40 anni di storia e di lotta (1958-1998)
I CITTADINI GROSSETANI DAL MANICOMIO ALLA COMUNITÀ
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L’articolo è ricavato dall’intervento tenuto al convegno “I 200 anni del San Niccolò e i 40 anni della legge 180: La salute mentale tra storia e innovazione”, svoltosi a Siena il 9 novembre 2018. Esso traccia 40 anni di storia dal 1958 al 1998 della psichiatria grossetana, dalla fondazione del Centro di Igiene Mentale alle dimissioni degli ultimi cittadini grossetani lungodegenti dal Ospedale Psichiatrico di Siena. La vicenda è inserita nel decorso storico-epidemiologico del manicomialismo su scala planetaria ed italiana. Vengono presentati i dati epidemiologici della de-istituzionalizzazione, che dimostrano la specificità del “caso grossetano”, in particolare essi non ricalcano l’andamento tipico del noto fenomeno della “doppia croce”. Vengono individuate le cause di questa specificità. Da ultimo l’articolo sostiene la necessità di una nuova de-istituzionalizzazione e indica gli ingredienti attivi e la struttura di un “nuovo servizio di salute mentale”, inteso come istituzione diffusa nella rete sociale.
The article is taken from the speech held at the conference "The 200 years of San Niccolò and the 40 years of law 180: The mental health between history and innovation", held in Siena on November 9, 2018. It traces 40 years of history since 1958 to 1998 of the Grosseto psychiatry, from the foundation of the Mental Hygiene Center to the hospital discharge of the last long-term Grosseto citizens from the Psychiatric Hospital of Siena. The story is included in the historical-epidemiological course of mental hospitalization on a planetary and Italian scale. Epidemiological data of de-institutionalization are presented, which demonstrate the specificity of the "Grosseto case", in particular they do not follow the typical pattern of the well-known "double cross" phenomenon. The causes of this specificity are identified. Finally the article supports the need for a new de-institutionalization and indicates the active ingredients and the structure of a "new mental health service", understood as a widespread institution in the social network.
"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono essere sedotte ed oscurate: anche le nostre."
Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986
La storia del processo di de-istituzionalizzazione dei cittadini grossetani dal manicomio San Niccolò di Siena ha un esordio precoce con la fondazione del Centro di Igiene Mentale, che è uno dei primi istituiti in Italia nell’ambito del movimento dell’igiene mentale italiano da Luciano Mazzanti, che si era da poco specializzato alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali alla scuola di Pintus, uno dei principali esponenti di quel movimento. Apre il 1° gennaio 1958, dopo una precedente sperimentazione dell’Amministrazione Provinciale di Grosseto in regime di convenzione con lo studio privato dello stesso Mazzanti e in rapporto con le prime esperienze italiane (Livorno, Roma) (1, pp. 119-125). La sua nascita data significativamente 10 anni prima dell’entrata in vigore della legge che istituisce i CIM (Legge Mariotti, 1968, dal nome del ministro socialista della sanità).Fin dal primo atto di esordio della psichiatria grossetana si costituisce un rapporto culturale e politico tra i tecnici e gli amministratori del settore, prevalentemente di area socialista, che caratterizzerà i momenti salienti dell’intera storia, esprimendo in questo una specifica sensibilità e un interesse precipuo (ivi, pp. 77-79).
La piccola storia “psichiatrica” della Provincia grossetana, ritenuta una delle più depresse d’Italia, in controtendenza con la storia locale segnata dall’arretratezza, si deve inserire in quella planetaria, che prende le mosse dalla fine del secondo conflitto mondiale.Come è noto il manicomio nasce con l’età moderna, dall’epoca del Grande internamento (2, pp. 67-112), e risponde alla necessità di una controllo più stretto della forza lavoro. Questo ha un suo segno nella poor low (1575) di Elisabetta I d’Inghilterra, ilpaese che primo sul pianeta avviò la rivoluzione industriale, e si diffonde in tutta Europa (ivi, p. 78). All’industria moderna rispetto alla precedente economia prevalentemente agricola è molto più necessario poter contare su una massa di lavoratori concentrata con sicurezza in un punto, così quella variegata congerie di vagabondi, pellegrini, debitori, poveri si trovò internata nel “cerchio magico” che in epoca medioevale era toccato alla lebbra (3, p. 43). Dunque il manicomio è un’istituzione della modernità, che si è sviluppato in tutto il mondo seguendo l’espansione planetaria del modello di vita industriale. Così come si è espanso, ha cominciato a declinare dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando “lo sviluppo sociale richiede l’eliminazione di metodi e trattamenti psichiatrici repressivi, dal momento che … assomigliavano troppo a quei trattamenti e a quelle idee contro le quali la maggioranza dell’umanità aveva lottato durante la guerra. I malati mentali erano stati … le prime vittime del nazismo”(4, p. 17).Circa 600.000 malati di mente tedeschi furono sterminati nei lager nazisti. Esempio di questa temperie è il film americano del 1949, intitolato La fossa dei serpenti, espressione passata nel linguaggio comune per indicare la situazione dei reparti manicomiali. Il film era tratto da un libro di denuncia di una ricoverata in Ospedale Psichiatrico.
Tale declino non è una posizione ideologica, ma è un dato statistico. Dal punto di vista epidemiologico tale evoluzione viene definita come fenomeno della “unica croce” così riportato da Domenico De Salvia (5, p. 152): “Negli Stati Uniti accanto a un calo lento dei presenti si assiste a una sostanziale stabilizzazione dei ricoveri a livelli comunque abbastanza elevati”. Di conseguenza le due curve statistiche negli anni Settanta del secolo scorso si incrociano (fig.1) con il lento declino dei lungodegenti e il progressivo aumento dei ricoverati, che quindi entrano ed escono dall’Ospedale Psichiatrico come da quello Generale con un elevato turn-over (in gergo epidemiologico si parla di revolving door). In Italia questo andamento assume lo specifico aspetto della “doppia croce” (5, pp. 151-152) perché le due curve si incrociano due volte: la prima negli anni Settanta analogamente a quanto era avvenuto negli USA e poi una seconda volta con un brusco calo delle ammissioni in OP negli 1980-81 dovuto alla chiusura degli accessi manicomiali imposto dalla legge di riforma dell’assistenza psichiatrica n. 180/1978 (fig. 2). De Salvia descrive tre fasi nel decorso del manicomialismo italiano: prima fase (1950-1965), caratterizzata dalla crescita manicomialelineare: “il vecchio manicomio assume un volto ospedaliero”; seconda fase (1965-1975) con il declino progressivo del manicomialismo legato alla già citata legge “Mariotti”; terza fase(1975-1982), in cui “la legge 180 ha soltanto accelerato un processo di de-manicomializzazione già in atto, in Italia”.
Dal rapporto regionale sui lungodegenti nei manicomi toscani del 1993 risulta l’andamento diseguale del processo di dimissione nei vari OP delle province toscane (6, pp. 119-124). Come si può osservare dalla tabella (fig. 3) a 15 anni dalla promulgazione della legge 180, quando il Progetto Obbiettivo Nazionale del 1992 prendeva finalmente atto della irreversibilità del processo di svuotamento dei manicomi, in Toscana, che pure era una delle regioni virtuose nel campo, c’erano ancora 1032 lungodegenti dei 3930 rilevati nel 1978. Mentre l’OP di Arezzo ospitava solo 53 lungodegenti (fu il primo manicomio a chiudere in Toscana nel 1994), il San Niccolò di Siena era il fanalino di coda con 344 lungodegenti ancora presenti. Giocavano in questo ritardo varie ragioni, prima della quali il fatto che esso dipendeva un’”opera pia”, la Società delle pie disposizioni, un’antica istituzione caritativa di fatto privata, fortemente radicata nelle tradizioni senesi. A ciò si deve aggiungere un sostanziale “arroccamento” dei tecnici operanti nell’OP senese: non a caso per portare a termine il processo di dimissioni fu necessario alla fine degli anni Novanta, quando la chiusura definitiva degli OP fu sancita dalla legge finanziaria, nominare una sorta di “commissario”, un responsabile che veniva da “fuori” Siena, appunto dall’esperienza di de-istituzionalizzazione di Arezzo.La medesima fonte (fig. 4) ci rende conto dello stesso fenomeno, cioè della diversa “velocità” del processo di superamento dei manicomi toscani: in base al “decremento percentuale dei presenti” il San Niccolò è ancora il più lento insieme all’OP di Pistoia.
Vengono riportati i risultati di una ricerca condotta alla fine del processo di de-istituzionalizzazione dei cittadini grossetani dall’OP di Siena e presentati al terzo congresso nazionale della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica del novembre 1997 (7, p. 21). I dati attestano che “è stata una lunga ‘lotta’, in cui le fasi iniziali e finali hanno avuto una direzione centralizzata”. Metodologicamente è stato “valutato longitudinalmente il movimento dei degenti in OP attraverso i dati assoluti … riferiti alla popolazione adulta (paragonando presenze, ammissioni, dimissioni, decessi, ...), utilizzando i dati in possesso del DSM” di Grosseto, confrontati con quelli dell’archivio storico delle cartelle del San Niccolò.
I dati assoluti relativi alle presenze dei cittadini grossetani all’OP di Siena dal 1960 al 1998 (il 30 giugno 1998 era la data prevista dalla legge finanziaria dello stato per ultimare il processo di dimissione)registrano (fig. 5) che il picco massimo venne raggiunto nel 1965 con 448 presenze per poi rapidamente decrescere fino ai primi anni Ottanta (147 persone presenti). In questa prima fase le dimissioni dall’OP sono l’obbiettivo principale del CIM dell’Amministrazione Provinciale di Grosseto, passato dalla direzione di Mazzanti a quello di Marta Marri. Successivamente si ha una stasi con un lento declino fino agli anni Novanta (126 persone presenti), che corrisponde alla fase di costruzione delle piccole Unità Sanitarie Locali previste dai Piani sanitari regionali dell’epoca, che stentano ad assumere la competenza della de-istituzionalizzazione con una costruzione diversificata di alternative comunitarie. Tale processo prosegue di fatto solo nella zona della città di Grosseto e dei comuni della sua cintura, il cui servizio è diretto da Marta Marri. Il percorso riprende con una rapidità maggiore dalla fine degli anni Novanta fino al suo temine, quando la direzione ritorna ad essere centralizzata con l’accorpamento delle USL in un’unica Azienda Sanitaria a bacino provinciale, nell’abito della quale le competenze della salute mentale sono ricondotte ad un unico Dipartimento. La direzione del Dipartimento torna all’antico direttore del CIM, Marta Marri. Il lavoro di de-istituzionalizzazione sarà completato nel 1998 con lo specifico progetto della ASL 9 di Grosseto degli ultimi 55 cittadini grossetani lungodegenti al San Niccolò di Siena dall’autore di questo articolo, che nel frattempo aveva assunto la direzione del DSM. Quindi “vi sono stati migliori risultati (anche rilevabili con maggior certezza) con un’unica direzione centralizzata del processo” (7).
Vi è una ulteriore serie di dati significativa (fig. 6), che, ricostruendo la storia di 40 anni del processo di de-istituzionalizzazione dei cittadini grossetani dall’OP di Siena,non ricalca il fenomeno della “doppia croce” già analizzata per il “caso italiano” su scala nazionale. Paragonando i valori assoluti dei cittadini grossetanipresenti dal 1968 al 1981, quando si chiude la deroga al ricovero in OP dei lungodegenti dimessi dopo l’emanazione della 180, con quelli delle dimissioni, dei ricoveri e dei decessi, non si determina né il fenomeno della “unica croce”, né quello della “doppia croce”. Se ne deduce che siamo di fronte ad un andamento specifico del percorso di de-istituzionalizzazione dei cittadini grossetani dal San Niccolò, cioè nei 13 anni presi in esame ci troviamo di fronte ad una ospedalizzazione psichiatrica più modesta. Ciò è dovuto a diversi fattori, che vengono elencati di seguitoe possono essere ritrovati nella descrizione di Matteo Fiorani (1):
- la nascita precoce del C.I.M. (1958);
- la nascita del reparto di Neurologia in Ospedale Civile (1968), di cui diventò primario lo stesso Mazzanti, aperto alle degenze psichiatriche (200/250 per anno negli anni Settanta) e individuato dalla Regione Toscana come sede di riferimento per ricoveri psichiatrici nella prima applicazione della 180;
- il rifiuto di costruire un nuovo “piccolo” OP locale (1973), da parte dello stesso gruppo di operatori e amministratori che aveva avviato il processo di riassetto dei servizi psichiatrici della provincia di Grosseto, con il limite di non essere riusciti a trasformare il finanziamento ottenuto (300 milioni di lire) per la costruzione dell’OP in un investimento per lo sviluppo dei servizi territoriali dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta, come era stato programmato;
- la già citata direzione centralizzata del processo di de-istituzionalizzazione.
Il lavoro di dimissione dei cittadini grossetani lungodegenti dall’OP di Siena venne definito in gergo da Marta Marri come uno “sbarba cipolle”, usando metaforicamente l’immagine di un gioco diffuso in Maremma come in altre regioni italiane, per cui i bambini di una squadra cercano di strappare uno per volta i bambini della squadra avversa trattenuti a viva forza da una lunga catena umana di mani, braccia, piedi e gambe. La metafora indicava la lotta per strappare i lungodegenti maremmani dalle grinfie del manicomio senese senza avere alcun supporto dagli operatori interni. Vi erano in questol’antica acrimonia verso Siena, che fin dall’epoca della Repubblica considerava la Maremma la “provincia inferiore”, non solo per localizzazione geografica, la dura critica degli amministratori grossetani verso la cattiva e a tratti disumana gestione del San Niccolò (1, p. 185) ed infine la vera resistenza alle dimissioni dei dirigenti ed operatori dell’OP, che aveva radici culturali di arretratezza nella visione della malattia mentale e anche di miope difesa di interessi corporativi (posti di lavoro, rette, gestione delle pensioni ecc.)
La storia non è finita. Abbiamo già definito il manicomio come un’istituzione della modernità e questo lo destina ad essere continuamente riproposto. Come dice Primo Levi nella citazione in esergo“ciò che è accaduto può ritornare”. Oggi la “riapertura dei manicomi” è minacciata da esponenti di primo piano della compagine governativa, ad esempio il ministro degli interni, e un progetto in tal senso è stato depositato allaCamera dal suo stesso partito. Quindi non possiamo dare per scontato che la questione manicomiale sia stata chiusa una volta per tutte. In realtà gli OP, nonostante il loro lungo e lento declino, esistono in tutto il mondo, eccetto in l’Italia, nel Vermont(USA) e nel Saskatchewan (Canada), dove questo è sancito per legge. Se riprendiamo la ricostruzione, fatta da Renato Piccione (8, p. 119) (fig.7), si può dedurre chiaramente l’origine “manicomiale” delle strutture degli attuali servizi di salute mentale dalla logica dei reparti del vecchio manicomio. Da essa possiamo ricavare quattro indicatori, che indicano la persistenza di tale logica nei quattro livelli di assistenza della salute mentale:
- quando i Centri di Salute Mentale si configurano come servizi puramente ambulatoriali di attesa con programmi di trattamento“interminabili” come erano i ricoveri in OP;
- quando i Centri Diurni di cura e di riabilitazione seguono programmi di intrattenimento piuttosto che di autonomizzazione delle persone come gli atelier occupazionali degli OP;
- quando i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura utilizzano strumenti repressivi di contenzione fisica e il sistema delle “porte chiuse” come succedeva in OP;
- quando le Strutture Residenziali funzionano con turn over ridotto o inesistente degli ospiti, cioè non li dimettono come i vecchi manicomi.
Occorre pensare ad una nuova fase di de-istituzionalizzazione in senso comunitario dei servizi di salute mentale con una struttura meno centralizzata e più diffusa nella rete sociale. Viene qui riassunta una proposta già studiata in vari numeri di questa rivista. Combinando i seguenti quattro ingredienti attivi, ampiamente fondati sulle evidenze scientifiche secondo la teorizzazione di Tansella e Thornicroft (9, p. 269), scaturisce l’indicazione di una nuova organizzazione verso cui orientare la “riforma dei servizi di salute mentale”, capace di essere all’altezza dei tempi e di spostare l’asse dell’intervento da quello terapeutico-riabilitativo a quello terapeutico-preventivo:
- abitare supportato e lavorare supportato;
- sviluppo comunitario di self-help ed empowerment dei cittadini-utenti;
- l’intervento precoce per tutte le patologie;
- collaborative care per i disturbi emotivi comuni soprattutto quelli depressivi nel setting della medicina generale.
Questo nuovo servizio di comunità(fig. 8) avrà il suo cuore operativo nelle strutture “leggere” più presenti nella rete sociale per proprio mandato: il Centro di Salute Mentale e il Centro Diurno, costruiti in continuità architettonica tra loro, capaci continuamente di proiettarsi nella rete sociale e, grazie alla loro sinergia, di essere più radicalmente alternativi all’ospedalizzazione e all’istituzionalizzazione. Il terreno principale di intervento saranno una serie di interventi precoci per ogni singola patologia decentrati territorialmente nei luoghi di aggregazione sociale, in particolare giovanile a partire dalla scuola, e l’attivazione della collaborative care con la medicina generale e la pediatria di base, questi due interventi sinergici tra loro hanno buone probabilità di ridurre la tendenza alla recidiva e alla cronicizzazione dei disturbi. Come attivazione della rete sociale e delle risorse latenti della comunità il CSM produrrà una rete di gruppi di auto-mutuo-aiuto, meglio se multifamiliari organizzati per problema, in cui gli operatori del servizio si proporranno come “facilitatori” in attesa della formazione al loro interno di una “leva” di volontari in grado di auto-riprodurli. Alle spalle avremo un “nocciolo” istituzionale con un piccolo servizio di diagnosi e cura ospedaliero, strettamente limitato alla gestione delle acuzie, in rapporto con una Comunità Terapeutica con programmi intensivi a breve-medio termine, capace di farsi carico di situazioni acute e subacute in alternativa all’ospedalizzazione psichiatrica.Essa rimarrà come l’unica struttura residenziale ad alto turn-over. La riabilitazione sarà “mobile” nella comunità, cioè presente nei luoghi abituali della convivenza sociale, con attività di abitare supportato attraverso una rete di appartamenti di civile abitazione diffusi nella comunità, sostenuti da uno specifico servizio di assistenza domiciliare, e di lavoro supportato, attraverso un servizio di mediazione tutoriale in collaborazione con le competenti agenzie del territorio rivolto alle imprese private e alla cooperazione sociale. Più le risposte alla sofferenza e alla diversità psichica si sposteranno dentro le maglie della rete comunitaria, esattamente dove si generano, più avanzerà il processo di “istituzione diffusa”, che ha preso le mosse nella seconda metà del Novecento col superamento delmanicomio (10, p. 65-70).
Il processo innovativo proposto è pure connesso alla situazione di crisi sociale ed economica che stiamo attraversando: la risposta ad essa sta in tutti i settori nella capacità di innovazione e riconversione, che per la salute mentale dovrebbe essere permanente per le ragioni appena esposte. In assenza di una prospettiva certa di rinnovamento sociale generale, occorre evitare che l’innovazione rimanga nelle mani degli “strateghi del marcato”, che tra l’altro sono coloro che hanno la maggior responsabilità della crisi attuale, grazie alla loro miope fiducia nella capacità di autoregolazione del mercato. Fuor di metafora, i percorsi dell’aziendalizzazione generale delle attuali istituzioni socio-sanitarie, inseguendo i propri sogni produttivistici, rischiano di sacrificare i bisogni sociali e sanitari, soprattutto degli strati più bassi della società, ad uno sviluppo progressivo del mercato della salute, cioè delle tecnologie e dei farmaci. È una logica anti-ecologica, che già ora mostra la corda, scontrandosi con i limiti dello sviluppo economico. Il nostro settore, proprio perché esprime principalmente i bisogni degli strati sociali meno protetti, ha già pagato un ampio scotto a questa logica, a partire in Italia dalla mancata riconversione della spesa storica cristallizzata nell’istituzione manicomiale,che è stata allocata molto parzialmente nei servizi di comunità nati dalla riforma. Si tratta di non correre lo stesso rischio oggi e proporre dall’interno un processo innovativo a partire dalle attuali posizioni senza aspettare che quelle posizioni vengano erose dalle logiche esterne dei budget imposti. Ancora una volta – come all’epoca del superamento del manicomio – abbiamo bisogno di operatori intelligenti e qualificati, capaci di lavorare con le famiglie, i gruppi e le reti sociali, invece di mura costose da mantenere e spessoinutili.
È necessario riconvertire ed innovare, puntando sulla qualità degli interventi:
- riconvertire le risorse “cristallizzate” nelle strutture attraverso i “budget di salute” (11), cioè i cittadini utenti che escono dalle strutture “portano” con sé le dotazioni di risorse e di programmi, che vengono erogate per loro e che sono riconvertite nel loro supporto nella comunità;
- ottimizzare le risorse disponibili: i programmi devono essere “leggeri”, a “basso costo”, evitando gli sprechi e puntando ad interventi di sicura efficacia;
- puntare sull’innovazione, cioè sul ri-orientamento dei servizi verso i suddetti interventi di sicura efficacia;
- puntare sulla qualità degli operatori e non solo sulla quantità, attraverso la loro formazione e la loro riqualificazione;
- puntare sull’intervento precoce per le situazioni a rischio e sulla prevenzione;
- sviluppare una cultura epidemiologica della valutazione, che permetta di scegliere solo gli interventi e le procedure che garantiscano gli esiti migliori;
- utilizzare le risorse informali della comunità (empowerment).
Per la storia in dettaglio della psichiatria grossetana rimando al più volte citato lavoro egregio e molto ben documentato di Matteo Fiorani (1). Per la descrizione degli ingredienti attivi della proposta del“nuovo servizio di salute mentale” si possono consultare i volumi n.2 (Editoriale - per il nuovo servizio di salute mentale), 8 (intervento precoce), 9 (SPDC a porte aperte e senza contenzione), 10 (psicoeducazione), 12 (abitare supportato) della Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici.
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1. Fiorani M., Follia senza manicomio, Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane; 2012.
2. Foucault M., Storia della follia nell'età classica, Milano: Rizzoli; (1963) 1976.
3. Jervis G., Manuale critico di psichiatria, Milano: Feltrinelli; 1975.
4. Hudolin V.,Famiglia territorio salute mentale, San Daniele del Friuli: USL 6; 1985.
5. De Salvia D., Teoria e utilizzazione dei sistemi informatici per la valutazione dei servizi psichiatrici, in Michele Tansella (a cura di), L’approccio epidemiologico in psichiatria, Torino: Boringhieri; 1985. 6. Plebani A., Intervento psichiatrico 1993. Rapporto sull’attività dei servizi, Firenze: Regione Toscana; 1995.
7. Marri M., Corlito G., FacchiE. C., Abstract, Milano: SIEP; 1997.
8. Piccione R., Il futuro dei servizi di salute mentale inItalia, Milano: Franco Angeli; 2004.
9. Thornicroft G., Tansella M., Manuale per la riforma dei servizi di salute mentale. Un modello a matrice, Roma: Il Pensiero Scientifico Editore; 2000.
10. Corlito G., Borderline: un modello per i servizi. L’esperienza del Dipartimento di Salute Mentale di Grosseto, in Cono Aldo Barnà, Giuseppe Corlito,Emergenze borderline, istituzione, gruppo, comunità, Milano: Franco Angeli; 2011.
11. Starace F. (a cura di), Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di salute, Roma: Carocci; 2011.