Volume 14 - 6 Aprile 2017

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Salute mentale delle popolazioni e traumi storici: profughi, rifugiati e reduci negli scenari bellici del XX secolo

Salute mentale delle popolazioni e traumi storici: profughi, rifugiati e reduci nel XX secolo
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RIASSUNTO

Parole come “profugo”, “rifugiato”, “reduce” richiamano subito alla mente le immagini di uomini, donne e bambini che sbarcano sulle coste del nostro Paese in fuga da guerre, persecuzioni e calamità. Eppure quasi un secolo fa gli stessi termini designavano molti di noi europei. Si era appena conclusa la Grande Guerra e la conseguente ridefinizione dei poteri e dei confini nazionali alimentava il movimento, spesso senza meta, di consistenti masse di persone. Le prime organizzazioni internazionali, nate dalla vana speranza di preservare una pace universale, si trovarono così ad affrontare questioni rimaste drammaticamente irrisolte: la limitazione del diritto alla libera circolazione dei corpi e delle vite, misura confliggente con la libera circolazione delle merci e dei capitali; le incertezze dei diritti umani, di fatto inefficaci in uno scenario geopolitico cangiante; la relazione tra la fuga e i suoi esiti esiziali, rappresentati da morte e follia; l’istituzione di spazi concentrazionari, in cui lo stato di eccezione tende a confondersi con la norma.


ABSTRACT

Terms such as “displaced persons”, “refugees”, and “war veterans” call to mind images of men, women and children who land on the shores of our country, Italy, in order to flee from war, persecution and natural disasters. Nearly a century ago the same words referred to Europeans. The First World War had just ended and the resulting redefinition of governments and national borders caused a massive movement of people, who wandered aimlessly. The first international organizations, set up with the lofty goal of preserving worldwide peace, had to tackle problems that remain unresolved today: restriction of the right to free movement, which collides with the free international transfer of goods and capital; uncertainties about human rights, rendered ineffective, in a changing geopolitical scenario; the relationship between the escape and its devastating outcomes - death and madness; and the creation of refugee camps, where the state of emergency tends to be confused with the norm.


Un dipinto del 1914 del pittore austriaco Albin Egger-Lienz raffigura alcuni soldati mentre avanzano a testa bassa in un ambiente desolato, sotto una striscia di cielo grigio. Più che uomini sembrano automi: procedono in modo meccanico, come pezzi standardizzati del dispositivo bellico, tutti uguali, senza alcun segno d’identificazione e, dunque, senza nome, da cui il titolo dell’opera. La Prima Guerra Mondiale fu l’inveramento della visione di Lienz: una dimensione irriducibile a esperienze pregresse, soprattutto per l’impiego della tecnologia, che causò il sacrificio collettivo, anonimo e senza gloria di interi eserciti.

Sebbene l’attribuzione “mondiale” sia un’iperbole, è vero che le conseguenze dello scontro scossero tutto il mondo: il conflitto interessò ventotto Paesi, cancellò imperi secolari, spodestò monarchie antiche, trascinò intere generazioni nelle fosse comuni e riempì gli ospedali di esseri umani feriti o mutilati (1). La guerra venne percepita come “Grande” e immane fu davvero il trauma che impresse nei corpi e nelle menti dei sopravvissuti (2). Una nuova figura cominciò ad aggirarsi nei manicomi e nelle pagine degli alienisti di tutti i Paesi belligeranti: il reduce folle. Tale figura rivelò l’insufficienza teorica della scienza dell’epoca con quadri clinici inediti e modificò la concezione dell’uomo come essere determinato dal profilo biologico per introdurre il fattore artificiale nella dinamica della sfera mentale. Il folle non era più lo scarto di una selezione naturale imperfetta, ma il prodotto della guerra industriale, alla quale tentava di sottrarsi rifugiandosi nella patologia, soluzione ultima di una condizione insostenibile. La psichiatria dell’epoca accostò la figura del folle a quella del disertore e quest’ultima a quella dell’emigrante. In tale contesto si aprì un conflitto tra pazienti e medici, una guerra nella guerra, per l’appropriazione di conoscenze specialistiche. I reduci fingevano i sintomi della malattia mentale per sottrarsi al pericolo, alla sofferenza e alla morte. Dal canto suo, il sapere medico assunse una funzione di controllo sociale, essendo stato arruolato per “riparare”, e dunque rendere “riutilizzabile”, il materiale umano. I mezzi coercitivi divennero parte delle pratiche terapeutiche e la violenza della medicina apparve come una propaggine di quella subita dai soldati nelle trincee. La brutalità degli apparati medico-legali ispirò la fantasia degli artisti: nel 1918 Bertolt Brecht scrisse la Leggenda del soldato morto, storia della salma riesumata di un soldato, fatta abile e mandata a morire una seconda volta; nel 1919 George Grosz disegnò I guaritori, in cui un ufficiale medico esamina uno scheletro e lo dichiara idoneo al servizio attivo; infine, nel 1920, Otto Dix raffigurò ne I giocatori di skat un momento ludico di tre reduci, esponenti della classe dirigente, deformi e mutilati, non solo per aver perso parti del loro corpo, quanto moralità e senso etico.

Quella cominciata nel 1914 fu anche la prima guerra totale poiché invase lo spazio della società civile, tradizionalmente escluso dallo scontro armato. Le popolazioni furono coinvolte non solo psicologicamente, attraverso la propaganda bellica e la partecipazione indiretta allo sforzo militare, ma anche fisicamente, tramite le violenze subite, anticipatrici dell’orrore che si dispiegò nel conflitto seguente a Nanchino, Dresda, Hiroshima.

La prima operazione militare, l’occupazione tedesca del Belgio, sfociò immediatamente in un’ondata di ferocia contro i civili (3). Nel novembre del 1914, due milioni di Belgi si rifugiarono in Francia, Olanda e Gran Bretagna; solo seicentomila fecero ritorno nelle loro case alla fine del conflitto.

Le nazioni contendenti si accusarono reciprocamente di aver calpestato le tradizionali norme guerresche. Queste accuse palesarono la violazione sistematica del diritto bellico, nonché la trasformazione dello scontro in guerra civile, che segue la sola regola del terrore (4).

Neppure le città più lontane dai fronti di battaglia furono risparmiate, bombardate con regolarità dagli areoplani nemici. Nonostante il numero delle vittime fosse trascurabile in confronto alle perdite umane nelle trincee, i bombardamenti ebbero un impatto psicologico enorme perché non era più possibile distinguere tra il soldato e il civile, il fronte e la patria, il pericolo e la sicurezza. La nuova forma di guerra cambiò non soltanto lo scenario geopolitico dell’Europa, ma modificò irreversibilmente anche il paesaggio mentale dei suoi abitanti (5).

Nel corso del conflitto si consumò anche il primo genocidio su larga scala: oltre un milione di Armeni, sospettati di agire come una quinta colonna, fu sterminato dal regime turco. Una logica analoga ispirò le operazioni di pulizia etnica che ebbero luogo nel resto d’Europa. Milioni di persone furono così trascinate in evacuazioni ed esodi di massa: oltre trecentomila Armeni, sopravvissuti al genocidio, lasciarono la Turchia; più di un milione di Tedeschi fu espulso dai territori sottratti all’ex impero prussiano (Posnania, Pomerania, Alta Slesia); circa due milioni di Russi e Ucraini abbandonarono l’ex Impero zarista dopo la guerra civile.

La persona in fuga divenne la figura emblematica dell’Europa disgregata. La stipula dei Trattati di pace non fece che peggiorare la situazione, accelerando la formazione delle cosiddette minoranze, gruppi etnici e religiosi troppo esigui per aver diritto alla dignità nazionale, che si ritrovarono in uno Stato affidato a un’altra etnia promossa al rango di popolo statale. Per citare qualche esempio: il trattato di Losanna (1923) decise l’espulsione di oltre un milione di Greco-ortodossi dalla Turchia e di quattrocentomila Turchi dalla Grecia e, in virtù del trattato di Neuilly-sur-Seine (1923), cinquantamila persone lasciarono la Bulgaria per stabilirsi in Grecia e trentamila fecero il cammino inverso. Solo in pochi casi fu concesso il ricorso al plebiscito per scegliere lo Stato al quale appartenere (caso della regione dell’Alta Slesia).

Ovviamente chi ottenne la sovranità nazionale a spese degli altri, si trovò costretto al ruolo di oppressore, e i gruppi minoritari, delusi da un governo loro imposto, si convinsero che la libertà fosse inscindibile dall’autodeterminazione. Tale convinzione fu rafforzata quando la tutela dei loro diritti fu affidata alla Lega delle nazioni, il primo ente internazionale con fini politici generali. La Lega adottò subito risoluzioni concernenti i doveri dei gruppi allogeni, con il risultato che questi decisero di perorare direttamente la propria causa, ritenendo che soltanto l’appartenenza alla nazione dominante avrebbe dato loro il diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica. Innanzitutto si diedero il nome di Congresso dei gruppi nazionali, rendendo vana la fatica con cui i negoziati di pace avevano evitato il termine nazionale. Ciò consentì a tutti i gruppi etnici, e non soltanto alle minoranze riconosciute, di unirsi a formare una specie di “nazione” delle minoranze. Successivamente il Congresso eluse anche il principio territoriale sancito dalla Lega delle Nazioni, in base al quale con ciascun Paese era stato concluso un trattato, ritenuto un’imposizione umiliante da parte dei vincitori, non vincolati a impegnarsi nello stesso senso.

Se le minoranze appartenevano almeno de jure allo Stato, pur dovendosi accontentare delle leggi eccezionali, diverso fu il destino degli apolidi, il cui numero aumentò con regolarità dopo ogni rivoluzione. Nel periodo tra le due guerre divennero tali un numero imprecisato di Russi, Armeni, Ungheresi, Tedeschi e Spagnoli. La privazione in massa della cittadinanza presupponeva una struttura statale che, sebbene non ancora totalitaria, non tollerava comunque alcun dissenso al suo interno. Dopo la Prima guerra mondiale quasi tutti i Paesi europei adottarono una legislazione formulata in modo da consentire l’espulsione dei cittadini sgraditi. Fu coniato il termine displaced people con l’esplicito intento di liquidare l’apolidia, che entrava in conflitto con i diritti dello Stato (6). In tal modo il diritto d’asilo − che aveva evitato il verificarsi di casi di persone costrette a diventare involontariamente fuorilegge − venne meno. L’apolide, diventato displaced person, doveva essere rimpatriato, ossia rinviato a un Paese d’origine, che si rifiutava di accettarlo come cittadino o lo reclamava per punirlo. Inoltre non sempre fu possibile individuare uno Stato originario al quale destinare l’espulso. Così i governi cominciarono a deportare clandestinamente gli individui sgraditi oltre le proprie frontiere, innescando, anche in tempo di pace, piccoli conflitti fra le opposte polizie.

Persino la naturalizzazione si rivelò un fallimento quando i Paesi europei, davanti alla prospettiva dell’acquisizione della cittadinanza da parte di masse di profughi, introdussero restrizioni per la popolazione già naturalizzata e annullarono le naturalizzazioni già accordate. Cominciò la Francia nel 1915, seguita da Portogallo, Belgio, Italia, Turchia, Egitto, Austria. Infine arrivarono le leggi di Norimberga del 1935, con le quali i Tedeschi furono distinti in cittadini a pieno titolo e cittadini di secondo rango e la cittadinanza divenne revocabile discrezionalmente.

Dagli anni trenta del secolo scorso l’unica patria che l’Europa riuscì a offrire alla massa crescente di profughi fu il campo di internamento, unico surrogato del territorio nazionale di cui essi erano privi. Questa segregazione di un gruppo umano rappresentò il primo passo di un processo che condusse verso i campi di sterminio. La filosofa Hannah Arendt sostiene che la soluzione nazista − la quale ridusse anzitutto gli Ebrei di Germania allo stato di minoranza non riconosciuta, poi li offerse al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva e infine li raccolse accuratamente da ogni angolo d’Europa nei campi di sterminio − mostrò al mondo intero, nel modo più chiaro, come si potevano “liquidare” i problemi delle minoranze e degli apolidi. I nazisti seguirono una prassi già sperimentata dai governi socialdemocratici precedenti che, in occasione dei disordini seguiti ai trattati di pace, sospesero le garanzie delle libertà personali. Tuttavia il regime totalitario introdusse una novità: lo stato di eccezione cessò di essere una situazione provvisoria, tendendo a confondersi con la norma stessa. Così il campo divenne lo spazio di materializzazione di questo stato di eccezione, di indecidibilità tra fatto e diritto, tra norma e applicazione, fra eccezione e regola (7).

Quando, dopo la Prima guerra mondiale, gli individui persero la protezione del loro governo, e furono costretti a contare sui diritti che dovevano avere acquisito con la nascita, non trovarono nessuna autorità disposta a garantirli. Analogamente, quando un organismo internazionale fu incaricato di tutelare le minoranze, a esso si opposero non solo gli Stati, preoccupati di una limitazione di sovranità, ma anche i gruppi allogeni, convinti che la perdita dei diritti nazionali equivalesse alla perdita dei diritti umani.

Gli inalienabili diritti umani, come definiti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, si rivelarono dunque inapplicabili a individui che non erano più cittadini di nessuno Stato sovrano. La ragione di tale paradosso è da ricercare nella progressiva identificazione dei diritti umani con i diritti dei popoli. La stessa Dichiarazione era ambigua, non specificando se i termini uomo e cittadino designassero due realtà distinte o formassero invece un sistema unitario (8).

L’umanità aveva raggiunto lo stadio in cui colui che era escluso da una comunità politica, si trovava contemporaneamente escluso dall’umanità. Ci si accorse dell’esistenza di un diritto ad avere diritti solo quando comparvero milioni di individui che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione geopolitica. Essi dimostrarono che l’astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo rappresenta un pericolo estremo: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingono gli altri a trattarlo come un proprio simile (6).

In questo scenario la Prima guerra mondiale ha avuto il primato, non tautologico, di essere stata la prima ad aver svelato l’incertezza dei diritti umani di alcune categorie di persone, quali reduci, profughi e rifugiati: una questione ancora drammaticamente attuale (9).


Riferimenti

1. Gentile E., L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo. Milano: Mondadori; 2008.

2. Gualtieri M, Inglese S., La Psycomachia di Aby Warburg nella Grande Guerra, in Ferraro G, Dalle trincee alle retrovie. I molti fronti della Grande Guerra, ICSAIC, Rende (CS), 2015, pp. 175-200;

3. Bloch M. La guerra e le false notizie. Roma: Donzelli; 2004.

4. Traverso E. A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945. Bologna: il Mulino; 2007.

5. Gibelli A. L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale. Torino: Bollati Boringhieri; 2007.

6. Arendt H. Le origini del totalitarismo. Torino: Edizioni di Comunità; 1999.

7. Agamben G. Stato di eccezione. Torino: Bollati Boringhieri; 2012.

8. Agamben G. Homo sacer. Torino: Einaudi; 2005.

9. Cardamone G, Facchi E. Prospettive teoriche e operative della psichiatria italiana negli scenari geopolitici contemporanei. Nuova Rassegna di Studi psichiatrici. 2016;13.