Volume 13 - 4 Agosto 2016

La psicoanalisi è efficace? Una rassegna della letteratura empirica

Autore
Laura Muzi1

1 1Dottoranda di Ricerca, Facoltà di Medicina e Psicologia, Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza Università di Roma

Ricevuto il 6 aprile 2016, rivisto il 15 aprile 2016, accettato il 30 aprile 2016

RIASSUNTO

La ricerca empirica sull’efficacia e sugli esiti della psicoanalisi continua a essere uno degli argomenti più controversi all’interno della nostra comunità scientifica. Dopo una breve introduzione sul rapporto tra psicoanalisi e ricerca, il presente lavoro illustra una rassegna della letteratura empirica sugli outcome dei trattamenti psicoanalitici, su quali sono i meccanismi alla base del loro funzionamento e sui cambiamenti che hanno luogo durante e dopo la terapia. I risultati delle ricerche suggeriscono che la psicoanalisi sia il trattamento d'elezione per pazienti con organizzazione nevrotica di personalità o borderline di alto livello, esercitando effetti più ampi e di più lunga durata sul funzionamento individuale che tenderebbero anche ad aumentare dopo la conclusione del trattamento. Sembra, inoltre, che una maggiore durata e una frequenza di almeno due sedute a settimana abbiano un effetto sinergico positivo sull’esito del trattamento.

Rispetto ai meccanismi d’azione, gli studi mostrano che la psicoanalisi non esercita i suoi benefici risolvendo i conflitti patogeni nucleari dei pazienti, ma permette una loro gestione più adattiva per mezzo delle capacità auto-analitiche acquisite in terapia. In generale, gli esiti di una psicoanalisi sembrano mediati da più fattori che includono anche lo stile clinico del terapeuta e le sue caratteristiche personali.

Infine, le ricerche che hanno valutato il rapporto costi/benefici dei trattamenti psicoanalitici a lungo termine sembrano indicare che, dopo circa tre anni dalla fine di un’analisi riuscita, i benefici ricavati dal trattamento compensano i costi per sostenerlo.


ABSTRACT

Research on outcome and efficacy/effectiveness of psychoanalysis is actually one of the most controversial issues within our scientific community. After a brief introduction about the relationship between psychoanalysis and empirical research, this paper aims at illustrating empirical findings regarding the outcome of psychoanalytic therapies, including for what kind of disorders this approach is indicated, their mechanisms of change, and the therapeutic changes at the end and after the therapy termination.

Findings suggest that psychoanalytic therapies are the most indicated treatment for patients with higher levels of personality functioning, with wider and longer lasting effects on individual mental functioning which tend to increase after the treatment termination. Moreover, interaction between duration and session frequency at least twice a week seems to have a positive influence on therapy outcomes.

Regarding the mechanisms of change, studies show that the outcomes of psychoanalysis do not entirely correspond to the patient’s conflicts’ resolution, but this approach allows to a better conflicts’ management through the acquisition of self-analytic function during the treatment. Overall, psychoanalytic outcomes seem influenced by several therapeutic factors, including clinicians’ therapeutic style and their personal characteristics. Finally, cost/effectiveness studies of long-term psychoanalytic treatment suggest that at 3-year follow-up of successful therapy there are clinically significant psychological and/or societal gains that make the invested costs worthwhile.


INTRODUZIONE

La ricerca sul funzionamento e sull’efficacia della psicoanalisi, in termini sia clinici (effectiveness) sia statistici (efficacy), continua a essere uno degli argomenti più controversi all’interno della nostra comunità scientifica. Un sentimento di ambivalenza sembra già implicito nella risposta di Freud a uno psicologo americano, Rosenzweig, che pensava di dare forza alla nuova disciplina portando prove empiriche a sostegno della rimozione: “Non posso dare un gran valore a queste conferme perché l'abbondanza di osservazioni attendibili sulle quali queste affermazioni poggiano le rende indipendenti dalla verifica empirica. Tuttavia, esse non possono fare alcun male”. (1)

Dopo un secolo di psicoanalisi gran parte della comunità psicoanalitica continua a sostenere la posizione di Freud. Molti mostrano disinteresse e, tra questi, alcuni (in modo più radicale rispetto allo stesso Freud) sostengono che la validità dei concetti e delle pratiche psicoanalitiche non sia verificabile con strumenti extraclinici e che la prospettiva empirica possa essere addirittura dannosa per la psicoanalisi (2, 3). D’altra parte, vi sono coloro che sostengono che le ricerche siano indispensabili per una disciplina che si dichiara scientifica e che il rifiuto di conformarsi alle richieste di una dimostrazione sistematica dell’efficacia del proprio operare contribuisca alla marginalizzazione della psicoanalisi nel campo della salute mentale (4).

Alla crescente radicalizzazione di queste due posizioni divergenti negli ultimi decenni si è contrapposto l’emergere di un middle group che riconosce l’importanza di considerare i vantaggi della ricerca in psicoanalisi senza sottovalutarne i limiti o le criticità (5-8). Secondo questi autori, un modo costruttivo di affrontare gli inevitabili limiti della ricerca è farla meglio, ossia mettere in campo una ricerca più creativa e valida sul piano ecologico che possa essere fruibile anche nella pratica clinica quotidiana.

In questa prospettiva, e in forza della crescita quantitativa e qualitativa degli studi empirici sul tema, è possibile oggi dare risposte più documentate ai seguenti quesiti: le cure psicoanalitiche sono efficaci? Per quali tipi di disturbi sono indicate? Quali sono i meccanismi alla base del loro funzionamento? E quali cambiamenti hanno luogo durante e dopo la terapia? Prima di passare in rassegna gli studi, è utile distinguere tra studi sull'esito (outcome research), studi sul processo (process research) e studi su processo ed esito (process-outcome research). I primi, che saranno considerati in questo contributo, valutano l'efficacia dei trattamenti sulla base di una valutazione qualitativa e quantitativa dei tassi di miglioramento dei soggetti al termine della terapia e al follow-up, in genere rilevando indici di natura sintomatologica o (più raramente) modificazioni della struttura intrapsichica e della personalità dei pazienti. I secondi si propongono di valutare il processo terapeutico esplorando i fattori attivi di un trattamento; infine, gli studi process-outcome si propongono di valutare sia l'esito sia il processo terapeutico (9).

Un'altra distinzione utile è tra studi che valutano l'efficacia delle psicoterapie psicodinamiche e quelli che considerano trattamenti psicoanalitici (10, 11). Nonostante vi siano aree di sovrapposizione (12-14), il primo termine si riferisce alle terapie di derivazione psicoanalitica condotte con una frequenza di una o al massimo due sedute a settimana e di durata limitata, in genere inferiore a 24 mesi. Per facilitare la comprensione, in questo lavoro verranno considerati principalmente i risultati delle ricerche sulle psicoanalisi “vere e proprie”, ovvero terapie a tempo indeterminato (open-ended, non stabilito a priori) o della durata di almeno 24 mesi e con una frequenza di almeno due sedute a settimana.


MATERIALI E METODI

Il presente lavoro include le più recenti e accurate rassegne sul tema (10, 11, 15-19), integrate con una ricerca sui principali database (PsycINFO, MEDLINE, Scopus) al fine di inserire anche lavori più recenti. I termini di ricerca utilizzati sono: [psychodynamic or dynamic or psychoanalytic] e [outcome or result or effect or change] o [efficacy or effectiveness]). Il materiale è organizzato in ordine cronologico, dando maggiore spazio ai contributi più recenti.

Le prime ricerche sull'esito delle psicoterapie sono state condotte negli anni Dieci e Venti del Novecento, nel corso di quella che Wallerstein (17) definisce la “prima generazione” degli studi sull’efficacia della psicoanalisi. Si tratta principalmente di studi retrospettivi che considerano i tassi di miglioramento dei soggetti valutati dai clinici al termine della terapia. Nonostante gli importanti limiti metodologici (assenza di gruppi di controllo, mancanza di diagnosi o di misure di esito operazionalizzate), i risultati di queste ricerche mantengono comunque un indubbio valore storico. Se, infatti, veniva suggerita una sostanziale efficacia delle terapie psicoanalitiche per i pazienti con disturbi nevrotici e psicosomatici, sia al termine della terapia sia al follow-up (20-22), esse riportavano anche scarsi miglioramenti con pazienti psicotici (23, 24).

Dall’inizio degli anni Sessanta fino al 1985 sono stati condotti e pubblicati quei contributi che ricadono, invece, nella cosiddetta “seconda generazione” degli studi sull’outcome della psicoanalisi, generalmente caratterizzati da metodologie più solide. I principali risultati di questi lavori sembrano suggerire alcuni interessanti spunti di riflessione.

In primo luogo, una serie di studi condotti da Pfeffer e collaboratori (25-27) hanno mostrato che nel corso di interviste di follow-up (analiticamente orientate, ma condotte da terapeuti non coinvolti nel trattamento) a un campione di 9 pazienti che avevano terminato una psicoanalisi si assisteva a una riattivazione del transfert terapeutico, a una momentanea ricomparsa della sintomatologia e all’emergere di nuove modalità, apprese nel corso della terapia, di gestire i conflitti alla base della patologia. Gli autori hanno, quindi, ipotizzato che in una terapia psicoanalitica riuscita ciò che si ottiene non sarebbe l’ “eliminazione” o la risoluzione dei conflitti patogeni, ma piuttosto la sviluppo di una nuova e più adattiva capacità di gestire i conflitti attraverso l’interiorizzazione della funzione analitica e quindi una diversa intensità con cui questi influenzano la vita del paziente. Quello che viene oggi denominato l’ “effetto Pfeffer” è stato rilevato in altre due indagini condotte in quegli stessi anni (28-30).

In secondo luogo, in altri studi alcune caratteristiche dei pazienti sembravano associate all’outcome; in particolare, l’idoneità al trattamento analitico (intesa anche come “analizzabilità”) sembrava correlare con esiti migliori, soprattutto perché connessa a buone capacità di funzionamento psicologico (range di funzionamento nevrotico) (31) che consentirebbero di trarre il massimo beneficio dalla terapia (32-35).

Viene, inoltre, sottolineata l’importanza della durata del trattamento: per esempio, in uno studio prospettico su un campione di 40 pazienti in psicoanalisi è emerso che solo il 12% dei pazienti in terapia per meno di due anni riportava benefici sostanziali rispetto all’82% di pazienti in analisi da più di quattro anni (36). Questi risultati sono stati in parte confermati da uno studio successivo su 160 pazienti in cui il 76% dei casi in terapia da più di tre anni conseguiva risultati da “buoni” a “eccellenti” a fronte del 37% dei casi non idonei al trattamento analitico (37).

Nonostante tutti questi studi siano metodologicamente più validi rispetto a quelli di prima generazione, presentano comunque importanti limiti alla generalizzabilità dei loro risultati a causa di valutazioni principalmente retrospettive, campioni spesso esigui e una difficile valutazione dell’analizzabilità nei primi colloqui secondo criteri operazionalizzati.

La ricerca più rappresentativa della cosiddetta “terza generazione” degli studi sugli outcome della psicoanalisi, che ha aperto la strada ai più recenti progetti di ricerca sul tema (Tabella 1), è stato il progetto Menninger coordinato da Wallerstein (38). Esso ha, infatti, consentito di comprendere in modo più accurato l’efficacia di trattamenti psicoanalitici “veri e propri” a confronto con psicoterapie di tipo espressivo e con terapie di sostegno (39) in un campione di 42 pazienti che presentavano nevrosi gravi, nevrosi del carattere, dipendenza da sostanze, patologie sessuali, disturbi psicotici e quelli che oggi chiameremmo disturbi borderline e narcisistici di personalità.

Tabella 1 Muzi

I principali risultati di questo studio, che include la valutazione delle diagnosi iniziali dei soggetti, il decorso, l’outcome e un follow-up a lungo termine, possono essere riassunti come segue: (a) è possibile ottenere cambiamenti strutturali e intrapsichici stabili e significativi (per es., nel livello di insight) con una psicoanalisi, ma anche con terapie psicoanalitiche espressive e supportive; (b) un approccio interpretativo ed espressivo favorisce l’elaborazione e la risoluzione dei conflitti non solo in una psicoanalisi e in una terapia espressiva, ma anche in trattamenti di tipo supportivo; (c) in un sottocampione di 27 soggetti, in 16 casi i cambiamenti strutturali conseguiti non erano attribuibili solamente alla risoluzione terapeutica dei conflitti; (d) i risultati terapeutici conseguiti da un approccio classico non erano stabili quanto ipotizzato nella fase iniziale dello studio. Nella valutazione di questi riscontri è bene considerare che, oltre all’eterogeneità diagnostica dei soggetti e alla difficoltà di operazionalizzare le caratteristiche dei diversi approcci terapeutici utilizzati, la maggior parte dei pazienti presentava un livello di compromissione maggiore rispetto a quelle condizioni per cui la psicoanalisi è generalmente considerata il trattamento d’elezione (10).

Tra gli studi elencati nella Tabella 1, particolare menzione merita lo Stockholm Outcome of Psychotherapy and Psychoanalysis Project (STOPPP, 45) per la sua solidità metodologica e la sua informatività su diversi temi di interesse clinico. Oltre a mostrare una riduzione sintomatologica, un miglioramento nell’adattamento sociale e nella coerenza del senso di sé molto significativi nei pazienti in psicoanalisi, effetto che tendeva ad aumentare anche dopo il termine del trattamento a differenza dei pazienti in psicoterapia (i cui risultati rimanevano sostanzialmente stabili), la ricerca mostra anche l’importanza dell’esperienza clinica dei terapeuti (in termini di tempo) e delle loro credenze sull’atteggiamento clinico ottimale rispetto all’outcome. Sembra, infatti, che uno stile clinico neutrale e orientato all’insight (“classico”) nel contesto di una psicoanalisi sia efficace tanto quanto un atteggiamento più “eclettico” caratterizzato anche da apertura, supporto e calore, mentre in una psicoterapia queste ultime caratteristiche assumono un’importanza prioritaria. Infine, in un sottocampione di 150 pazienti in psicoanalisi gli autori riportano che frequenza e durata della terapia devono essere considerate insieme, e un’analisi dell’influenza della loro interazione sull’outcome suggerisce un effetto sinergico positivo.

Importanti considerazioni possono essere fatte anche in base ai risultati del recente Heidelberg Berlin Study (46), in cui non solo vengono riportati benefici significativamente maggiori nei pazienti in psicoanalisi rispetto a quelli in una terapia dinamica a minor frequenza, ma al follow-up il cambiamento strutturale e intrapsichico conseguito al termine della terapia risulta il miglior predittore di una valutazione retrospettiva dell’outcome positiva. In altre parole, sembrerebbe che quando al paziente viene richiesto di valutare l’esito del proprio trattamento al termine della terapia questa valutazione sia determinata prevalentemente dalla diminuzione della sintomatologia e dal miglioramento nel funzionamento interpersonale.

Dopo tre anni, tuttavia, l’unica variabile che sembra correlare significativamente con la valutazione dell’outcome è quella relativa al cambiamento strutturale del paziente, confermando l’assunto psicoanalitico che la terapia porta a cambiamenti profondi a livello dell’organizzazione di personalità del paziente, che a loro volta includono anche una riduzione sintomatologica. Inoltre poiché questi processi di cambiamento spesso continuano ad agire nel tempo possono non essere immediatamente riconoscibili dal soggetto al termine del trattamento (46).

Il progetto dell’Institute for Psychoanalytic Training and Research (IPTAR) (48) si è focalizzato invece su durata e frequenza, evidenziando che se si mettono in relazione queste due variabili con i quadri clinici presentati dai pazienti la frequenza influirebbe positivamente sull’esito nel caso di disturbi di tipo acuto (come ansia o disturbi alimentari), mentre una maggiore durata del trattamento sembra correlare positivamente con l’outcome nel caso di patologie ad andamento cronico (come stress e disorganizzazione familiare).

Per quanto riguarda, invece, i risultati del Deutsche Psychoanalytic Vereiningung (DPV) (49), se da una parte non sono state riscontrate differenze significative nell’esito (positivo) tra una psicoanalisi e una terapia psicodinamica a lungo termine, analizzando un sottocampione di 43 pazienti al follow-up gli autori evidenziano che i pazienti in psicoanalisi sembrano aver interiorizzato in modo più profondo la funzione analitica e aver sviluppato migliori capacità introspettive. Questa differenza diviene sempre più significativa all’aumentare della distanza temporale della valutazione al follow-up.

Riassumere e analizzare, come ultimo approfondimento, i risultati dell’Helsinki Psychotherapy Study (51) è un compito complesso, in quanto sono circa 30 contributi da esso derivati a cui si rimanda il lettore interessato (52-54). Tuttavia, un elemento interessante è che le differenze nell’efficacia della psicoanalisi e della terapia psicodinamica a lungo termine al follow-up a 5 anni possono essere anche spiegate in funzione delle caratteristiche professionali e personali dei terapeuti. Nello specifico, i risultati sembrano in parte confermare i riscontri dello STOPPP e mettono in discussione il tradizionale atteggiamento “neutrale” dello psicoanalista: rispetto ai soggetti in psicoterapia, i pazienti in psicoanalisi sembrano trarre i massimi benefici terapeutici (in questo caso, la riduzione della gravità sintomatologica) quando gli analisti riportano bassi punteggi nell’affermazione professionale, ma nelle relazioni personali si percepiscono come calorosi, amichevoli, poco distaccati, o assertivi, richiedenti e determinati. Per quanto vi sia la necessità di ulteriori studi, l’importanza delle variabili dei terapeuti sull’outcome è ad oggi uno dei grandi temi emergenti nella ricerca in psicoterapia (55, 56).


RISULTATI

Riassumendo i risultati degli studi finora esposti, proviamo dunque a rispondere alle domande poste nell’introduzione di questo contributo.

In primo luogo, sembra che la psicoanalisi sia il trattamento d'elezione per pazienti con organizzazione nevrotica di personalità o borderline di alto livello (57-59), a differenza di pazienti con organizzazione borderline di basso livello che sembrano trarre maggiori benefici da psicoterapie specifiche di approccio psicodinamico (Psicoterapia focalizzata sul transfert, 60; Trattamento basato sulla mentalizzazione, 61) o di altro orientamento teorico (Terapia dialettico-comportamentale, 62; Schema Therapy, 63; Terapia Metacognitiva Interpersonale, 64) che, sottoposte a verifica empirica, stanno dimostrando in questi anni buoni risultati (65-73). È inoltre ipotizzabile che a beneficiare maggiormente di una psicoanalisi siano soprattutto i pazienti che Blatt (74) ha definito “introiettivi”, le cui vite psichiche ruotano intorno al problema della definizione di sé e di quali siano i propri valori e ideali di riferimento.

A differenza degli altri tipi di terapia, le terapie dinamiche a lungo termine, e la psicoanalisi in particolare, sembrano esercitare effetti “a più ampio raggio e profondità” nel funzionamento individuale e di più lunga durata. Inoltre, i benefici di un trattamento analitico, a differenza di altri tipi di psicoterapie, tenderebbero non solo a essere stabili nel tempo ma addirittura ad aumentare dopo la conclusione del trattamento. Sembra infine che, per conseguire risultati terapeutici migliori, un trattamento analitico debba durare almeno tre anni e avere una frequenza di almeno due sedute a settimana. Rispetto ai meccanismi attivi alla base della terapia analitica “vera e propria”, le ricerche finora condotte suggeriscono che:
a) I trattamenti in cui s’instaura un processo analitico sono quelli che conseguono risultati più stabili e duraturi, probabilmente grazie al fatto che i pazienti sviluppano una capacità auto-analitica connessa all'interiorizzazione della relazione terapeutica (32-35). Tuttavia, le terapie psicodinamiche producono buoni risultati anche senza attivazione di un processo analitico vero e proprio, aprendo la strada all'idea che gli esiti di una psicoanalisi siano mediati da più fattori (75).
b) Ogni terapeuta psicoanalitico utilizza, in proporzioni e con modalità differenti, interventi esplorativi e supportivi, ed entrambi sembrano favorire cambiamenti strutturali significativi (esemplare la massima operativa di Wallerstein: “Sii espressivo quanto puoi e supportivo quanto devi”) (17). Un atteggiamento più caloroso, aperto, flessibile, una disponibilità del clinico ad adattare il proprio approccio alle necessità del singolo paziente e un buon matching paziente-terapeuta favoriscono outcome migliori (49, 76) e la “variabile terapeuta” sembra quindi avere influenza nell’equazione dell’esito del trattamento (77).
c) La psicoanalisi non sembra esercitare i suoi benefici risolvendo i conflitti patogeni nucleari dei pazienti, ma permettendone una gestione più adattiva per mezzo delle capacità auto-analitiche acquisite. Ne consegue che il riattivarsi di tali conflitti può determinare la ricomparsa dei sintomi ma la loro remissione appare più rapida e sembra influire meno sul funzionamento complessivo del soggetto (27-30).

Vi sono, infine, ricerche che hanno valutato il rapporto costi/benefici dei trattamenti psicoanalitici a lungo termine. Se già il Konstanz Study (47) riportava una diminuzione nei giorni di malattia e in quelli di ospedalizzazione, la meta-analisi di DeMaat e colleghi (78) fornisce una sintesi più accurata di 7 studi sul tema, per un campione totale di 861 pazienti. Rispetto ai giorni di malattia, dopo due anni di trattamento gli autori riportano una riduzione media del 72% per la psicoanalisi e del 67% per la terapia psicoanalitica, insieme a un decremento dei tassi di disoccupazione (che fanno riferimento ai paesi degli studi considerati, principalmente gli Stati Uniti) pari circa all’84%, un aumento del reddito medio del 9,6% in fase di trattamento, una riduzione del 27% dei giorni di ospedalizzazione annui, e un decremento di circa il 70% nel ricorso a cure mediche. Considerando il costo medio relativo al ricorso ai servizi di cura e la perdita economica derivante dai giorni di congedo dal lavoro, è possibile ipotizzare che dopo circa tre anni dalla fine di un trattamento analitico i pazienti recuperano i soldi spesi mediamente per la terapia stessa.


CONCLUSIONI

Alla luce di quanto esposto finora, possiamo sostenere che la psicoanalisi non solo è stata sottoposta a verifica empirica, dimostrando la propria efficacia, ma anche che la ricerca empirica sembra sostenerne i presupposti. Ciò ovviamente non ci esime dal considerare il panorama in cui queste ricerche si inseriscono, in cui gli studi randomizzati controllati (randomized controlled trials, RCT) (79) sono considerati il “gold standard” nonostante limiti consistenti in termini di validità esterna ed ecologica e risultati difficilmente generalizzabili alla pratica clinica psicoanalitica. La difficile applicabilità della “logica RCT” alla psicoanalisi si unisce alle critiche rivolte al movimento EST (Empirically Supported Treatments), che non sembra chiarire la relazione tra il tipo di trattamento e le tecniche effettivamente utilizzate, né il loro effetto sul miglioramento terapeutico (6, 80).

Infine, la ricerca sui trattamenti psicoanalitici si scontra con la mole di studi a sostegno dei trattamenti cognitivo-comportamentali, soprattutto a breve termine, la cui natura symptom-behavior oriented rende più agevole la valutazione di outcome positivi. Tuttavia, soprattutto nel campo della salute mentale, la quantità di ricerche non corrisponde alla robustezza del sostegno empirico: quando la psicoanalisi era il modello dominante di terapia, infatti, la verifica empirica non era parte della cultura della psichiatria accademica, al contrario della second-wave di trattamenti come le terapie cognitive e comportamentali, per le quali esistono studi di efficacia metodologicamente più affermati fin dagli anni Settanta (81).

In conclusione, si può notare come nel tempo la ricerca empirica sui trattamenti psicoanalitici si sia gradualmente spostata dalla dimostrazione della loro efficacia (con un focus quindi sull’outcome) che, come abbiamo visto, appare abbastanza consensualmente comprovata soprattutto per alcune categorie di disturbi clinici e di personalità (16, 79, 82), all’indagare cosa è terapeuticamente efficace e per chi il trattamento analitico funziona allo scopo di chiarire quali sono i fattori terapeutici realmente attivi nel corso del processo terapeutico (83). Una sfida che, auspicabilmente, sarà affrontata in modo che la clinica arricchisca la ricerca così come la ricerca arricchisca il patrimonio della pratica clinica.


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Riconoscimenti
L’autrice ringrazia sentitamente il Prof. Vittorio Lingiardi per la preziosa collaborazione e per gli utili consigli alla stesura del presente lavoro.


L’autrice dichiara, sotto propria responsabilità, l’assenza di un conflitto di interessi per il presente contributo e di finanziamento.