Volume 13 - 4 Agosto 2016

Recensione del libro curato da Antonio Maone e Barbara D'Avanzo:
"RECOVERY. NUOVI PARADIGMI PER LA SALUTE MENTALE"

Autori
Nadia Magnani, Giuseppe Cardamone


copertinaIl libro curato da Antonio Maone e Barbara D’Avanzo permette una riflessione a 360 gradi sul tema della recovery e più in generale una riflessione su un approccio alla salute mentale che, se da un lato introduce un nuovo concetto di guarigione, dall’altro lato esprime con forza la necessità di riconoscere potere contrattuale della persona che si pone in tutti i sensi come attiva protagonista della sua vita e del suo percorso di cura.

In tal senso la guarigione non è più intesa come semplice remissione clinica, bensì piuttosto come capacità, disponibilità e partecipazione sociale, che si realizza in quella specifica persona che interagisce in un dato contesto, con e oltre il disagio. Si sottolinea quindi con forza, la necessità di orientare lo sguardo alla salute ed al benessere concretamente percepiti dalla persona, cui di fatto viene realmente riconosciuto potere di conoscenza e di scelta anche relativamente alla complessità delle azioni che sottendono il processo della cura. Ciò permette una nuova assunzione di responsabilità rispetto a se stessi, al disagio e alla società.

Il tema della recovery in salute mentale oggi orienta più o meno esplicitamente le politiche sanitarie e le pratiche dei Servizi e permea vasti ambiti della ricerca; questo volume offre una serie di contributi di diversi autori italiani e stranieri che a pieno titolo esprimono il senso ed i contenuti oggetto del movimento internazionale per la recovery. Per altro il tema della recovery offre anche l’occasione di una riflessione su aspetti particolarmente attuali per i Servizi, che vivono ora una situazione di difficile tensione tra polarità opposte quali esigenza di controllo, tutela, sicurezza da un lato e, dall’altro lato, promozione di dignità, diritti, speranza e autodeterminazione. Pensiamo ad esempio al capitolo di Angelo Barbato che cita uno studio di Wunderink et al., dove si considera la possibilità di “un’interruzione guidata e di una riduzione delle dosi” nella terapia psicofarmacologica di mantenimento a lungo termine della schizofrenia (strategia in qualche modo “più vicina” all’utente, che pone però inevitabilmente il problema delle linee guida e dell’Evidence Based Medicine) e dove si riporta un editoriale di McGorry (relativo allo stesso studio) che sottolinea come “la ricaduta non sia necessariamente l’indicatore più importante”, e l’attenzione esclusiva ad essa “distragga i clinici da aspetti più rilevanti per il benessere degli utenti”, mentre “le possibilità di guarigione dalla psicosi sono incrementate se fin dall’inizio assumono un ruolo centrale strategie psicosociali”, che includono “modelli di riabilitazione precoce mirati al lavoro e all’inclusione sociale”.

La suddetta tensione tra polarità opposte di “controllo” e di “promozione dell’autodeterminazione”, implica per i Servizi, come citato nel libro, un difficile confronto con “l’evitamento sistematico del rischio” da un lato, e “l’assunzione e gestione del rischio” dall’altro, dove fondamentale è un processo di condivisione del rischio tra i diversi operatori coinvolti nel percorso di cura della persona, ma anche un processo di condivisione responsabile con l’utente stesso e con i suoi familiari.

Emerge infine un’ulteriore tensione dicotomica più attinente alla ricerca; la ricerca sul tema della recovery pone la sua necessità nell’esigenza di condividere e verificare, generalizzandolo, il senso trasformativo di tale processo e in tal senso vedasi il brillante capitolo di Mike Slade, in termini di definizione della recovery, dimensioni misurabili, riflessione sugli interventi capaci di promuoverla e aree su cui appare necessario sviluppare la ricerca. La ricerca fa emergere anche però la tensione dicotomica tra la necessità di dati obiettivi da un lato, e la necessità di considerare dall’altro lato, il vissuto e la percezione soggettiva del disagio esperita dalla persona, che ripropone una prospettiva fenomenologica, antropologica e culturale. L’attuale confronto tra una molteplicità di storie e culture proposto dai migranti amplifica incredibilmente e rende ancora più urgente e inevitabilmente attuale il tema di queste dimensioni.

Come sottolinea nel libro Barbara D’Avanzo, “la relazione tra esperienza soggettiva e conoscenza, come raggiungimento di una base oggettiva e condivisa di contenuti e di significati non più sottoposti alla variabilità dell’esperienza soggettiva, è l’eterno tema della riflessione su ciò che rende possibile la conoscenza” e in accordo con una prospettiva fenomenologica husserliana “per la creazione di contenuti di conoscenza pieni non è possibile prescindere dai dati fenomenici dell’esperienza”.

Non possiamo più, come altrove citato nel testo, considerare solo i “dati obiettivi”, ma diventa imprescindibile, sia come atteggiamento etico, sia in termini di onestà intellettuale e scientifica, “ascoltare” e considerare le storie personali e soggettive, e come dice Maone nell’introduzione al libro, passare “dall’oggettività clinica alla soggettività dell’esperienza vissuta”. In tal senso è essenziale, come sostenuto nel libro, ascolto, pazienza, tolleranza dei limiti, flessibilità, capacità di creare le condizioni perché nell’altro emerga l’autodeterminazione; atteggiamenti e competenze che sono a nostro avviso di stretta pertinenza degli operatori della salute mentale, ma che sono necessari anche in tutti gli ambiti di approccio alla salute, perché la persona non può e non deve mai essere completamente riassunta in un qualsiasi suo disturbo, sia esso psichico o fisico.

Tale approccio, come sottolinea Barbara D’Avanzo, citando John Strauss, ridefinisce quindi la relazione con l’altro e la capacità di accedere alla soggettività dell’altro (e non solo con l’altro che presenta problemi di salute mentale) nei termini di capacità di immergerci in noi stessi, e di utilizzare quindi la “propria” esperienza dell’altro, poiché “la via di accesso all’altro sta nell’esperienza che noi abbiamo dell’altro, nella possibilità di attingere alla nostra soggettività”. Questo perché infine, appare necessario sottolineare, citando Davidson, “la matrice intrinsecamente intersoggettiva di qualunque esperienza” ma anche considerare la “natura sociale e complessa dell’esperienza soggettiva” con i suoi riferimenti sociali e culturali. In tal senso emerge quanto tale approccio sia necessario come atteggiamento e via di comprensione e di conoscenza dell’altro anche all’interno della relazione di cura, “senza negare la realtà della malattia mentale e la necessità di approcci tecnici, specifici e specialistici”, anzi con una necessaria attenzione alla dimensione psicopatologica.

Altrove nel libro, Giuseppe Tibaldi, citando un’esperienza di Alda Merini, sottolinea come “qualsiasi narrazione trova la prima radice nell’esistenza di un altro cui il racconto è diretto” e da questo emerga il senso di strutturare relazioni all’interno delle quali l’altro sia riconosciuto, restituendogli di fatto libertà e speranza, e come scrive Alda Merini “la sensazione di essere ancora vivo, o di poter almeno accedere a quella specie di autenticità del vivere cui, di fatto, il malato solitamente aspira”.

I Servizi, come citato nel libro, possono quindi agire una mediazione sinergica tra fattori interni della persona (esperienza soggettiva) e contesto sociale allargato, svolgendo una sorta di advocacy, poiché di fatto la filosofia proposta dall’OMS nella prospettiva dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), ripropone la visione della recovery, per cui la disabilità è il prodotto di un’interazione negativa individuo – ambiente e ogni azione di cura e/o riabilitazione deve necessariamente intervenire modificando tale interazione.

Un’attenzione particolare nel libro è posta inoltre a specifiche competenze, orientate alla recovery, che deve possedere l’operatore della salute mentale (nel capitolo di Marianne Farkas e Marit Borg, e nel capitolo di Rick Goscha), e ad un particolare modello (Strenghts Model) che costituisce sia una filosofia della pratica clinica sia un insieme di strumenti e metodologie finalizzate a facilitare il processo di recovery. Infine interessante è il contributo di Geoff Shepherd sulla possibilità di promuovere la recovery attraverso un cambiamento organizzativo dei Servizi.

Altro punto di forza più volte sottolineato nel testo è la molteplicità e non linearità delle storie di recovery, con obiettivi raggiunti su diverse dimensioni, momenti di arresto, fasi di crisi e di ripresa, che sottolinea l’unicità della persona oltre il disagio, ma anche l’unicità della sua storia, cultura e contesto di vita, la personale esperienza della sofferenza e le personali strategie messe in atto per fronteggiarla, e soprattutto la “libertà” che viene più volte rivendicata anche dai protagonisti del percorso di recovery (si veda il capitolo di Wilma Boevink) che si esprime attraverso la non predeterminazione dei decorsi in relazione alla diagnosi, ma bensì attraverso le potenzialità della motivazione e dell’autodeterminazione. In tal senso ben si esprime la stretta connessione tra senso e significato della recovery e promozione dei diritti umani (vedi capitolo di Michaela Amering e Marianne Schulze).

Quindi come più volte si sottolinea nel libro curato da Barbara D’Avanzo e Antonio Maone, recovery non come esito ma come processo, e quindi come attenzione privilegiata al processo che costituisce esso stesso il senso della progressiva e soggettiva esperienza di recovery.

Inoltre è evidente come nel modello della recovery abbia ruolo centrale l’empowerment della persona (vedasi le declinazioni del concetto di empowerment nel capitolo di Germana Agnetti), dove però è la persona stessa che direttamente decide che cosa gli produce vantaggio, mentre viene definitivamente escluso ogni possibile atteggiamento “autoritario”- paternalistico degli operatori che possono svolgere ruolo di “facilitatori” nel favorire percorsi di attivazione e capacitazione, ma non decidere aprioristicamente ciò che è bene per la persona.

D’altro lato si sottolinea come i Servizi possano modificare i propri principi ispiratori e organizzativi in senso “recovery-oriented”, ad esempio favorendo un accesso ad alcune dimensioni “normali” della vita, quali la disponibilità di una casa e di un lavoro, attraverso azioni che non prevedano la “gradualità dei percorsi istituzionali” dove “la reale uscita dal circuito è sistematicamente differita” e amplificato lo stigma, bensì favoriscano, attraverso sinergie con gli altri attori della comunità, esperienze di “supported housing” (abitazione indipendente con supporto flessibile) e modelli di inserimento lavorativo supportato (Individual Placement and Support) che trovano conferma anche nella più recente letteratura (come ampiamente descritto nel capitolo di Angelo Fioritti e Antonio Maone).

Ciò implica credere che i Servizi non possono e non debbono dare tutte le risposte, ma che queste vadano cercate innanzi tutto nell’esperienza soggettiva, nei desideri, nelle aspettative, nel rinnovato senso di sé e del proprio destino che la persona riesce ad esprimere relativamente alla propria vita e quindi anche nella disponibilità di una comunità sensibile e competente capace di accogliere e dare risposte, anche attraverso specifici patti/accordi tra istituzioni e agenzie della comunità, finalizzati a promuovere salute mentale, percorsi di inclusione e partecipazione sociale. Crediamo che il nostro ruolo di operatori della salute mentale, sia sempre più quello, da un lato, di “ascoltare e dare voce” alle persone, alle storie, ai desideri che nascono dalla sensibilità individuale, dalla memoria, dai contesti e dalle culture, e dall’altro lato quello di mobilizzare e sensibilizzare la comunità alla tutela e promozione della salute mentale.

Come sostiene Barbara D’Avanzo parlando di recovery “incontriamo una difficoltà” che ha in realtà carattere “dialettico” poiché se da un lato “la radice della malattia mentale va riconosciuta nella vita della persona”, dall’altro lato, proprio per questo, “la malattia stessa viene resa accessibile” ed è altresì possibile la “responsabilizzazione e l’attivazione della persona” e di chi “voglia aiutarla” in un percorso di recovery, percorso che, essendo inerente alla vita stessa della persona, non può mai darsi per concluso.

In conclusione riteniamo di dover sinceramente ringraziare i curatori e gli autori di questo volume, che offre una sintesi ricca e necessaria delle dimensioni storiche e teoriche, del senso e dei processi che sottendono il tema della recovery, poiché la conoscenza di questi aspetti costituisce un’opportunità irrinunciabile per il futuro dei Servizi e l’occasione individuale di crescita per ciascun operatore della salute mentale.