni libertà, prima di ogni coscienza, prima di ogni presente» (1991, p. 16), è un dovere cui ciascuno si trova ad essere obbligato senza averlo deciso, è come se «si fosse furtivamente introdotto nella mia coscienza, come di contrabbando, un certo comando» (1991, p. 17); ma – aggiunge Lévinas - poiché è estraneo e contraddittorio rispetto al concetto stesso di coscienza che in essa agisca qualcosa che non sia stato oggetto di una consapevole riflessione, allora il fatto che il soggetto agisca sottoposto a un obbligo non scelto «attesta chiaramente che non siamo più nell’ordine della coscienza. (…) Come se il primo movimento della responsabilità non potesse consistere né nell’attendere né nell’accogliere l’ordine (questa sarebbe ancora quasi attività), ma nell’obbedire a esso prima che si formuli; o come se si formulasse prima di ogni presente possibile, in un passato che si mostra nel presente dell’obbedienza senza essere ricordato» (1991, p. 17).
Difficile per chi è cresciuto dentro una cultura che molto ha investito nella forza della ragione accettare che a muovere il nostro esserci sia qualcosa che viene prima della coscienza e che per quanto attiene alla postura etica della responsabilità ad agire sia un comando che si situa fuori dal campo di azione del ragionamento. Fatico ad accettare questa visione, forse perché implica il riconoscere un aspetto della debolezza della condizione umana che il razionalismo ci aveva aiutato a mettere tra parentesi. Tuttavia, l’etica della ricerca mi impone di ascoltare questa visione ed è tentando di stare dentro questo modo di pensare al reale che il pensiero va alle riflessioni di Maria Zambrano.
Zambrano ci invita a considerare che la realtà non è solo quella che la ragione riesce a captare e analizzare, ma c’è dell’altro «che rimane indefinibile e impercettibile, ... che circonda la coscienza, facendola risaltare come isola di luce in mezzo alle tenebre» (2001, p. 173). Il razionalismo ci ha abituati a credere che «la ragione penetra tutto» (2001, p. 173) e che di conseguenza il nostro agire possa essere nutrito sempre da atti razionali, da deliberazioni meditatamente definite. E così ci siamo costruiti una visione distorta della condizione umana governata da una coscienza la cui “chiarezza lunare” (2001, p. 174) sarebbe in grado di penetrare in ogni fessura del reale. Chiusi dentro questo sguardo razionalistico si fatica a vedere che nel reale c’è dell’invisibile «che non si vede e che non si fa vedere» (2001, p. 175) e che però capita agisca sul nostro esserci in una maniera viva e intima. Quello che vediamo e di cui riusciamo ad avere consapevolezza non è tutto quello che c’è, non esaurisce tutta la realtà, perché c’è dell’altro, e questo altro segue modi non razionalizzati di entrare in contatto col nostro essere.
Forse è vero che non siamo soltanto soggetti della conoscenza circondati da un mondo che solo a volerlo può rientrare nell’orizzonte del pensiero analitico. Forse è vero che nella lucida vita della coscienza non ci sta tutto, ci può essere dell’altro che rimane estraneo a ogni tentativo di razionalizzazione. Ma forse oltre al ragionamento logico così come per tradizione lo concepiamo c’è dell’altro. C’è un pensare che, usando un pensiero di Plotino, non è un pensare; un pensare, semplice ed essenziale che fonda le nostre scelte. Non posso non pensare qui a una risposta che, nel contesto di una ricerca sulle pratiche di cura, mi veniva data quando chiedevo ragione di certe forme coraggiose e intense dell’aver cura per l’altro: si fa perché si deve, mi dicevano, a volte guardandomi con uno sguardo incuriosito dalla mia domanda come se di essa non si capisse la ragione stessa di porla. Questa stessa risposta ho poi trovato essere stata registrata anche da Patricia Benner e Judith Wrubel nel campo della cura infermieristica. Queste due ricercatrici spiegano che quando a una persona che ha messo in atto azioni di buona cura, le quali sembrano richiedere decisioni che viste dall’esterno risultano difficili da prendere e implicare complesse valutazioni della situazione, si chiede di spiegare il suo agire, generalmente risponde: »Ho fatto quello che si doveva fare» (Benner and Wrubel, 1989, p. 4).
I racconti di esperienze di cura raccolti nel tempo rivelano che in certi momenti ad agire è un logos, cioè un modo del pensare non ordinario, un pensare che non calcola, un pensare quasi passivo perché di fronte al bisogno di cura reagisce con immediatezza. In questi casi ogni richiesta di spiegare le ragioni sottese all’agire sono percepite in genere dal caregiver come fuori luogo. Eppure, anche se il logos della cura risulta atipico rispetto al logos calcolante dominante, mi risulta difficile pensare che qualcosa di così importante per la vita – il senso di responsabilità per l’altro che muove il nostro esserci all’aver cura – rimanga completamente estraneo all’atto coscienziale della ragione. Forse c’è dell’altro. La stessa Zambrano si mostra disposta a riconoscere che pur in questo nostro essere soggetti passivi di fronte ad una realtà che deborda rispetto a ogni sforzo razionalizzante, tuttavia questo non significa che non ci sia un soggetto che decide (2001, p. 180). Forse il sentirsi responsabili per l’altro e il saper tradurre questo sentirsi in un’azione efficace è un modo di essere che può essere coltivato, e in questo ci può aiutare la teoria socratica secondo la quale l’agire secondo virtù richiede una certa forma di educazione del pensiero. In questo specifico caso si può ipotizzare che l’emergere di un senso di responsabilità per l’altro, che si traduce in un agire capace di introdurre modificazioni nel reale, sta in una relazione essenziale con un certo modo di pensare l’altro. La tesi che qui s’intende sostenere è che l’entrare in contatto con l’altro, sentire la qualità del suo vissuto e da qui decidere il modo giusto di trattarlo dipende dal modo di concettualizzare la condizione dell’altro: pensare l’altro sempre e comunque un essere del massimo valore perché nell’essere sempre c’è del sacro.
Non è indifferente pensare al paziente come a un corpo malato che per essere curato non richiede niente di più che la somministrazione di una certa terapia o pensare il paziente come una persona la cui condizione di sofferenza riguarda non solo il corpo ma anche l’anima. Chi sa avere giusta cura dell’altro pensa che il malato che ha di fronte è una persona. Non è una sostanza immateriale che nulla sente in modo sensibile, neppure è solo un corpo, ma è un corpo con la sua anima, un corpo che “respira la sua essenza in modo spirituale» (Stein, 1999, p. 386).
Questo ha da tenere nel pensiero chiunque si occupi della salute delle persone: il malato sente nell’anima la sua condizione corporea. La vita spirituale, in quanto affondata nella struttura materiale, si nutre dell’energia del corpo, e proprio in quanto si nutre del corpo di questo patisce e assorbe la sua sofferenza. Ciascuno di noi è un «tutto, composto di corpo vivente e anima» (Stein, 1999, p. 389). Non ci sono due sostanze distinte, il corpo e l’anima, che semplicemente starebbero l’una accanto all’altra, ma c’è il corpo animato di vita spirituale e l’anima incarnata in un corpo. Guardare il paziente attraverso questa lente visiva produce l’effetto di sentire che il dolore che avverti afferrare il suo corpo penetra anche nell’anima: è questo tipo di sentire che non può lasciare indifferenti e ci fa comprendere l’ineludibilità dell’assumersi quello che è nella nostra responsabilità di fare per l’altro.
È su questi argomenti che si può formulare la tesi secondo la quale la formazione alla cura deve poggiare su una forma di alfabetizzazione ontologica, qui intesa come riflessione sulla qualità della condizione umana, per ragionare sul suo essere ontologicamente debole e sul fatto che questa qualità dell’essere ci riguarda tutti: l’altro che ci chiama perché ha bisogno di cura e noi che rispondiamo con tutta la nostra fragilità e vulnerabilità del nostro stare con gli altri. Questa alfabetizzazione ontologica però, pur essenziale, non basta: il vedere chiaro non è sufficiente a smuovere l’esserci. Ci vuole anche passione, passione per il bene, essere appassionati per la vita buona. Sapere e sentire che il nostro ben-esser-ci non è disgiunto dall’altro e che la condizione dell’altro ci riguarda e che quindi il suo benessere riguarda anche noi. Forse sta qua il nodo di una possibilità di educare alla cura.
(Nota 1) È da precisare che l’essere umano non è solo un essere-con-gli-altri, ma è allo stesso tempo un essere-nel mondo delle cose. Heidegger interpreta la cura delle cose e la cura degli altri come due fenomeni che, in quanto diversi, vanno nominati diversamente: il rapporto con l’ambiente delle cose utilizzabili viene definito come “prendersi cura” (1976, p. 156), mentre il rapporto con gli altri, in quanto anch’essi aventi la qualità ontologica del con-essere, non può essere concettualizzato come un prendersi cura, ma va definito come un “aver cura” (1976, p. 157). Da ciò consegue che ragionare di cura in una cornice heideggeriana obbliga quando si pensa alla cura intenzionata verso gli altri esseri umani a parlare di “aver cura” e non del “prendersi cura”.
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