Volume 14 - 6 Aprile 2017

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Analisi etnopsichiatrica dei conflitti identitari nel regime di frontiera dell’accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati

Analisi etnopsichiatrica conflitti identitari regime frontiera accoglienza richiedenti asilo e rifugiati
Autore

RIASSUNTO

L’articolo analizza i giochi parresiastici a cui è chiamato il richiedente asilo o il rifugiato nell’ambito del complessivo sistema di accoglienza strutturato intorno all’intervista in Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Il dire la verità, il parlare franco, di tale figura della contemporaneità è analizzato mettendo in evidenza convergenze e divergenze con la supplica di protezione nella Grecia antica, per come emerge ne Le supplici di Eschilo. Si arriva in questo modo a mettere in evidenza come il tema della verità determini specifici processi di soggettivazione nel richiedente asilo e del rifugiato e strutturi conseguenti conflitti identitari.


ABSTRACT

The article analyses the parrhesiastic games which the asylum seekers and refugees are forced to in the reception system, which is structured around the interview in the Territorial Commission for the Recognition of International Protection. Their Veridiction – their truth-telling – is analyzed by highlighting similarities and differences with the beg for protection in ancient Greece, the characteristics of which are deduced from The Suppliants by Aeschylus. This comparison makes possible to emphasize how the theme of truth in the border regime determines the processes of subjectivation in the asylum seekers and refugees and how it structures specific identity conflicts.


DANAO
...
Su, venite sollecite, tenendo piamente nelle sinistre
i rami dei supplici in bianche corone,
emblema del rispetto che a Zeus è dovuto;
e rispondete parole meste, umili e pie
agli ospiti, come a stranieri conviene.
Chiaro scandite che il nostro esilio non gronda di sangue.
Mai serpeggi l’alterigia nella voce;
sul volto, sulle fronti vereconde
non baleni tra gli occhi mansueti la sfrontatezza;
sia il discorso né affrettato né prolisso:
la gente di qui è piuttosto irritabile.
Straniera, tapina, in esilio, sappi anche cedere,
perché ai deboli non giova parlar alteramente.

...

RE
...
Donde giunge questa turba a cui m’indirizzo?
...
Come osaste spingervi fin qui senz’araldi,
intrepidamente, sprovviste di guide e di protettori?
...
Dovrei congetturare su molti altri elementi,
se non fossi qui tu, pronta a spiegarti.

...
Eschilo, Le supplici, Mondadori, Milano,1960


1. Antefatto

In un precedente lavoro (1), ho cercato di descrivere il contesto istituzionale che si incarica di assumere il ruolo di filtro dei flussi umani in movimento transnazionale, al fine di distillare quei migranti cui è riconosciuto un diritto alla protezione internazionale o umanitaria. In quel contesto, l’obiettivo era di mettere in evidenza come l’assunzione di un tale ruolo si traduca anche nella sussunzione dei migranti in un regime frontaliero descrivibile ricorrendo alla rielaborazione del concetto di segmentarietà operata da Delueze e Guattari (2).

Da questo punto di vista, la decisione attraverso cui si attua o meno il riconoscimento di un diritto rappresenta un momento di transito di un ben più vasto processo di accoglienza che si dipana e si articola in quanto frontiera che regola l’esercizio dei poteri statuali (sovrano, biopolitico e disciplinare) su richiedenti asilo e rifugiati.

In questa sede si cercherà di partire da quell’analisi, considerandola però come sfondo o contesto per inquadrare i conflitti identitari cui vanno incontro richiedenti asilo e rifugiati. Se nel precedente lavoro, in altri termini, si è proposta un’analisi della situazione di accoglienza, in questa sede si utilizzerà tale analisi come punto di partenza per mettere in evidenza le ripercussioni soggettive di una simile situazione. Occorre precisare, tuttavia, che il riferimento ad una qualsivoglia soggettività va inteso – foucaultianamante – come un effetto di potere, come la fabbricazione di un dispositivo (3) e non come la presunzione di un’interiorità che reagisce secondo logiche proprie a stimoli esterni.

La precedente analisi e l’attuale vanno quindi pensate in un rapporto di continuità, dove la seconda segue la prima, ma anche in un rapporto di complementarietà del tipo figura/sfondo. Là dove lo sfondo è il sistema di accoglienza e la figura è il richiedente asilo o rifugiato. Parlando in precedenza del sistema di accoglienza si è cercato di definire lo sfondo arrivando a delineare un sistema di produzione di esperienza soggettiva, attraverso una segmentazione binaria, lineare e circolare dei migranti. Descrivendo i processi di soggettivazione, si cercherà di mettere in evidenza come questi si strutturino a partire da quel dispositivo che è il sistema di accoglienza. A tal fine, si ricorrerà agli strumenti teorici e tecnici offerti dall’etnopsichiatria generale e clinica (4; 5) poiché ritenuti i più idonei a rendere conto di una soggettività che non rinvia ad un’interiorità e, in prospettiva, ad elaborare metodologie di intervento clinico in grado di rapportarsi alle sfide poste dall’incontro con individui e gruppi provenienti da altrove geografici ed in cerca di una rinnovata stanzialità, o comunque promotori di nuovi spazi geoculturali.

La prospettiva etnopsichiatrica appare inoltre capace di prendere in considerazione quegli altri dispositivi culturali che compartecipano, in modo antagonista o anche agonista, alla determinazione di quelle stesse soggettività. Benché la presente analisi si focalizzi sul ruolo del sistema di accoglienza, non bisogna dimenticare che nessun dispositivo arriva mai ad assicurarsi un impero completo e duraturo su singoli o gruppi umani: perché sono i dispositivi a circolare, ovvero perché circolano gli esseri umani. In un caso come nell’altro, ciò che si realizza – e che più interessa in questa sede – non è tanto un eventuale conflitto fra individui o gruppi, ma fra dispositivi. Il compito clinico diventa allora quello di decifrare la stratificazione delle marche somatopsichiche lasciate dai diversi dispositivi che hanno attraversato i migranti; in altri termini, occorre comprendere gli “effetti di soggettivazione” prodotti da una pluralità di quelle che altrove abbiamo indicato come “agenzie di socializzazione”, siano queste note oppure ignote (6).


2. Volgersi indietro prima di guardare davanti: note sulla richiesta di protezione ne Le supplici di Eschilo

Nell’esergo che apre questo scritto, le cinquanta figlie di Danao, condotte dal padre, sono giunte ad Argo dalle sponde del Nilo, per sfuggire ad un matrimonio non voluto con i figli, sessualmente predatori, di Egitto, fratello dello stesso Danao. Alla vista di guardie armate, condotte dal re Pelasgo, il padre suggerisce alle figlie il modo di condursi e di parlare al fine di essere accolte e protette in terra d’asilo. Le incita cioè ad adottare le posture ed i modi linguistici del rituale dell’ichesia (ἱκετεία), della supplica, con cui uno straniero poteva chiedere e sperabilmente ottenere protezione in terra greca (7). Una volta giunto, il re si presenta elencando i luoghi che definiscono i confini del territorio su cui esercita una sovranità derivante per discendenza da “Palectone nato dalla terra”. Si rivolge quindi alle supplici chiedendo direttamente spiegazioni di un atto – quello di varcare da straniere simili confini – che si configura come impudente e, di per sé, come una violazione dell’ordine stabilito. Un atto, cioè, che fa irrompere sul suolo argivo persone ad esso estranee: dei non cittadini, appunto. Fa irrompere stranieri che, in quanto tali e salvo prova contraria, sono ritenuti nemici o comunque pericolosi. La spiegazione è richiesta direttamente alle supplici e riguarda essenzialmente due aspetti: chi esse siano e quali siano le ragioni che le hanno spinte a rifugiarsi in terra straniera.

Alle supplici, Pelasgo chiede innanzitutto di svelare la propria discendenza, la stirpe da cui provengono, visto che gli abiti e l’aspetto fisico – cioè l’apparenza di estraneità – lo fanno propendere per origini straniere (libiche, egiziane, etiopi, cipriote, amazzoni). La corifea dichiara immediatamente che lei e le sue sorelle discendono da una stirpe argiva, cioè che loro ed il re provengono dalla medesima terra e che dunque condividono la medesima umanità. A questo punto, tuttavia, comincia un dialogo nel quale è la corifea ad interrogare Pelasgo in modo da ricostruire le comuni vicende di Io da cui, attraverso Epafo, generato dal “tocco” di Zeus, discende Danao e quindi lei stessa e le sue sorelle. Il mito di Io, cioè, costituisce la base conoscitiva condivisa dai due interlocutori, o che comunque la corifea dimostra di padroneggiare, ed è quest’ultima che, ponendogli domande, conduce il re argivo a riconoscere che entrambi appartengono alla medesima umanità. Così come, del resto, avevano già indotto a pensare le competenze delle Danaidi nell’attuazione del rituale dell’ichesia (raggiungere gli altari; sedersi o prostarsi di fronte a questi come di fronte al re, recare in mano “i rami dei supplici in bianche corone” …; 8). È interessante osservare come in questo dialogo di Eschilo si assista ad una sorta di inversione delle posizioni – almeno nella prima parte. Non si dà la situazione per cui le Danaidi dichiarano la propria discendenza e Pelasgo cerca di verificarla o confutarla per poi riconoscerla come vera. Del resto, su che basi avrebbe potuto non tanto riconoscere la verità della narrazione della discendenza di Io, cioè del contenuto della comunicazione, ma verificare che le supplici erano effettivamente quelle che dicevano di essere? Al contrario, è la corifea che, padrona delle basi conoscitive (mitiche, in questo caso) dell’interlocutore e competente – almeno in parte – sul piano rituale, assume una comune umanità e, da questo punto di partenza, interroga il sovrano in modo che sia lui stesso a riconoscerla e a riconoscere quindi che le Danaidi stanno dicendo il vero. L’affermazione della supplice non è semplicemente presa per vera, né è verificata da Pelasgo attraverso un interrogatorio o un qualche sistema di falsificazione. Il re viene essenzialmente e sapientemente condotto a riconoscere la corifea come una persona che dice il vero. È solo per ricevere gli aggiornamenti sulle discendenze a lui necessariamente ignote, e che conducono alle Danaidi stesse, che Pelasgo inizia a porre domande alla corifea. D’altra parte, occorre osservare che la protezione alla fine accordata dal re e dal popolo di Argo non si basa solamente sulla comune origine, cioè sul fatto che le supplici non sono in effetti delle straniere, o che quantomeno non lo sono interamente, ma che sono in realtà ed in qualche modo delle cittadine che fanno rientro in patria. Questa è solo una ragione in più, o per meglio dire un motivo che raddoppia le ragioni che muovono in questa direzione e che sono relative al timore di un atto – il respingimento, se così si può dire – che costituirebbe una macchia per la città ed un affronto a Zeus protettore dei supplici (anche stranieri).

Adottando uno sguardo contemporaneo risulta curioso osservare come questo dialogo sull’identità delle supplici si dilunghi molto, mentre le ragioni che hanno portato alla loro fuga vengano liquidate da Eschilo in due battute:

RE
Anche a me pare che antichi legami vi stringono a questo suolo.
Ma perché v’induceste a lasciare la casa paterna?
Forse per qualche sventura piombatavi addosso?


CORIFEA
O re dei Pelasgi, i mali degli uomini han vari colori,
sì che mai ne puoi trovare due di penne uguali.
Chi avrebbe immaginato che una fuga disperata
spingerebbe in Argo una stirpe già congiunta con voi,
trasmigrata per avversione ai letti nuziali?

Il problema, per Pelasgo, diventa subito quello di valutare le conseguenze di ciò che le supplici gli domandano. Il problema non è sapere se il motivo della richiesta di protezione sia vero o meno, né per altro la ragione addotta (l’odio per i letti nuziali, il rifiuto di sposarsi coi cugini) viene discussa e approfondita. Il re argivo solo chiede se la volontà di non soggiacere ai cugini derivi dall’odio per essi o dal fatto che si tratti di una situazione iniqua per le supplici ed avanza l’argomento che attraverso simili matrimoni si accresce la potenza dei casati. Lascia tuttavia cadere immediatamente questo argomento di fronte all’obiezione della corifea – quasi un rimprovero e sicuramente una critica quella di quest’ultima – che “troppo facilmente ci si toglie dalle angustie” attraverso una simile via di fuga – la scappatoia di consentire ai figli di Egitto di riprendersi le donne.

È forse possibile ipotizzare che il lungo dialogo sulla discendenza delle supplici non sia tanto servito a capirne l’identità, ma a valutare il parlar vero o meno della corifea. Questa, per altro, segue almeno in parte le indicazioni paterne e anche l’invito di Pelasgo (“RE: … ma sappi che questa città non gradisce lunghi discorsi”), adottando – riprendendo le parole della vergine – una “Parlata breve e nitida”, caratteristiche tipiche della parrēsia (cfr. infra, 3.2.). Una volta appurata una simile qualità della corifea, non sembra essere necessario interrogare più di tanto le motivazioni, né sottoporne al vaglio la verità.

Il problema di Pelasgo, come detto, nel riconoscere o meno asilo alle supplici, non è quello di interrogare le loro motivazioni, ma quello di valutare le conseguenze del suo gesto. E queste conseguenze – per come emergono nella tragedia – sono di quattro tipi. La prima è la guerra che potrebbe divampare fra Argo ed i figli di Egitto, in caso di concessione della protezione. La seconda è rappresentata dai mali che le supplici – se accolte – potrebbero insinuare nella città (“RE: Vedo all’ombra di rami colti di fresco/questa turba straniera chinata agli dèi cittadini./ Non venga di lontano a portare sventura/ né da tali eventi inattesi e insospettati/ sorgano liti in Argo…”). La terza è la risposta divina all’una scelta o all’altra: i mali che potrebbero derivare alla città o al re stesso in caso di “diniego della domanda di protezione” a causa dell’ira di Zeus protettore di tutti i supplici o, al contrario, i beni che il dio potrebbe concedere in caso di accoglimento. Infine, il timore della contaminazione dei luoghi sacri e della città tutta. Le Danaidi infatti minacciano di suicidarsi presso gli altari, nel caso la supplica non sia accolta. La conseguenza sarebbe lo scatenamento delle potenze vendicatrici ctonie capaci di perseguitare il colpevole fin nell’Ade. La minaccia è resa tanto più temibile in quanto l’impiccamento costituisce un metodo suicidario massimamente ripugnante, poiché percepito come “morte priva di forma” e pertanto capace di ingenerare un míasma, di produrre una condizione di impurità (9).

Non è quindi sulla base di un qualche diritto derivante dalle ragioni della fuga, che il re considera la scelta da compiere e valuta il da farsi. Lo stesso chiedere alle Danaidi se i cugini non siano in realtà dalla parte della legge che regge il loro paese, e se quindi essi non abbiano su di loro una legittima potestà, non riguarda una verifica sulle ragioni della fuga, ma fa già parte di quel dialogo in cui Pelasgo considera vantaggi e svantaggi delle opzioni fra cui scegliere, valutando – potremmo dire in termini geopolitici – la legittimità della posizione dei figli di Egitto.

Nella presa di decisione, le ragioni della fuga sembrano intervenire solo come fattore aggiuntivo e affatto secondario, inducendo commozione e muovendo pertanto a compassione. La decisione in ogni caso non si basa su un eventuale diritto della persona che domanda asilo, ma su ciò che è giusto ed è bene per il re e per la città (il popolo). La decisione è, in ultima istanza, frutto di valutazioni e di considerazioni di natura prettamente politica (concernente cioè il destino della polis). La scelta di Pelasgo di appoggiare la richiesta delle Danaidi di fronte all’assemblea cittadina viene presentata come fondata sui rischi derivanti dal suscitare l’ira di Zeus supplicante e dal provocare la contaminazione della terra. Può essere interessante osservare, al riguardo, come nell’iniziale presentazione di sé e della terra di cui è sovrano, Pelasgo richiami un mito di fondazione in cui la possibilità di una vita cittadina ordinata è stata resa possibile dall’azione purificatrice di Api – figlio di Apollo, medico e indovino – nei confronti della terra che, per vendicarsi di “antichi delitti”, partoriva mostri omicidi. Un eventuale suicidio delle supplici avrebbe cioè prodotto una nuova contaminazione di Argo, riconducendola al caos ed alla violenza originari o comunque riproducendo in qualche modo la medesima situazione in cui non si può dare vita umana organizzata. Le punizioni divina e ctonia sono, per il re e per la città, più temibili del rischio geopolitico di una guerra e delle sue conseguenze nefaste. Evidentemente una guerra fra uomini non è altrettanto temibile dell’ira di forze che stanno sopra o sotto gli umani, ed il cui rispetto assicura in ultima analisi la vita nella polis e la sua stessa sopravvivenza. Forse perché la prima, benché portatrice di morte, non comporta il venir meno della possibilità stessa di una vita umana socialmente ordinata come avverrebbe se si provocasse la vendetta olimpica o, probabilmente ancora di più, quella delle potenze ctonie. La polis, la vita umana socialmente e politicamente ordinata, può mantenersi a patto di rispettare i vincoli morali e normativi che la proteggono sia dalle punizioni che provengono “dall’alto”, sia dall’essere risucchiata “verso il basso”. Il mancato rispetto di quei vincoli fondativi potrebbe essere interpretato come un tradimento di sé, dell’ordinamento che definisce la propria specifica umanità, con la conseguenza non della morte di un numero più o meno ampio di esseri umani, ma del collasso apocalittico dell’antropopoiesi costituitasi con e attraverso la polis.

Le attuali decisioni sulle richieste di asilo non si basano su considerazioni politiche o geopolitiche, almeno formalmente. Ciò non significa che i problemi che si pone Pelasgo non angustino anche gli stati contemporanei nel momento in cui ricevono flussi umani in fuga transnazionale. Le problematiche geopolitiche conseguenti alla concessione dell’asilo – almeno nel senso di un possibile rischio di guerra, effettiva o anche solo economica – riguarda ormai solo casi eccezionali. Al contrario, sono particolarmente cogenti i problemi politici innescati dall’ingresso nei confini statali di richiedenti asilo, cioè sono sempre più presenti i conflitti fra i cittadini prodotti da tali ingressi. Altrettanto problematici sarebbero però i problemi politici innescati da un rifiuto indiscriminato e generalizzato delle richieste di asilo, costituendosi come negazione di sé per rinuncia a quei principi normativi che reggono l’ordinamento degli stati democratici ed i loro assetti internazionali. Ma la decisione sulla richiesta d’asilo non si basa su tali rischi e conseguenze, né è presa da chi è incaricato di gestirli. Essa è presa da specifiche Commissioni sulla base di quanto previsto dai dispositivi legislativi riguardanti il diritto alla protezione. La decisione, inoltre, non consiste nel concedere l’asilo, ma nel riconoscere un diritto soggettivo alla protezione. In certe condizioni riguardanti le ragioni che hanno spinto alla fuga dal paese di origine, ovvero sulla base di determinate condizioni soggettive, chi domanda protezione acquisisce un diritto all’asilo che deve solo essere riconosciuto.

D’altra parte, come nel caso del re argivo di fronte alle supplici, la decisione è successiva ad un’interrogazione dei richiedenti asilo. Tale interrogazione non riguarda, o solo marginalmente, l’identità del richiedente. Almeno non nel senso della sua discendenza, in modo da stabilire in che relazione stia la sua umanità con quella dell’interrogante. Una comune umanità è assicurata, o per meglio dire è istituita in anticipo ed a priori, dal quadro legislativo dei diritti umani. Sono centrali, nell’interrogazione (intervista) effettuata, le ragioni della fuga dalla propria terra e si pone il problema di analizzare i criteri di verità sulla base dei quali le risposte sono valutate.


3. Scostamento laterale, tramite Foucault

Come in altri dispositivi analizzati da Foucault (10;11), anche nel sistema di accoglienza si pone un problema di verità, seppure nella forma attenuata della verosimiglianza. Per il richiedente asilo, si tratta della verità (verosimiglianza) di una narrazione che può conferirgli lo statuto giuridico di titolare di un diritto ad un qualche tipo di protezione internazionale o umanitaria.

Di fronte alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, il richiedente asilo è sottoposto ad un’intervista e cioè ad un dialogo con domande e risposte volto a ricostruire la sua storia. Questa storia sarà valutata dalla Commissione territoriale che finisce così per costituirsi come una sorta di basanos moderno, nello stesso senso con cui, nel Lachete di Platone, Socrate è descritto come “pietra di paragone” del rapporto che il suo interlocutore intrattiene con la verità.

La questione della verità del richiedente asilo, continuando a seguire le diverse correnti analitiche offerte dall’opera di Foucault, si può porre da due diverse prospettive.


3.1. Il sistema di accoglienza come sistema di veridizione

La prima prospettiva analitica foucaultiana configura l’audizione in Commissione come sistema di veridizione e cioè di produzione di una verità eteronoma sul soggetto, a cui quest’ultimo è sottoposto. Una simile verità è quella di essere o meno titolato alla protezione internazionale, indipendentemente dal fatto che la titolazione sia corretta o meno, cioè risponda all’effettivo svolgimento dell’esistenza del richiedente asilo nel suo paese di origine. Da questo punto di vista, la figura del richiedente asilo è accostabile a quelle del peccatore, o dell’accusato, come soggetti della confessione, o del paziente in quanto sottoposto a procedura diagnostica. Occorre precisare al riguardo che l’audizione in Commissione è solo uno degli elementi di un sistema di veridizione che in realtà è assai più ampio e che coinvolge il sistema di accoglienza nel suo complesso. In primo luogo, la preparazione della memoria del richiedente asilo allegata alla domanda di protezione e redatta con l’ausilio e la guida – in qualche modo – degli operatori delle strutture di accoglienza. Alla memoria si aggiungono le eventuali valutazioni diagnostiche (mediche, psichiatriche o psicologiche) effettuate per supportare le ragioni alla base della richiesta di protezione. Occorre poi considerare che il richiedente può ricorrere in sede giudiziale contro il diniego iniziale da parte della Commissione. In caso di ricorso, intervengono altre figure professionali (avvocati) che riconsiderano le ragioni della domanda di protezione ed anche la situazione complessiva dei loro assistiti. Alcune Commissioni, in aggiunta, auspicano – se non richiedono – la redazione di una relazione educativa da parte degli operatori delle strutture di accoglienza, relativa al comportamento ed all’atteggiamento del richiedente asilo nel corso dell’accoglienza. Il riferimento all’audizione in Commissione va quindi inteso come una sineddoche che rinvia al sistema di accoglienza nel suo insieme. Questo insieme costituisce l’aleturgia attraverso cui uno stato determina ciò che deve essere inteso come vero: non solo sullo statuto giuridico che viene ad assumere – con la decisione – il richiedente asilo, ma anche sulla sua storia e su chi egli sia. Tale potere di veridizione è tanto più ampio, nella misura in cui il racconto del richiedente asilo è ritenuto vero, poiché a quel punto quest’ultimo è legato (fissato) non solo alla decisione circa il suo statuto, ma anche ai singoli contenuti sottoscritti nel verbale di audizione (nome, nazionalità, età, composizione della famiglia, appartenenze sociali, culturali o politiche, eventi di vita, stato di salute, ecc.). Mentre nel caso di decisione contraria, il richiedente asilo è legato più semplicemente allo statuto di diniegato o, infine, di respinto in via definitiva.

Al di là della correttezza, cioè della corrispondenza al vero, di una simile decisione, lo statuto giuridico assegnato può, e deve, essere considerato alla stregua degli statuti di folle (in sede psichiatrica), di criminale (in sede penale), o di peccatore (in sede religiosa), e cioè come l’effetto di un potere che stabilisce una verità eteronoma rispetto al soggetto a cui si applica, elaborata a partire da specifici saperi e tecniche. Verità che ha il compito di regolare e governare un’anomalia che è tale rispetto all’ordine ritenuto naturale.

Un simile inquadramento del sistema di accoglienza raggiunge la sua massima pregnanza, quando il riconoscimento di una protezione si basa non su quello che il richiedente asilo avrebbe fatto o subito in patria, ma su chi è (persona con seri disturbi psichici, omosessuale, appartenente ad una qualche minoranza, ecc.) e quindi su ciò che una simile identità implicherebbe in caso di rimpatrio (mancanza di cure, discriminazione o finanche incarcerazione). In questi casi, il coinvolgimento di saperi e tecniche disciplinari può avvenire in misura massimale, benché non sempre utilmente o anche solo sensatamente. Capita, ad esempio, che per l’audizione in Commissione o per il ricorso in sede giudiziale, consulenti legali e avvocati chiedano una certificazione psicologica attestante l’omosessualità del richiedente asilo (sic).

Questa verità – essenzialmente rituale – che si impone al richiedente asilo dall’esterno, dopo che ne ha fatto richiesta con la domanda di protezione, è sempre qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto a sé. Di più nel senso che quel dispositivo che è il sistema di accoglienza, per mezzo dell’aleturgia che ne rappresenta il centro conoscitivo, sprigiona linee di forza che determinano un certo effetto di soggettivazione. Queste linee di forza possono sinteticamente essere descritte come “idea” di chi sia un rifugiato, di cosa debba fare, di quali compiti lo attendano. Ma questa “idea” è solo la forma sintetica espressiva di un insieme di procedure e tecniche di governo clinico di richiedenti asilo e rifugiati e che sono state analizzate e descritte in precedenti lavori (1; 12). Di meno nel senso che questa idea è sempre astratta ed indipendente dalle situazioni concrete dei singoli richiedenti asilo o rifugiati. È un’idea generale che in quanto tale oblitera le plurime determinazioni – familiari, culturali, religiose, politiche, ecc. – che hanno generato (inventato) precedenti effetti di soggettivazione ed altrettante verità – per così dire – in lui depositate. Di conseguenza, l’esperienza del richiedente asilo e del rifugiato, e quindi la stessa relazione di accoglienza, vanno a delineare il luogo di un conflitto, o di una vera e propria battaglia, che viene ad ingaggiarsi fra questi eteronomi ed eterogenei effetti di soggettivazione. Questo è tanto più vero nella misura in cui il sistema di accoglienza affianca al suo nucleo centrale costituito dal sistema di veridizione sopra descritto, tutta una serie di attività educative e terapeutiche che partecipano alla fabbricazione del richiedente asilo o del rifugiato. Queste attività, in realtà, costituiscono un tutt’uno con il sistema di veridizione e partecipano alla costruzione della verità eteronoma del e sul soggetto. Anzi, nel suo insieme il sistema di accoglienza si configura come un’interazione parresiastica con il migrante, finalizzata a far coincidere il suo bios con il suo logos, dopo che questo logos è sottoposto a forze che ne promuovono un allineamento, ed eventualmente una coincidenza, con il nomos vigente in terra d’asilo. Bisognerebbe allora pensare tutte le tecniche ed i metodi interattivi impiegati nel sistema di accoglienza (raccolta della memoria, certo, ma anche bilancio delle competenze, tirocini, percorsi psicologico-psichiatrici, ecc.) come corrispettivi di quelle tecniche parresiastiche utilizzate nella storia dell’Occidente, a partire almeno dall’antichità greco-romana e poi cristiana, per educare all’arte della vita e invitare o costringere infine alla cura di sé: esame di coscienza, confessione, prova di sé, ecc. (13; 14).


Quest’ultima osservazione segna il passaggio dalla considerazione del sistema di accoglienza come sistema di veridizione alla sua considerazione come strategia di governo del vivente attraverso la verità (15). Si apre cioè la possibilità di una seconda prospettiva attraverso cui analizzare il problema della verità del richiedente asilo/rifugiato. Questa seconda prospettiva non concerne il giudizio di verità sul contenuto delle affermazioni, ma il ruolo del richiedente asilo in quanto impegnato in una specifica attività verbale. Occorre in effetti comprendere quale tipo di attività verbale configuri quella a cui egli è chiamato, ed in sostanza obbligato, e che rapporto intrattenga con la verità. In particolare – riprendendo le interrogazioni foucaultiane sul parresiastes – occorre comprendere chi sia in grado di dire la verità, su cosa, con quali conseguenze, con quali rapporti col potere. Una comparazione fra l’attività verbale del profugo e quella del parresiasta può contribuire a comprendere meglio la prima, individuando i punti di contatto e di divergenza con la seconda. Anzi è forse per contrasto dell’una rispetto all’altra, che si potrà delineare la specifica attività verbale del profugo in relazione alla richiesta di dire la verità.


3.2. Il parlar franco del richiedente asilo

Nell’analisi foucaultiana, la problematizzazione della parrēsia – cioè del parlar chiaro, del dire il vero – si sviluppa nell’ambito della storia della soggettività ed è quindi connessa con le pratiche e le tecniche di sé, concentrandosi sulle diverse forme o modalità assunte da questa tipologia di attività verbale dalla Grecia antica fino ai primi secoli dopo Cristo. Si possono così vedere il senso e le pratiche da essa assunti in ambito politico piuttosto che filosofico o pedagogico, nelle diverse epoche (democratica piuttosto che monarchica ad Atene, primi secoli del cristianesimo) e nell’ambito di specifiche configurazioni di relazioni umane (la vita di comunità dei circoli epicurei, la sfera pubblica praticata dai cinici o le relazioni interpersonali – di amicizia o di direzione – nella cultura ellenistica e poi nella tradizione cristiana, ma prima ancora in Socrate). Seguendo queste diverse forme di parrēsia, si può osservare come il termine venga impiegato per indicare la critica di un cittadino che dice all’assemblea dei suoi pari (ekklesia) ciò che quest’ultima non vuole sentirsi dire. Può indicare altresì le parole di verità del filosofo contro un tiranno ed il suo uso del potere. Può, anche, essere usata rispetto agli insegnamenti del maestro nei confronti dell’allievo o, per meglio dire del direttore nei confronti di colui che è diretto (al di là del contesto relazionale in cui la direzione si svolge). Infine, il termine può indicare la libera confessione di ciò che chi parla ha fatto, nella misura in cui l’interlocutore è qualcuno che ha più potere e può pertanto agire in senso punitivo o di censura di un qualche tipo.

Ma al di là di queste diverse forme o modalità di parrēsia, Foucault (14) individua – con riferimento soprattutto alla Grecia classica – una serie di caratteristiche che ne fanno una specifica forma di attività verbale. La prima caratteristica consiste nel fatto che, in essa, il soggetto dell’enunciazione, il soggetto parlante, coincide con l’enunciandum (con il soggetto grammaticale dell’enunciato). E cioè, il parresiasta dice quella che è la sua personale opinione, quello che effettivamente crede essere vero, e lo fa nel modo più diretto, semplice e chiaro possibile. Tutto ciò lo distingue quindi dal retore che utilizza strumenti tecnici per sostenere un’opinione ed affermarla rispetto ad altre, indipendentemente dal fatto che questa sia vera o meno ed anche che egli vi creda oppure no. La seconda caratteristica riguarda il rapporto con la verità dell’opinione del parresiasta. In particolare, egli non solo o non tanto esprime un’opinione che crede sia vera ed in questo senso non si pone una questione di sincerità. La sua opinione coincide con la verità ed il possesso di quest’ultima è garantito da quello di determinate qualità morali: in particolare la corrispondenza fra il suo logos ed il suo bios, fra ciò che dice e professa ed i suoi comportamenti. La terza caratteristica riguarda il coraggio nell’esprimere la propria opinione, cioè nel dire la verità. Il parresiasta è tale nella misura in cui il parlar chiaro costituisca un pericolo, in termini di perdita della vita o di esilio a causa delle proprie opinioni, ovvero – meno drammaticamente – nel senso di perdere la propria reputazione o popolarità o di irritare un amico e dunque vedere rovinata un’amicizia. Un simile coraggio costituisce, per certi versi, una prova della sincerità del parresiasta, il suo non fingere. In questo senso, anche, egli sceglie di dire la verità per intrattenere un certo tipo di relazione con se stesso, prima ancora che con l’altro: una relazione con sé fondata sulla verità e che dunque lo distingue e lo contrappone all’adulatore. La quarta caratteristica concerne la relazione del parresiasta con l’altro, con l’interlocutore. Il parlar chiaro costituisce sempre una critica (o al più un’auto-critica) capace di urtare l’interlocutore o comunque di provocarne una reazione in qualche modo punitiva, poiché questo interlocutore ha un potere maggiore, o una maggiore forza sociale (il tiranno nei confronti dei sudditi, così come l’assemblea cittadina nei confronti di un suo singolo membro). Da questo punto di vista, la parrēsia costituisce un’attività verbale “ascensionale”: che muove dal basso e punta verso l’alto. D’altra parte ciò non significa che la parrēsia fosse un’attività a cui tutti potessero accedere. Ad esempio, nell’Atene democratica solo i cittadini maschi potevano porsi ed essere riconosciuti come parresiasti e la perdita del diritto di partecipazione al gioco parresiastico equiparava alla condizione di schiavo (un possibile rischio a cui, in fin dei conti, si sottoponeva chi decideva di parlare francamente). L’ultima caratteristica riguarda la libertà ed il dovere della scelta parresiastica. Il parresiasta è tale quando può scegliere di tacere, quando è libero di rimanere in silenzio o di adeguarsi all’opinione maggioritaria, ma decide comunque di parlar chiaro perché sente questa scelta come un dovere in qualche modo morale. La sente come un dovere nei propri confronti o nei confronti dell’altro, poiché il parlare aiuterà se stesso e l’altro a vivere meglio, ad essere più felice, più saggio, più sovrano di sé e più prossimo a sé.

Se queste sono le caratteristiche che in qualche modo tracciano i confini della parrēsia (tradotta poi dai latini con il termine libertas) e dunque che riconducono in un medesimo alveo forme e modalità del parlar franco, è pur vero che nelle analisi di Foucault (13; 14) si possono osservare elementi di continuità e di discontinuità dal V secolo a.C. al V secolo d.C. negli autori che hanno affrontato o comunque discusso questo tema. Ad esempio, da Socrate a Seneca o Galeno, rimane costante il problema di sapere chi sia il parresiasta, chi sia capace di dire la verità e, in ultima istanza, quali siano le qualità morali che deve possedere. Il problema del parlar franco non riguarda le condizioni di verità del discorso che egli tiene e cioè i modi attraverso cui si può stabilire se ciò che uno dice, ed in cui crede, sia vero o meno. Il problema riguarda le condizioni personali – e cioè le qualità morali – che costituiscono le condizioni di possibilità del dire la verità. E queste condizioni personali, queste qualità morali, da Socrate a Seneca, concernono sempre la corrispondenza, fra logos e bios, fra ciò che uno dice ed il modo in cui si comporta. Il nodo cruciale è l’adeguatezza del secondo fattore al primo: che il comportamento rispecchi punto a punto le verità che il parresiasta formula. Il parresiasta deve costituire un exemplum. Allo stesso modo, rimane costante, dal dialogo socratico all’animi negotium di Seneca, la qualità del parlare del parresiasta che deve essere semplice, diretto, privo di enfasi: si tratta sempre di un’ostensione del pensiero che in qualche modo prende le distanze e si differenzia dalla retorica. Ancora, e forse soprattutto, dalla Grecia antica ai primi secoli del cristianesimo, la parrēsia costituisce una tecnica psicagogica: cioè un modo finalizzato non solo, e non semplicemente, a dotare l’altro di certi saperi, di determinate attitudini o capacità, in modo che egli le conservi nella sua memoria (pedagogia). Più profondamente, il gioco parresiastico mira a trasformare il modo di essere dell’altro (13). La parrēsia è la condizione di possibilità di trasmissione del discorso vero, ma in modo che nell’interlocutore si produca una conversione, una maggiore se non completa prossimità a sé, una corrispondenza fra discorso vero e comportamento, tra verità e modo di vita. Questa trasmissione è essenzialmente verticale: dal parresiasta all’interlocutore.

Tuttavia, nell’arco dei secoli considerati, Foucault individua anche delle discontinuità, o quanto meno degli scivolamenti nella problematizzazione della parrēsia. In particolare, si assiste al passaggio della sua tematizzazione da attività verbale di tipo politico e pubblico, come nella Grecia antica, esercitata nello spazio dell’agora o, più tardi, in epoca monarchica, alla corte del sovrano, ad attività verbale che ha un ruolo particolare e specifico nel rapporto interindividuale, se non duale, in cui si tratta di convincere qualcuno a cambiar vita, di condurlo alla necessità di prendersi cura di sé e degli altri. In questo senso, si assiste ad un passaggio dalla parrēsia come istituzione della polis ateniese che contribuisce a definirne il carattere democratico, o anche come privilegio (del cittadino), alla sempre maggiore enfasi della parrēsia come attitudine personale. Purtuttavia, il peso della verità in quest’attività psicagogica resterà pur sempre dal lato di chi detiene quella verità, dal lato del maestro. La conversione, la trasformazione radicale di sé, del discepolo o dell’allievo, è possibile proprio perché il direttore detiene e trasmette la verità. È solo più tardi, nella psicagogia cristiana che il peso della verità, del parlar franco, graverà su colui che deve essere guidato. L’anima di quest’ultimo potrà essere guidata, cioè trasformata profondamente nel suo modo di essere, solo se accetterà di dire la verità su se stessa. Nella confessione cristiana, in altri termini, il soggetto dell’enunciazione dovrà essere il riferimento dell’enunciato, il suo oggetto.

Dopo questa lunga, per quanto sintetica, disamina della figura del parresiasta operata da Foucault, è possibile effettuare, per contrasto, un’analisi della specifica attività verbale del richiedente asilo. A tal fine appare proficuo ritornare sulla tragedia eschilea, poiché permette di mettere in evidenza alcuni giochi identitari che si sviluppano in quella zona di frontiera cui introduce la richiesta di asilo (1).


4. Ritorno a Le supplici di Eschilo: giochi identitari nella richiesta di protezione

Nel secondo paragrafo si è fatto riferimento alla conoscenza, o alla competenza, delle Danaidi riguardo al rituale greco dell’ichesia, specificando tuttavia che la sua applicazione può essere interpretata come parziale e sovvertita. Nonostante questa parzialità e, comunque, unitamente alle conoscenze mitiche che appaiono invece salde, Pelasgo riconosce che le supplici stanno dicendo il vero (“RE: Anche a me pare che antichi legami vi stringono a questo suolo…”). La precisazione sull’applicazione deformata o sovvertita della ritualità rinvia in effetti ad una questione discussa in letteratura relativa all’effettiva “appartenenza etnica” delle Danaidi. Nell’analisi di Passariello (16), gli elementi problematici di tale appartenenza sono svariati. Immediato è il riscontro della stessa auto-descrizione delle Danaidi come parlanti una lingua straniera e dotate di un incarnato scuro. Il re argivo, inoltre, compara la loro apparenza a quella di donne barbare: etiopi, libiche, e così via. A questa valutazione interna al testo stesso, Passariello aggiunge una serie di argomentazioni derivanti dall’analisi testuale. In primo luogo, le Danaidi mostrano di ignorare le istituzioni democratiche greche, rifiutando la necessità avvertita da Pelasgo di interrogare l’assemblea cittadina circa la risposta da dare loro e incitandolo ad assumere un ruolo – quello di detentore di un potere assoluto e autarchico – maggiormente attagliato ad un sovrano di stampo orientale. Parimenti, sul piano religioso sembrano insinuarsi elementi stranieri in particolare egizi, quando la corifea – avvertita dal padre dell’arrivo di uno stuolo armato – invoca i “raggi del Sole” per propiziare un atteggiamento benigno da parte degli argivi, benché Danao subito risponda “Sì, il puro Apollo, dio che fu cacciato dal cielo”. Allo stesso modo, il loro rifiuto del matrimonio, come strenua difesa della propria verginità o perché rifiutano la specifica unione in quanto sostanzialmente incestuosa, le costituirebbe se non proprio come barbare, almeno come estranee al tipico modello antropologico greco, secondo cui, per la donna, il matrimonio e la procreazione, a maggior ragione con i cugini, costituirebbero l’ideale da perseguire. In secondo luogo, le Danaidi non si confanno precisamente al rituale della supplica, poiché con le loro parole, invece che adottare uno stile umile e sottomesso – come per altro raccomandato dal padre Danao – assumono, secondo l’autrice, una postura ed un tono privo di vergogna, se non spudorato e tracotante, arrivando a minacciare Pelasgo. Le Danaidi, cioè, sovvertirebbero il rituale della supplica, introducendovi elementi e posture morali incompatibili con l’ethos argivo: egoismo, prepotenza ed empietà. Le Danaidi, nel dialogo col re argivo, non darebbero affatto prova di quella vergona/pudore che interdice dall’interno il comportarsi male (αἰδώς), così centrale nella società greca arcaica, e che Pelasgo, al contrario, mostra compiutamente nei loro confronti. Addirittura, sottolinea ancora l’autrice, Eschilo sembra adottare un espediente metrico per sottolineare l’inversione o la sovversione dei ruoli e delle posture operate dalle supplici: i versi, dove il Coro arriva ad annunciare la maledizione di Pelasgo, dei suoi figli e della città tutta in caso di rifiuto della supplica, seguono un ritmo cretico tipico delle situazioni di tipo militare e pertanto adatto ad esprimere in modo prepotentemente maschile una richiesta. Esse, infine, come già sottolineato, arrivano persino a presagire, con il loro eventuale suicidio, una terribile contaminazione della città, costituendosi quindi come persecutrici piuttosto che come perseguitate, come implicherebbe invece la loro supplica di protezione.

In sostanza mentre la figura del supplice viene usata nella tragedia per evidenziare ed esaltare, in contrapposizione a quelli barbari, valori tipicamente greci come la giustizia (δίκη), la pietà/devozione (εὐσέβεια) e la saggezza (autocontrollo e rispetto delle regole: σωφροσύνη), le Danaidi mostrano un atteggiamento radicalmente diverso, se non opposto. Al di là del loro riconoscimento come di origine argiva da parte di Pelasgo, Passariello (16) arriva a concludere che esse – dal punto di vista dell’identità etnica – si costituiscono come alterità rispetto al modello ideale greco e come sostanzialmente barbare.

Tuttavia su alcune argomentazioni di Passariello (16) può essere legittimo mantenere dei dubbi. Ad esempio, sembra lungi dall’essere così eticamente definita la posizione del supplice nella Grecia classica o arcaica. Raffronti fra vari tipi di supplica (fra quella dello sconfitto in battaglia e quella dello straniero che chiede protezione, quella rivolta al sovrano e quella rivolta alle divinità) mettono in evidenza la sua strutturale ambiguità, sempre oscillante fra sottomissione e annullamento di sé, da un lato, e potenziale aggressivo dissimulato nei gesti rituali o nelle formule verbali utilizzate, dall’altro. Le formule verbali utilizzano tutte le armi retoriche a disposizione per ottenere il massimo guadagno – cioè l’accoglimento della supplica – e ricorrono alle risorse necessarie – come l’astuzia – anche se non conformi a quello che Passariello considera l’atteggiamento morale tipico del supplice (17). Non sembra poi così certo che la ragione della fuga dall’Egitto si costituisca come elemento estraneo all’ethos greco. Secondo un’ipotesi avanzata da alcuni autori, l’ordine della trilogia eschilea di cui Le supplici fanno parte, ed andata in gran parte perduta, vedrebbe la tragedia qui presa in considerazione preceduta da quella intitolata Egizi. In quest’ultima, si apprenderebbe che un oracolo aveva annunciato la morte a Danao per mano di un genero, motivandolo così alla fuga insieme alle figlie (Rösler W., “Der Schluß der ‘Hiketiden’ und die Danaiden-Trilogie des Aischylos”, in Rheinisches Musuem, 136, pp. 1–22, 1993 e Sommerstein A., “The beginning and the end of Aeschylus' Danaid trilogy” in The Tangled Ways of Zeus and other studies in and around Greek Tragedy, Oxford, pp. 89-117, 2010; entrambi cit. in 17). Infine, il minacciato suicidio tramite impiccamento costituisce una modalità tipicamente femminile di morire nelle tragedie greche (9), benché le Danaidi – da vergini – annuncino lo svolgimento di un simile atto non nelle profondità della casa in cui le donne elleniche sono relegate (non nella camera nuziale, thálamos; men che meno nel letto nuziale, lékhos), ma in luogo pubblico, presso gli altari. D’altra parte, non solo – in quanto vergini – esse sono prive di marito (e di letto nuziale), ma anche – in quanto straniere non ancora accolte dalla città – sono ancora prive di una casa. Forse più che fondamentalmente altre e barbare, le Danaidi conservano, ad ogni passo dell’analisi, una strutturale ambiguità rispetto alla loro identità etnica: rappresentanti non di un’alterità ontologicamente data, o strutturale, ma del divenire metamorfosico in corso di migrazione e nel contatto fra culture.

A questo punto, la situazione che si presenta è la seguente: Pelasgo arriva ad accettare l’origine greca delle Danaidi, mentre queste presentano ampi tratti di alterità barbarica riconosciuti direttamente dai personaggi della tragedia o comunque ricavabili da un’analisi del testo. Si pone quindi il problema di provare a comprendere quale rapporto esista fra l’uno e l’altro polo di una simile contraddizione. La quale, per altro, è resa ancora più stridente dal fatto che i figli di Egitto, al pari delle cugine, e cioè sulla base della discendenza, avrebbero titolo per essere considerati dal re argivo, ed ancor più dalle stesse supplici, come elleni. Invece sono da tutti considerati e trattati come barbari. Del resto, nella tragedia, assumono comportamenti barbari e loro stessi si dichiarano tali: l’araldo che cerca di strappare con la forza le Danaidi dagli altari e condurle alle navi, afferma al cospetto di Pelasgo intervenuto per fermarlo: “Io venero i demoni delle contrade del Nilo”.

La situazione può essere analizzata partendo da due opposte premesse. Se le Danaidi hanno detto la verità, allora si danno due gruppi (uno maschile e l’altro femminile) con la medesima origine argiva ma che, dopo un certo numero di generazioni “migranti” in terra egizia, si posizionano diversamente. Il gruppo maschile si dichiara, ha un’apparenza e si comporta in tutto e per tutto come barbaro. Quello femminile, al contrario, pur avendo un’apparenza (dal punto di vista somatico e linguistico) ed eventualmente alcuni modi barbari, si dichiara greco e si comporta come tale. Il che potrebbe essere presentato in questo modo: nella discendenza egiziana di Io (e Zeus) la linea familiare che porta alle Danaidi ha mantenuto un attaccamento alla propria origine e cultura, mentre l’altra si è avviata – ad un certo punto, volente o nolente – lungo un processo di completa assimilazione culturale all’ambiente circostante o, al più, di formazione di una neocultura poi divenuta parte integrante del paesaggio culturale locale. È del tutto superfluo soffermarsi sul fatto che la discendenza di Io (che da Epafo, attraverso Libia e Belo, conduce ai fratelli Danao e Egitto) abbia dovuto, o al più potuto, procreare unendosi con partner effettivamente locali per potersi perpetuare, derivandone un tratto somatico egiziano nella prole, pur potendo mantenere una cultura e un’identità greca. Ovvero, si potrebbe anche considerare la possibilità che entrambe le linee di discendenza siano andate incontro a processi più o meno compiuti di assimilazione al contesto culturale egizio, pur mantenendo entrambe tracce (saperi, racconti, ecc.) della propria origine greca. Nel momento in cui ne hanno bisogno, e cioè al fine di ottenere la protezione, le Danaidi richiamano strumentalmente quelle tracce, mentre i cugini non ne avvertono la minima esigenza ed anzi si mantengono fedeli a quello che sono diventati. Ovviamente, queste possibilità rappresentano “casi” specifici di una più vasta gamma di possibilità di scenari identitari che derivano dal contatto asimmetrico fra culture (18).

Se invece le Danaidi hanno mentito sulla loro origine, allora vi sono due gruppi parimenti barbari ma che presentano un destino identitario e culturale diverso in funzione del rapporto che decidono – volontariamente o costrette dalla necessità – di intrattenere con la terra argiva. Le Danaidi chiedono protezione in Grecia, adottano – più o meno convintamente – le conoscenze mitiche, la religione e le pratiche rituali del paese di approdo. Al contrario, i loro cugini – niente affatto desiderosi di essere accolti in Argo ed anzi motivati a tornare in patria una volta catturate le donne – si mantengono fedeli alla propria religione ed al proprio ethos barbari. Nel caso delle Danaidi si tratterebbe in altre parole di un processo di acculturazione più o meno totale, a seconda dei punti di vista, oppure di un semplice mimetismo culturale a fini difensivi, fino alla rinuncia alla propria identità come strategia difensiva di fronte al rischio di annientamento (19). La loro si configurerebbe come una “grecità” acquisita, effettivamente o fittiziamente, magari favorita da quella che oggigiorno viene chiamata acculturazione anticipatoria (e cioè il processo di acquisizione di conoscenze sull’altro verso cui si vuole emigrare, avviatosi già nel paese di origine e arricchitosi ed ampliatosi progressivamente nel corso del viaggio). L’evenienza acculturativa o il mimetismo culturale possono essere sostenuti se si considera non tanto la tragedia in sé, ma la pratica effettiva della supplica finalizzata ad ottenere protezione e asilo in Grecia. Devereux (20) mostra come nelle Baccanti di Euripide sia condensato un intero processo psicoterapeutico condotto da Cadmo nei confronti di Agave; allo stesso modo l’opera eschilea non può che condensare nel tempo della rappresentazione l’effettivo svolgersi della suddetta pratica. I tempi effettivi del suo compiersi devono necessariamente essere stati assai più lunghi: apprendimento della lingua greca per formulare la supplica, avanzamento della richiesta di protezione nel momento della convocazione da parte del sovrano o di suoi delegati, convocazione dell’assemblea con i suoi tempi per arrivare ad una votazione sulla richiesta. In effetti, l’ichesia è anche un istituto connesso e parallelo a quello dell’asilo vero e proprio (asulon: inviolabile). Entrambi di natura religiosa, sono connessi all’ingresso nei luoghi sacri che trasferiscono sulla persona una inviolabilità. Mentre l’asulon configura una protezione universale e automatica (almeno nella Grecia arcaica), con l’ichesia chi accede al luogo sacro gode di una temporanea inviolabilità e della possibilità di presentare la richiesta di protezione alle autorità sovrane del luogo dove sorge il santuario attraverso il rituale di supplica. “I riti cui partecipa il supplice sono parte di una complessa procedura che egli deve osservare per meritare il favore degli dei. Le divinità, attraverso la libera volontà del sovrano, mentre offrono asilo agli innocenti e ai criminali involontari, favoriscono al massimo un trattamento giudiziario più mite – o almeno il rinvio dell’esecuzione della condanna – per chi viene giudicato colpevole. Il supplice … è sottoposto ad una sorta di processo al fine della determinazione della sua posizione” (7, p. 175).


Pelasgo si trova davanti diverse possibilità di valutazione dell’affermazione identitaria delle donne dai tratti somatici e dalla lingua barbari, ma tutte sostanzialmente inverificabili dal suo punto di vista: mantenimento transgenerazionale dell’identità greca, recupero tattico delle tracce identitarie e culturali greche, acculturazione più o meno completa, mimetismo culturale. Occorre però considerare come non sia questa la prospettiva con cui viene giudicata la verità nella Grecia classica e muovere da quella per cui il problema è il rapporto fra il soggetto dell’enunciazione ed il soggetto grammaticale dell’enunciato. Di conseguenza, il problema è relativo alla decisione sul tipo di attività verbale in cui le supplici sono ingaggiate: se il loro sia un parlar franco (14).

In effetti, conformemente all’assetto relazionale della parrēsia (ma anche dell’adulazione), le supplici si trovano in un’asimmetria di potere con l’interlocutore che può decidere sul loro destino. Il loro parlare comporta un rischio. Tuttavia, questo rischio (essere riconsegnate ai cugini) è anche ciò che potrebbe spingere a mentire, almeno nel senso dell’adozione di tutte quelle strategie e formule retoriche, ovvero adulatorie, volte all’ottenimento del massimo guadagno (8).

Se si analizza il discorso e l’atteggiamento delle Danaidi nel dialogo con Pelasgo, si può osservare come possano non tanto rinviare a modalità morali contrastanti ed opposte all’ethos greco, ma costituirsi come critica del re argivo e dunque assumere un’ulteriore caratteristica della parrēsia. Nel criticare il sovrano, cioè nell’esortarlo ad agire in certo modo al fine per mantenersi fedele a quei principi morali di derivazione religiosa a cui anche lui è sottomesso, le supplici mostrano quel coraggio tipico di questa tipologia di attività verbale. Lo mostrano con quella parlata semplice e diretta e quella forma di dialogo con domande e risposte entrambe peculiari della parrēsia (14), in questo seguendo i consigli paterni e la stessa richiesta dal re argivo. Le suppliche nel mondo greco vengono argomentate con richiami alla legge ed alla morale e la risposta di chi è stato supplicato si basa anche, se non soprattutto, sulla valutazione dell’integrità del supplicante (21).

Questa valutazione è proprio ciò che riguarda le due caratteristiche della parrēsia ancora mancanti all’appello analitico e che si presentano come le più problematiche nel momento in cui l’attività verbale promana da persone provenienti da altrove geoculturali e costrette a chiedere protezione. In queste situazioni manca quella consuetudine di rapporti che permette di verificare la corrispondenza fra logos e bios, come è assente la condizione di libertà di tacere ed al contempo di dovere morale a dire il vero. Il periodo di conoscenza è ristretto ai tempi della supplica di protezione – per quanto effettivamente più lunghi nella realtà, di quanto non lo siano nel tempo scenico della tragedia – e si riconosce la presenza di un obbligo oggettivo e di un interesse soggettivo, un tornaconto personale, a parlare. Questo periodo oltretutto è segnato dal contatto fra gruppi culturali e sociali differenti e dai giochi identitari più sopra descritti.


4.1. Effetti su chi riceve la supplica

Pelasgo si trova nell’impossibilità di sapere se le supplici sono impegnate in una pratica parresiastica (mi stanno dicendo il vero), in una pratica retorica (stanno cercando di far valere le loro affermazioni indipendentemente dal fatto che vi credano o che siano vere), ovvero in una pratica adulatoria (mi stanno illudendo). Seguendo le analisi di Foucault (13) si potrebbe affermare che i dati maggiormente perspicui, sulla cui base decidere, siano costituiti dagli effetti di potere dell’attività verbale e dal processo di soggettivazione di chi riceve la supplica. In altri termini, può essere possibile trovare un metro di giudizio – del tutto impalpabile, comunque – nel contro-transfert culturale (22) che si produce nella richiesta di protezione in funzione della specifica attività verbale esercitata dal richiedente.

Secondo Foucault (13) la differenza radicale, la vera e propria opposizione, è fra parrēsia e adulazione (kolakeía, κολακεία), mentre con la retorica esisterebbe solo una differenza relativa. Nel senso che la parrēsia può essere considerata come il grado zero della retorica, una sorta di variante originaria, naturale e spontanea, del tipo di formule retoriche indicate da Quintiliano con il termine di exclamationes.

In termini di potere, con l’adulazione, attraverso le formule tese ad esaltare le qualità del suo destinatario, ciò che alla fine si produce è un’inversione dei rapporti di forza. Non solo l’adulatore, occupante in avvio una posizione subordinata, riesce ad ottenere ciò che il suo potere non gli consentirebbe di raggiungere autonomamente, ma il punto terminale di un siffatto rapporto è costituito da un’inversione delle posizioni, per cui l’adulato finisce per ritrovarsi dipendente dall’adulatore.

In termini di soggettivazione, l’adulazione produce in colui che viene adulato una visione illusoria di sé (della propria forza, del proprio potere, della propria bontà, ecc.), dell’altro e, in fin dei conti, della realtà nel suo complesso. “L’adulazione, insomma, rende impotenti e ciechi coloro ai quali essa viene rivolta” (13, p. 335).

Al contrario ed in modo perfettamente antitetico, nell’interazione parresiastica, grazie alla verità e per suo tramite, ciascuno rimane nella propria autonomia, rimane presso di sé e ancora di più si approssima a sé. È il caso di chi parla in modo veritiero, poiché rimane fedele a sé stesso e rispetta quella relazione che esiste fra sé e la verità; è il caso anche di chi riceve le parole veritiere che, in quanto tali, non inducono una visione illusoria della realtà propria e altrui.


Tutto ciò può essere tradotto in termini psicologico-psichiatrici e riferito alle attuali richieste di protezione internazionale, considerando una serie di polarità qualitative che caratterizzano il contro-transfert culturale di chi le riceve, quando formulate secondo una modalità adulante. In primo luogo, un sottile vissuto di dipendenza da chi quella richiesta avanza, contrapposto a quello di un’assoluta indipendenza di giudizio dall’influenza dell’altro. Si tratterebbe non tanto di una dipendenza dallo specifico altro che richiede protezione, ma da un certo sentimento di sé nel poter decidere se riconoscerla o meno. Viceversa, una negazione di tale dipendenza potrebbe provocare un atteggiamento decisorio rigido, nella convinzione di essere fondato solamente su dati oggettivi o nel tentativo di rigettare l’influenza operata dall’altro. In secondo luogo, un vissuto incentrato sulla polarità onnipotenza/impotenza, dove un’esaltazione di sé più o meno accentuata procede parallelamente, o alternandosi, ad un sentirsi privo di quelle qualità che si reputerebbero necessarie e opportune per svolgere il compito. Infine, la convinzione di aver compreso definitivamente – per così dire – l’altro, di essere riusciti a confinarlo in un qualunque quadro concettuale o tecnico-procedurale, in un qualsivoglia dispositivo, contrapposta a quella della totale ed altrettanto definitiva certezza che l’altro sia inconoscibile o che, in ultima analisi, non valga la pena di provare a conoscerlo.

L’effetto dell’adulazione su chi ne è il destinatario è sempre quello di impedire od ostacolare la conoscenza di sé, con la conseguenza di precipitarlo nell’incoerenza: nell’aleatorietà delle scelte e delle decisioni, nell’occasionalità delle opinioni e nella caducità dei convincimenti.

Ovviamente tutto ciò non può essere limitato a chi – amministrativamente ed in senso stretto – è deputato a decidere della richiesta di protezione internazionale, ma si estende a tutte le figure che a vario titolo partecipano del sistema di accoglienza per le ragioni già evidenziate in questo testo e in precedenza (1).

Ma, continuando a traslare dal tempo antico alla situazione attuale, se Pelasgo è il re, forse, una conseguenza inattesa, in termini di auto-illusione, si può riscontrare anche al livello più astratto e generale del governo degli stati nazionali lusingati nella loro democraticità dalle “suppliche” di protezione da parte di flussi umani continui provenienti da stati disfatti, autoritari, totalitari, criminali, o semplicemente poveri. Auto-illusione che potrebbe mostrare i suoi effetti deleteri sul piano della geopolitica internazionale, nel momento in cui si venisse a formare un’immagine manichea di un qui eccessivamente e falsamente paradisiaco e di altrove irrimediabilmente infernali. Tanto più che le stesse democrazie non risultano immuni – in tempi di lotta al terrore – dall’attrazione fatale verso pratiche violente e disumanizzanti (23).


4.2. Effetti sul supplice

Nel secondo paragrafo, si è visto Pelasgo interrogare le Danaidi sulla loro identità e sulla loro richiesta a cui segue un dialogo incentrato sulla valutazione della decisione da prendere. Si è anche ipotizzato che la parte relativa all’identità non fosse solo, o principalmente, destinata all’identificazione delle supplici, ed eventualmente al tipo di rapporto fra loro e gli argivi, ma piuttosto ricoprisse la funzione di valutare il loro parlar franco o meno. Occorre tuttavia approfondire questo punto, poiché la parte parresiastica – là dove se ne accetti la presenza – non è certamente questa, ma appunto il successivo dialogo fra il re argivo e le straniere. In altre parole, occorre comprendere in che rapporto stiano, rispetto alla verità, la dichiarazione identitaria e la critica anticipatoria a Pelasgo sul comportamento da tenere rispetto alla supplica.

Allorquando il gioco parresiastico si sviluppa fra due interlocutori reciprocamente estranei, come avviene fra Pelasgo e le straniere Danaidi, entra in crisi una delle caratteristiche della parrēsia: quella della valutazione dell’integrità del parresiasta, di quanto in lui il logos sia adeguato al bios.

Evidentemente un autoctono ed uno straniero possono essere legittimamente integri nei rispettivi modi e secondo i rispettivi ethos. Ciascuno, cioè, può incarnare l’adesione ai propri principi. Ciò implica che un’attività parresiastica, nell’ambito di persone appartenenti a mondi culturali diversi, comporterebbe la produzione non di una conversione a sé, ma all’altro. Implicherebbe, se efficace, non un incremento della propria autenticità di vita, ma al contrario un tradimento di sé, in chi riceve la supplica. L’unica possibilità per far sì che si dia una pratica parresiastica, nell’ambito di una supplica di protezione come quella delle Danaidi, è che i rispettivi logoi arrivino a coincidere, pena il decadimento nell’insensato di tutta l’interazione.

Si giunge in questo modo a dover considerare l’ipotesi che nella pratica dell’ichesia messa in atto da uno straniero sia presente un vincolo ad approssimarsi all’interlocutore autoctono, secondo un movimento inverso al dislivello di potere. È chi sta in basso che deve andare verso l’alto e solo a questo punto – garanzia di una almeno apparente uniformità dei rispettivi logoi – chi continua comunque a stare in basso può criticare chi permane in alto ed in possesso del proprio maggior potere. In queste situazioni allora è presente un vincolo alla trasformazione identitaria del supplice. È questa trasformazione che può permettere a chi riceve la supplica di valutare l’integrità del supplice e di accettare la verità del suo parlare, senza tradire se stesso. Evidentemente se il supplice mantenesse la propria identità, si preservasse estraneo, rischierebbe l’illegittimità nel richiamare l’altro al rispetto dei suoi principi, valori e norme. Un simile richiamo risulterebbe se non falso, almeno privo di forza, poiché emesso da un soggetto in difetto dell’integrità necessaria: sarebbe un’invocazione al rispetto del logos dell’altro mentre il proprio bios rimarrebbe difforme (cioè conforme al proprio di logos).

L’ambiguità identitaria delle Danaidi potrebbe indicare proprio l’effetto di una simile necessità alla metamorfosi identitaria nel momento in cui chiedono protezione agli argivi o, per meglio dire, nel periodo necessario per passare con successo da un’inviolabilità temporanea ad una protezione definitiva.

L’accettazione o il riconoscimento della comune origine argiva da parte di Pelasgo potrebbe indicare non tanto un dato identitario antecedente all’incontro, ma il compimento di un processo acculturativo, o eventualmente di mimetismo culturale, che la fuga ha innescato.

Il riconoscimento della “grecità” delle Danaidi da parte degli argivi costituirebbe, da questo punto di vista, o una “finzione sociale” che permette a questi ultimi di applicare i propri principi e di mantenersi quindi vicino alla propria verità, a sé, ovvero il sigillo al compimento di un processo di assimilazione dell’altro.


Tutto ciò è alla base di quei giochi identitari a cui è vincolato il supplice, con le relative conseguenze sul valore attribuibile alla sua attività verbale, sempre oscillante fra parrēsia, retorica ed adulazione e sempre passibile di tramutarsi dall’una all’altra.


5. Provando infine a vedere davanti…

In questo scritto mi sono avventurato nell’analisi de Le supplici di Eschilo, con la prudenza necessaria quando si entra in ambiti disciplinari posti decisamente ai confini o addirittura esterni al territorio normalmente praticato. L’obiettivo tuttavia non era apportare una maggiore chiarezza o un incremento di conoscenze in un ambito che non mi compete, bensì provare a mettere in evidenza ciò che succede oggi nel regime frontaliero dell’accoglienza a richiedenti asilo e rifugiati. Attraverso questo rivolgimento indietro dello sguardo, ho ritenuto di poter mettere in evidenza alcuni processi la cui comprensione appare oggi quanto mai necessaria, pur nella consapevolezza del salto antropologico fra la Grecia del V sec. a.C. e ed il contesto attuale della gestione delle richieste di protezione internazionale.

Oggigiorno i migranti che giungono infine in una qualche Argo contemporanea non sono tenuti a sottoporsi al rituale della supplica, dopo aver acquisito una temporanea inviolabilità presso i locali luoghi sacri. Tuttavia un rituale è attivato e prevede un periodo protratto di accoglienza presso altari ormai del tutto secolarizzati e innalzati più o meno coerentemente e compiutamente ai dispositivi giuridici nazionali e internazionali che regolano la protezione internazionale.

Nel rituale della richiesta di protezione internazionale ritornano le interrogazioni sull’identità del richiedente e sulle ragioni che lo hanno spinto a fuggire dal paese di origine. Il dialogo che ne segue – almeno teoricamente – non mira tuttavia a valutare le conseguenze politiche e geopolitiche del riconoscimento della protezione, bensì la verità – o almeno la verosimiglianza – delle suddette ragioni, poiché è da queste che dipende la costituzione del migrante in quanto titolare di un diritto.

L’apparente isomorfismo del rituale contemporaneo, rispetto a quello antico, nasconde in realtà una serie esiziale di differenze. In primo luogo, non c’è una concessione della protezione in risposta ad una supplica sulla base di principi e imperativi religiosi, ma il riconoscimento – nel caso – di un diritto che è già consustanziale alla persona che avanza richiesta di protezione. In secondo luogo, l’interrogazione sulla sua identità non rinvia alla necessità di determinare la posizione dell’altro rispetto al noi, cioè la relazione intrattenuta dalle rispettive umanità di appartenenza. Essa fa già parte della valutazione delle ragioni che possono indicare l’esistenza del diritto alla protezione: sia là dove una qualche condizione soggettiva a valenza identitaria implichi di per sé la necessità di riconoscere un qualche tipo di protezione rispetto al paese di provenienza; sia che quell’identità supporti, rafforzi o renda plausibili se non credibili, le ragioni addotte per motivare la fuga. Infine, il problema della verità nelle procedure di esame della richiesta di asilo, e latamente in tutto il percorso di accoglienza, si pone in tutt’altra maniera. Al richiedente è sempre richiesto di “parlar franco”, ma in un senso completamente diverso e maggiormente conforme ai criteri introdotti dalla rivoluzione operata dal cristianesimo, piuttosto che a quelli propri della parrēsia nella Grecia classica (13).

Nella parrēsia cristiana la persona non è chiamata a pronunciare un discorso di verità dimostrando che questa verità informa la sua vita o presentandosi come esempio di quella verità. Piuttosto è tenuta a formulare un discorso vero su di sé, sulla cui base potrà essere giudicata, guidata, perdonata, ovvero sulla cui base potrà essere trasformata. È rivelando questa verità di sé, attraverso l’osservazione di sé, che si compirà la funzione di modificare il suo modo di essere. Si tratta della psicagogia cristiana che si realizza per mezzo della confessione ed in cui il soggetto dell’enunciazione diventa il riferimento dell’enunciato.

Nella formalità delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale non è presente alcuna intenzionalità di modificazione dell’altro: l’altro è esplicitamente riconosciuto per ciò che è già, o almeno che è già diventato nel suo paese per le ragioni che ne hanno motivato la fuga. Tuttavia, occorre considerare, sulla base di quanto fin qui esposto, come nelle procedure dell’accoglienza sia implicitamente presente un’intenzionalità trasformativa immanente dagli effetti psicagogici. La verità del supplice è quella dell’altro (è il logos dell’altro) e lui la afferma cercando di presentare la propria vita come adeguata ad essa (al limite in modo fittizio) in modo che l’interlocutore possa riconoscerla come propria; in modo che possa farla propria, riconvertendosi a sé ed agendo di conseguenza. La verità del richiedente asilo è quella propria, o meglio quella depositata in lui, ma formulata secondo i codici dell’altro in modo che l’interlocutore possa accettarla e riconoscerla come vera, a patto che sia suffragata o almeno avvalorata da tutta una serie di elementi che in misura maggiore o minore esorbitano dal richiedente stesso (certificazioni mediche, psichiatriche o psicologiche, informazioni sulla situazione politica del paese di provenienza, ecc.). Occorre che quella verità che è nella persona, che è considerata fare uno con essa, in qualche modo ed in una qualche misura, sia provata o suffragata dai fatti. È necessario che essa sia rispondente a questi, secondo forme espositive accettabili, così che se ne possa almeno constatare la verosimiglianza. In tutto ciò si registra un ulteriore cambiamento: il problema è diventato quello della verità delle affermazioni del richiedente asilo, non il suo parlar franco o meno. Il giudizio è soprattutto, almeno in teoria, sulla verità del contenuto delle sue affermazioni, non sulla sua integrità, sulla corrispondenza fra il suo logos ed il suo comportamento o la sua vita. Al più, attraverso opportune certificazioni mediche o psicologico-psichiatriche, può essere preso in considerazione il fatto che quel peculiare logos costituito da segni e sintomi clinici avallino o siano “compatibili” con le sue affermazioni. Ma anche in questo caso, a dover essere adeguati non sono il logos dell’altro (fatto proprio dal richiedente asilo) e la sua vita, ma il suo logos ed un logos altrui e da altri emesso (medici, psichiatri e psicologi). Questo logos altrui testimonia del comportamento e della vita del richiedente asilo e si costituisce pertanto come elemento che avvalora o al contrario mette in dubbio le sue affermazioni. I saperi disciplinari partecipano in tal modo alla costruzione della verità (o falsità) del richiedente asilo, ovvero a quel sistema di veridizione che è stato più sopra descritto (cfr. paragrafo 3.1.). È anche per queste ragioni e sulla base di queste procedure che nel precedente testo (1) si è messa in evidenza la compenetrazione fra potere sovrano, biopolitico e disciplinare che si realizza nel sistema frontaliero dell’accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati.

Parallelamente a tutti questi elementi di discontinuità fra il rituale dell’ichesia e la richiesta di protezione internazionale, si possono ritrovare processi e fenomeni comuni o quanto meno simili.

Se è vero che il problema della verità si pone in modo affatto diverso nei due casi, è altrettanto vero che il richiedente asilo attuale è impegnato, nell’audizione e più in generale nel regime di accoglienza, in attività verbali che, di volta in volta, assumono le forme parresiastica, retorica o adulatoria. Insieme ad una parrēsia informata dalla rivoluzione cristiana, si riscontrano giochi parresiastici classici in cui egli critica l’interlocutore (sia esso un commissario, un operatore sociale, un avvocato o il sistema dell’accoglienza nel suo complesso) richiamandolo ad agire conformemente ai principi che lo dovrebbero guidare. Tali principi, beninteso, non sono più le norme religiose, ma i dispositivi legislativi in tema di protezione internazionale e di diritti umani nel loro complesso. A tal fine, anche il richiedente asilo rivendica una comune umanità con l’interlocutore ma questa comune umanità non discende dall’affinità di stirpe. Discende da quell’universalità del genere umano che il diritto istituisce. Benché il bersaglio possa essere considerato sbagliato, e cioè pur non possedendo l’appello a tali principi capacità risolutive della richiesta di protezione in senso positivo, la relazione di accoglienza nel suo complesso e l’audizione in Commissione territoriale in particolare vedono la presenza di entrambe le tipologie di attività parresiastica e delle rispettive psicagogie.


La presenza dell’attività parresiastica di stampo greco comporta la necessità di prendere in considerazione il vincolo all’approssimazione all’altro a cui è soggetto il migrante per via della richiesta di protezione. Ancora una volta, questo approssimarsi all’altro può oscillare fra verità e falsità, fra l’essere effettivo e l’avere un carattere meramente fittizio o strumentale. In ogni caso, si rende necessario interrogarsi sui medesimi giochi identitari messi in evidenza nell’ichesia e similmente sugli ambigui ed ambivalenti effetti di soggettivazione che tali giochi producono.

L’attività parresiastica del richiedente asilo conforme al modello greco è un esercizio di richiamo del sistema di protezione a se stesso, in modo che si rapporti alla domanda avanzata ed arrivi ad una decisione, non sulla base di convenienze o opportunità politiche o geopolitiche, ma basandosi sui principi giuridici che ne dovrebbero informare l’azione. È anche un richiamo affinché l’accoglienza sia attuata effettivamente secondo quegli stessi principi. La premessa e la condizione di praticabilità di una simile attività parresiastica del richiedente asilo e del rifugiato è l’approssimazione a coloro ai quali si rivolge. L’ingaggio nel sistema legale internazionale, o comunque l’appropriazione più o meno strumentale delle sue logiche e dei suoi principi, fanno parte delle acquisizioni o delle attualizzazioni derivanti dall’esperienza di vita nei territori di frontiera del regime di accoglienza (1), quando non sono già presenti per effetto dei processi di globalizzazione ideologica e politica.

In questo caso, i vincoli acculturativi stanno alla base dell’attività parresiastica, ne costituiscono la premessa operativa. Tuttavia si è sottolineato che, seppur presente, questa forma di parrēsia non è quella richiesta dal regime di accoglienza per poter emettere una decisione sulla protezione internazionale. Ciò che viene richiesto è di dire la verità su di sé, di tenere un discorso vero che abbia come oggetto il richiedente stesso (chi è, da dove viene, cosa ha fatto, cosa ha subito, che cosa rischia, ecc.). Come si è visto, anche in questo caso non si esce dalla logica psicagogica. Solo che la modificazione in senso acculturativo del richiedente asilo, da questo punto di vista, non si pone come premessa, ma al contrario si produce come effetto dell’attività parresiastica. Si è sottolineato in precedenza (cfr. paragrafo 3.1.) come occorra prendere in considerazione tutte le procedure, le tecniche e l’insieme dei metodi interattivi impiegati nel sistema di accoglienza come equivalenti delle tecniche parresiastiche utilizzate nel corso della nostra storia a fini psicagogici. Una simile sottolineatura deriva dal fatto che costituiscono ed identificano le tecniche di sé del sistema di accoglienza. Queste tecniche di sé implicano l’instaurazione di un certo tipo di relazione con sé da parte del richiedente asilo o del rifugiato. Implicano, ogni volta, il suo farsi oggetto del proprio discorso. Questo discorso tuttavia non si dipana necessariamente secondo logiche proprie o, se si vuole, endogene. Al contrario, è incanalato dalle forme, dai codici e dalle logiche ammesse dai saperi disciplinari da cui discendono quelle tecniche, quelle procedure, quei metodi.

Si avrà così un certo discorso giuridico sulle ragioni della fuga, un certo discorso psicologico-psichiatrico sui traumi subiti, un certo discorso educativo sulle competenze lavorative (e su quelle che vengono definite competenze trasversali) possedute dal migrante, oppure su quelle che invece deve sviluppare per diventare competitivo sul mercato del lavoro o anche solo occupabile. Si tratta, in ogni caso, di modalità omologhe ed in ultima analisi convergenti verso una produzione di sé secondo canoni accettabili per la società ospitante: il “giusto” migrante, il “giusto” traumatizzato, il “giusto” lavoratore, e così via.

Focalizzando l’attenzione sulle discipline psicologico-psichiatriche, e sulla parte che assumono in questo complessivo effetto psicagogico innescato dal regime di accoglienza in quanto sistema di veridizione, si può sottolineare la centralità assunta dai processi traumatici. Si è già evidenziato altrove (12) come, in epoca di migrazioni forzate, il Disturbo da Stress Post-Traumatico connesso alle violenze politiche sia venuto a ricoprire il ruolo che la Sinistrosi svolgeva rispetto agli infortuni sul lavoro nell’epoca delle migrazioni economiche (24). Rispetto a quest’ultima tipologia di traumi appare inutile soffermarsi sulla possibilità, storicamente offerta dal dispositivo clinico etnopsichiatrico, di mostrare come nelle parole-in-lingua o nei sintomi dei pazienti si possano rinvenire le tracce di dispostivi terapeutici “tradizionali” capaci in sé di estrarre, o passando per i quali è possibile estrarre, dall’evento traumatico, una verità affatto diversa da quella rappresentata dalla categoria sinistrosica (25; 26). Nella letteratura internazionale sulla salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati, il Disturbo da Stress Post-Traumatico sembra riuscire a ricoprire fenomenologia, senso e natura della sofferenza prodotta dalle violenze politiche e collettive. Tuttavia, anche negli effetti sintomatici di simili violenze, nelle narrazioni di sé delle vittime o nei racconti di quegli eventi, se opportunamente interrogati, si possano ritrovare altre verità prodotte dall’azione di dispositivi latamente culturali o specificatamente terapeutici propri dei mondi da cui quelle vittime provengono o che hanno attraversato (27; 28). Del resto, anche solo il modo in cui certi dispositivi antropopoietici vengono nominati dall’esterno – ad esempio, quelli agenti sul corpo delle donne – determina effetti di soggettivazione assai eterogenei ed a partire da esso si delineano le condizioni che preparano una guerra fra culture (29).

Sinteticamente, la verità del trauma si costituisce in modo affatto eterogeneo se interrogata attraverso dispositivi che funzionano secondo una logica volta alla loro storificazione evenemenziale oppure mirante alla loro destorificazione mitico-rituale (30). A seconda del tipo dispositivo che processa il trauma, si avranno soggetti-del-trauma e fenomeni sociali, culturali e politici connessi del tutto differenti per natura.


In conclusione, i giochi parresiastici di tipo greco convergono con quelli di tipo cristiano per determinare vincoli alla trasformazione identitaria del richiedente asilo o del rifugiato. Il dispositivo di accoglienza, imponendosi, viene a confliggere con gli effetti di soggettivazione dei precedenti dispositivi culturali e sociali attraversati dai migranti (compresi quelli volti non all’invenzione o alla riproduzione di soggettività, ma alla loro distruzione: 6). Il risultato è una stratificazione ed una sovrapposizione di piani di soggettivazione eterogenei ed eteronomi che, di volta in volta, risultano familiari o al contrario estranei ed altri all’osservazione. Si creano in tal modo le condizioni per una conflittualità le cui alterne vicende sono influenzate dalla forza relativa dei legami attraverso cui i diversi dispositivi “hanno presa” sul richiedente asilo o sul rifugiato. Gli elementi che determinano la forza seduttiva, dissuasiva e coercitiva della presa del sistema di accoglienza sono già stati presi in considerazione nel precedente scritto (1) e non occorre quindi ritornarci. Rispetto alla presa dei dispositivi che hanno agito sul migrante nei suoi contesti di provenienza – siano essi di tipo sociale, culturale o politico – occorre considerare gli effetti debilitanti sia delle violenze collettive subite dal migrante in patria o in corso di migrazione, sia di eventuali interventi di cura o comunque riparativi impostati secondo logiche estranee a quei mondi (31; 32; 33). Ma occorre anche considerare che quei dispositivi locali hanno una capacità di recupero della propria forza di legame, anche attraverso processi di innovazione interna (34); ovvero una simile forza può essere riattivata dall’esterno attraverso metodologie di intervento di tipo etnopsichiatrico (32). In entrambi i casi vengono riportati effetti lenitivi, se non effettivamente terapeutici, del traumatismo collettivo o individuale indotto dalle violenze politiche. Non è possibile infine sottovalutare il peso e l’effetto esercitato su questi legami dai distacchi prodotti dall’esilio o dalle perdite che l’esiliato si lascia alle spalle (35), indipendentemente dal fatto che questi distacchi e queste perdite vengano concepiti in termini di lutto e di rapporto con la morte o, viceversa, in termini di relazione con i morti – soprattutto quando questi si cumulano fino a raggiungere le dimensioni della massa (36).

Alla fine, occorre considerare come il sistema di accoglienza, anche rispetto ai suoi effetti acculturativi e trasmutativi delle soggettività migranti, si ingrani con i mondi da cui queste provengono e con quelli che attraversano, così come con ciò che succede negli uni e negli altri per effetto dell’avanzare della storia.


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