Psicopatologia geopolitica del Gambia
Associazione Onlus “Centro Penc”, Palermo
Riassunto
Vorremmo puntare la nostra attenzione sulla salute mentale dei giovani che scappano da sistemi sociali funzionanti come incubatoi di psicopatologie collettive. Sono soprattutto i giovani, infatti, ad essere il bersaglio elettivo di specifici fattori di stress psicologico legati all’ambiente geopolitico. La popolazione in questa fascia d’età (che va dall’adolescenza alla prima età adulta) viene trattata come nemico pubblico e diventa preda di sistemi politici paranoici che non possono accettare i legami sociali, la formazione spontanea o culturalmente organizzata di reti e collettivi. In particolare nel nostro articolo prenderemo in esame la situazione dei giovani fuggiti dal Gambia. Per vent’anni, fino alla sconfitta del suo Presidente, il governo di questo paese africano ha arrestato sommariamente e torturato molti suoi cittadini, generando un clima pervasivo di terrore, un vero e proprio “Stato di Paura” installato nella vita sociale e psichica della gente. Un’intera generazione è vissuta fin dalla nascita nella paura della socialità e delle relazioni interpersonali all’esterno e addirittura all’interno delle famiglie. I molteplici effetti di questa atmosfera terrorizzante sulla psiche sono riscontrabili nelle sedute cliniche con i pazienti gambiani.
Abstract
We would like to focus our attention on the mental health of young people fleeing from those social systems that work as incubators of collective pathologies. In fact it’s mainly the young people, as individuals and as social group, who are psychologically affected by specific stressors linked to the geopolitical environment. This age group (from adolescents to young adults) is treated as a social enemy and becomes target of paranoiac political systems that cannot accept social ties, expecially in the form of spontaneous, but also culturally organised groups and networks. In our intervention we will consider a particular historical case: that of Gambia in the last twenty years. The government of this West African country summarily arrests and tortures his citizens, thus generating a pervasive climate of terror, a real “State of Fear” installed in the social and psychic people’s life. A whole generation has been living since birth in fear of sociability and of interpersonal relationships outside and within the family. The multiple effects on the psyche of this terrifying atmosphere can be found in clinical sessions with Gambian patients.
L’ambulatorio di Etnopsicologia presso il Policlinico di Palermo ha rappresentato dal 2008 al 2017 un punto di riferimento per la presa in carico psicologica dei pazienti stranieri. L’équipe dell’ambulatorio ha sviluppato e implementato nel tempo una metodologia basata sull’approccio etnopsichiatrico: il lavoro di cura è andato avanti di pari passo con l’elaborazione di un pensiero clinico teso ad integrare le domande della clinica con un’analisi delle configurazioni geoculturali e geopolitiche presenti nella mente e nei luoghi d’origine dei pazienti. Molte volte abbiamo sperimentato quanto fosse difficile orientarsi nel processo terapeutico senza questa bussola.
Un altro punto di forza è stato l’aver valorizzato il lavoro di rete con le istituzioni del pubblico (come i reparti dell’Ospedale, gli Uffici del Comune, le Commissioni Territoriali, il Tribunale dei Minori) e del privato sociale (gli enti gestori dei centri di accoglienza, le ONG come OIM, Save The Children, ecc.), oltreché con le comunità straniere storicamente insediate nel territorio palermitano.
Ad ottobre 2017 l’équipe dell’ambulatorio ha cambiato sede, trasferendosi presso l’Ufficio del Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza del Comune di Palermo, e firmando come Associazione Onlus “Centro Penc” un protocollo di collaborazione con il Garante.
Il lavoro etnopsicologico ha consentito a chi scrive di incontrare moltissimi giovani migranti in stato di sofferenza psichica. I luoghi da cui provengono i pazienti che incontriamo sono carichi di memorie, di avvenimenti, e governati da forze che hanno marcato in profondità individui e gruppi. Per tale motivo, quando si ascoltano queste persone, l’anamnesi psicologica va ampliata fino ad includere «determinanti ben più vaste (culturali, religiose, storiche, politiche...) – e di maggiore respiro temporale – di quelle legate alla prima infanzia del soggetto» (Sironi, 2010, p. 165) (1). Come spiega l’autrice, sono da tenere in considerazione: «determinanti geopolitiche legate all’influenza della storia collettiva presente e passata. Può trattarsi della storia molto localizzata di un territorio, o della storia nazionale, europea (nel nostro caso), mondiale; determinanti intrapsichiche legate alle vicende della storia intima (affetti, conflitti, relazioni precoci con i genitori...); determinanti contestuali, legate alle teorie dominanti e minoritarie attuali, che chiariscono i fattori psicologici, culturali, economici e sociali dei nostri contemporanei» (ibidem).
L’inclusione di queste determinanti nel processo di valutazione e di trattamento costituisce la cifra metodologica della psicologia geopolitica clinica, un approccio psicoterapeutico adattato all’epoca attuale delle migrazioni planetarie, e delle interconnessioni veloci tra mondi. In tale prospettiva risulta che gli eventi politici, le trasformazioni economiche e sociali di un paese, le vicissitudini attraversate da una nazione, da un gruppo etnico e da una famiglia nel corso della storia sono aspetti inerenti alla cura psicologica, e non elementi di contesto per situare la biografia del paziente: coordinate essenziali della comprensione psicopatologica.
In questo testo vorremmo concentrare l’attenzione su un caso specifico, per mostrare come un’approfondita anamnesi geopolitica sia imprescindibile nel lavoro psicoterapico e di inquadramento diagnostico critico dei sintomi. Abbiamo scelto il Gambia anche perché molti dei nostri pazienti più giovani provengono da questo paese. I dati da noi raccolti negli ultimi due anni di lavoro ci mostrano che, su un totale di 202 pazienti presi in carico, il Gambia risulta essere il paese di provenienza maggiormente rappresentato, con 44 pazienti, di cui 22 minori. I dati statistici sulla popolazione migrante sono in linea con la nostra osservazione clinica. Alla fine del 2017 in Italia sono stati censiti 18.508 Minori Stranieri Non Accompagnati; la Sicilia è stata la regione italiana maggiormente coinvolta nella ricezione e accoglienza dei MSNA, con 8.116 minori, 43,9% del totale accolto in tutta Italia (se si guarda solo alle ragazze la percentuale accolta in Sicilia sale addirittura al 59,6%). All’interno di questo scenario generale, il Gambia spicca come primo paese di provenienza dei Minori Non Accompagnati in fuga, con 2.351 presenze sul territorio nazionale, seguito da Guinea ed Egitto (Rapporto Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, novembre 2017) (2).
I protagonisti di questa migrazione sono per la maggior parte giovani uomini di etnia mandinga, peul, wolof, soninké, diola, serer, manjago; appartengono a gruppi con ramificazioni transnazionali, e lignaggi che si estendono in tutta l’Africa Occidentale, abituati storicamente a muoversi all’interno di uno spazio geografico molto più vasto e complesso di quello segnato dai confini del Gambia. La via che scelgono risulta altrettanto complessa, estesa e intricata: viene chiamata dagli stessi giovani backway, “strada sul retro”, una scappatoia transafricana verso l’Europa fatta da «una rete invisibile di connection men che collega i villaggi dell’Africa Occidentale alla Libia» (Zanker e Altrogge, 2017) (3).
Senza aver mai fatto esperienza di vita in una democrazia, questi ragazzi sono rappresentanti di una generazione nata e cresciuta all’ombra di un potere politico dittatoriale che ha governato attraverso il terrore: il regime di Yahya Abdul-Aziz Jemus Junkung Jammeh.
Il Presidente Jammeh è salito al potere nel 1994 attraverso un colpo di stato ed è rimasto alla guida del paese per più di vent’anni, fino a gennaio dello scorso anno, instaurando un sistema di controllo e oppressione caratterizzato da abusi, intimidazioni, torture, detenzioni arbitrarie in condizioni durissime, assenza delle più elementari garanzie giuridiche per le vittime e impunità assoluta per i carnefici del regime (Pa Nderry M’bai, 2012) (4).
Human Right Watch ha dedicato al Gambia un rapporto dettagliato, frutto di una ricerca di campo in cui sono state raccolte numerose interviste a vittime, testimoni o persone direttamente a conoscenza dei fatti, come ex membri delle forze di sicurezza o di gruppi paramilitari. Viene riportato che «da quando Jammeh ha preso il potere, ha mantenuto una stretta presa sul paese creando una delle amministrazioni più repressive e autoritarie del continente. I leader delle opposizioni sono spesso arrestati e imprigionati, oltreché sottoposti a sommarie e arbitrarie esecuzioni; il più delle volte vi sono sparizioni esemplari» (HRW, 2015, trad. nostra) (5). Le sparizioni sono uno strumento usato contro chiunque venga considerato avversario del regime, semplici attivisti, studenti che hanno espresso dissenso, militari sospettati di tradimento: Souleymane in seduta racconta «mi hanno detto che mio padre era un militare; io ero un bambino e da un giorno all’altro i miei genitori non sono più rientrati a casa; anche se non li ho visti morire, voglio credere che siano morti». Paradosso tipico della tortura: la speranza inutilmente alimentata di veder tornare i cari “spariti” diventa più mortifera della morte, l’essere orfani è preferibile all’incertezza di avere ancora da qualche parte dei genitori. La società deve fare i conti con questi vuoti impensabili, non colmabili né dal ritorno dei vivi né dalla restituzione dei morti.
Si comincia a intravedere una forma di trauma del collettivo che porta con sé un trauma del connettivo: il tessuto connettivo, deputato alla funzione di collegamento, sostegno e nutrimento, vitale per ogni sistema vivente, è logorato dal suo interno e a partire dai componenti più giovani del sistema.
La popolazione gambiana è soverchiata da un clima opprimente di paura e di paranoia che espone a rischi di disorganizzazione di personalità; sul piano psichico questa immersione perdurante nell’emozione primaria della paura blocca le relazioni in un sistema motivazionale di difesa-attacco: nel processo evolutivo questo tipo di sistema corrisponde ad un livello molto arcaico di funzionamento dei gruppi, poiché la tensione attorno a cui si organizzano le relazioni e i comportamenti hanno a che fare con la difesa dall’ambiente, avvertito come ostile e pregno di minacce per la sopravvivenza (Liotti e Monticelli, 2014) (6).
In tale configurazione prevalgono dunque gli aspetti di pericolosità del mondo esterno, e rimangono sullo sfondo le dimensioni della sicurezza di base; ne deriva un assetto psicofisico estremamente eccitabile, con elevati livelli di arousal. Incontriamo spesso in ambulatorio ragazzi gambiani irritabili, impulsivi, soggetti ad attacchi di rabbia, ma anche spaventati e ipervigili, pronti a scattare al minimo stimolo.
I personaggi di questa scena sono vittime o carnefici, ed ognuno può a tratti assumere l’una o l’altra posizione in una sorta di altalenante ma ineluttabile destino. Dal punto di vista dell’esame psicodinamico si assiste ad una sorta di rovinoso paradosso per cui non vi è differenza di funzionamento, né da un punto di vista interno né relazionale, tra la vittima e il carnefice: entrambe le figure sono cariche di quote di sofferenza.
Il potere e il controllo del territorio, compresa la repressione di condotte prosociali, di momenti aggregativi e il divieto di manifestazioni pubbliche, sono mantenuti con l’impiego brutale della forza militare (milizie governative, di intelligence e unità armate di Polizia); insieme ad esse agiscono gruppi paramilitari come i “Jungulers”, un’emanazione diretta della guardia presidenziale, specializzata nell’esecuzione di crimini eccellenti e abusi efferati. La Strategia della Paura comprende inoltre una serie di misure volte al controllo capillare delle comunicazioni negli spazi pubblici e privati, ad esempio attraverso l’utilizzo spregiudicato delle intercettazioni telefoniche (l’anatomia di un sistema di controllo totale sulle relazioni pubbliche e private è illustrata molto bene nel testo di Falanga sulla Stasi, 2012) (7).
Quando Ebrima veniva alle sedute raccontava, ancora con intensa preoccupazione, che in Gambia il fatto stesso di entrare in contatto telefonico con un amico poteva rappresentare un pericolo per la propria vita, nel caso in cui quest’ultimo avesse avuto rapporti con una terza persona già nota alle forze militari per una ragione qualsiasi; così il controllo totale delle relazioni interpersonali, e la paura di essere perseguiti a causa delle proprie connessioni, induceva ad adottare comportamenti di ritiro ed evitamento sociale.
Drammeh, un altro giovane gambiano seguito dall’ambulatorio di etnopsicologia, diceva: «sembrava fossero dappertutto; se ci vedevano per strada fermi, a parlare tra amici, piombavano su di noi per picchiarci e dividerci; erano i Black-Black» (un altro nome con cui erano chiamati i Jungulers, come anche Ninja o Black Boys).
La spietatezza del regime militare del Gambia si è mostrata dapprima contro gli avversari politici e i giornalisti, per poi cristallizzarsi in molti modi nelle viscere e nello spirito della popolazione. Inoltre col tempo si è aggravata la situazione economica del paese, anche per il taglio di milioni di euro da parte dell’Unione Europea nel 2014 come sanzione per le continue violazioni dei diritti umani, e il Gambia si è trovato «stretto tra le maglie di un’economia dipendente da un settore primario poco sviluppato, soggetto a calamità naturali, nella quasi totale assenza di infrastrutture e una povertà diffusa (tra i livelli più alti registrati nel continente)» (De Bernardis, 2018) (8); la vita sociale ha subito restrizioni e condizionamenti sempre maggiori, fino al deterioramento delle più basilari norme di convivenza comunitaria; sono stati intaccati vissuti e capacità fondamentali, quali la fiducia, la possibilità di contare su qualcuno come punto di riferimento, attraverso una strumentalizzazione sistematica dei legami interpersonali, a partire da quelli familiari: per più di un ventennio il potere della dittatura si è insinuato a forza nelle maglie più intime della società gambiana, modificando la natura delle relazioni e dei sentimenti di coesione all’interno dei gruppi e tra i gruppi. Infatti è proprio il sistema “gruppo” che, in questo scenario, viene minato alla base; esso dunque non riesce più a funzionare al servizio dell’identità, contrariamente a quanto accade normalmente. Ogni individualità infatti è sempre potenziata da esperienze attraverso i gruppi, in cui sono sperimentati vissuti di solidarietà, di supporto reciproco, di rispecchiamento, e comportamenti imitativi per l’apprendimento interpersonale, così come la capacità di differenziazione e di valorizzazione delle differenze: tutti fenomeni essenziali durante la fase dello sviluppo psicologico per una crescita sana. La generazione di giovani gambiani cresciuti durante il regime ventennale di Jammeh invece ha fatto spesso esperienza di assoluta diffidenza nei confronti dei pari, quando non di vero sospetto, e di timore verso gli adulti, potenziali carnefici in agguato pronti a tradire un amico, un nipote, un figliastro per assicurare a se stessi l’impunità. La logica dell’individuo al di sopra del gruppo, a scapito di un’identità prosociale, è stato il diktat supremo in favore di una Suprema Identità: quella del Dittatore.
La famiglia allargata stessa diventa allora un luogo insidioso – ma stavolta per ragioni geopolitiche, e non per vicende di stregoneria che pure sono inscritte tradizionalmente proprio all’interno dei rapporti familiari – dove con facilità un membro può raccogliere informazioni sensibili, confidenze, o se necessario reclutare nuovi collaboratori sfruttando la propria posizione e il legame di parentela. In questo modo la famiglia si trasforma in un organo del potere tentacolare e occhiuto della dittatura, con l’effetto immediato di rendere odiosi i legami e trasferire la paranoia da fuori a dentro i confini domestici. Lo spazio familiare non sembra quindi funzionare in senso protettivo come rifugio contro le continue interferenze nella vita relazionale; anzi le effrazioni psicopolitiche si perpetrano anche all’interno della sfera intima, amplificando le conseguenze traumatiche.
Il livello geopolitico fin qui descritto si intreccia con le configurazioni familiari di quel mondo, organizzate anch’esse intorno ad esperienze e vissuti di sospetto e paranoia, come in un gioco di rispecchiamento tra politica, cultura, famiglia e individuo.
Noi pensiamo alla famiglia in quanto gruppo e non come insieme di singoli individui. Essa è un reticolo di relazioni, innanzitutto tra i componenti che la costituiscono, ma anche tra la famiglia e gli altri gruppi che ruotano attorno ad essa; per mezzo di questo intreccio relazionale si organizzano sin da tempi precocissimi della vita i meccanismi di funzionamento psichico per la strutturazione del Sé. Il concetto stesso di famiglia in questo scenario di terrore (“State of Fear”) diventa problematico e traballante, specularmente alle tremule identità che in questi anni abbiamo incrociato nello spazio del rapporto clinico: ragazzi segnati in profondità dall’esperienza della solitudine, giovani arrabbiati, ma con un nocciolo del Sé fragile e un nucleo dell’identità caratterizzato dalla paura, dalla preoccupazione e dalla diffidenza nei confronti dell’Altro, chiunque egli sia; alcuni di loro sembrano mossi dall’autodeterminazione, ma in questo caso essa non è una conquista evolutiva del processo di individuazione per differenziazione dal gruppo originario, bensì l’effetto di una patologia del legame, un’impossibilità ad abitare la dimensione dell’interdipendenza e della cooperazione, che si traduce in seduta nella difficoltà a creare con questi giovani pazienti un’alleanza terapeutica. I loro livelli di problematicità relazionale e comportamentale sono molto alti, proporzionali alle quote di fragilità del Sé: appaiono impauriti ma al tempo stesso aggressivi, incostanti nella relazione, sfuggenti e autarchici, più che autonomi.
Il regime di Jammeh ha prodotto una generazione caratterizzata da quote di sofferenza psicopatologica molto elevate: organizzazioni di personalità inclini alla paranoia, con bassa autostima, manifestazioni depressive, di disprezzo o paura dell’altro, aggressività, oppositività. Ora la dittatura è finita, ma ci vorrà tempo perché i giovani gambiani tornino a vivere in un mondo relazionale basato sulla fiducia e sul sentimento di sicurezza.
Bibliografia
1. Sironi, Françoise, Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010.
2. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Report mensile Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA) in Italia, Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione, Divisione II, dati al 30 novembre 2017.
3. Zanker, Franzisca e Altrogge, Judith, The Politics of Migration Governance in the Gambia, Arnold-Bergstraesser-Institut, Freiburg, 2017.
4. Pa Nderry M’bai, The Gambia. The Untold Dictator Yahya Jammeh’s Story, iUniverse, Bloomington, 2012.
5. Human Right Watch, State of Fear, Arbitrary Arrests, Torture, and killings, 2015.
6. Liotti, Giovanni e Monticelli, Fabio (a cura di), Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
7. Falanga, Gianluca, Il Ministero della Paranoia. Storia della Stasi, Carocci editore, Roma, 2012.
8. De Bernardis, Valentino, Gambia. Rientra nel Commonwealth, in notiziegeopolitiche.net, 11 febbraio 2018.