Volume 14 - 6 Aprile 2017

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Open dialogue.
Un intervento innovativo con la famiglia e la rete sociale nel Dipartimento di Salute Mentale di Caltagirone Palagonia

Open dialogue. Intervento innovativo famiglia e rete sociale DSM Caltagirone Palagonia
Autori

RIASSUNTO

Quest’articolo si propone di presentare un metodo innovativo, già sperimentato nei paesi scandinavi, per affrontare l’esordio della patologia psichiatrica grave, ed in particolare gli esordi psicotici. Si tratta dell’”open dialogue” che, attraverso un progetto di sperimentazione in cinque province italiane, vuole verificare l’applicabilità di tale modello al nostro contesto socio-culturale. Tale progetto, in collaborazione con il CNR, è partito nel 2015. Nell’articolo vengono riportati sia i principi ispiratori che l’applicazione pratica nel Dipartimento di Salute Mentale di Caltagirone-Palagonia. Vengono in dettaglio descritti i casi seguiti e lo stile operativo degli operatori impegnati.


ABSTRACT

This article is about an innovative approach, developed in the Scandinavian countries, to treat severe psychiatric disorder, and, in particular, psychosis. It is the ”open dialogue“ method that, through an experimental project in five Italian provinces, wants to verify the applicability of this treatment to our social and -cultural context. This project, in collaboration with the National Research Council, started in 2005. In the article the guiding principles and the practical implementation of the method carried out in the Department of Mental Health of Caltagirone- Palagonia are reported together with the cases followed and the way of working of the operators involved.


Introduzione

L’open dialogue nasce in Finlandia negli anni ’80 come approccio per affrontare l’esordio delle patologie psichiatriche e ridurre i ricoveri ospedalieri, con tutte le conseguenze economiche, sociali e di stigma che ciò comporta. La paternità di quest’approccio spetta a Yaakko Seikkula, anche se le radici sono da rintracciare nel “trattamento adattato al bisogno” di Alanen (2). Infatti, il gruppo di ricerca diretto da quest’ultimo, già a partire dal 1968, tentò di sviluppare un trattamento molto flessibile per i pazienti schizofrenici e le loro famiglie, in termini di metodi e di strumenti, e “adattato” ai loro specifici bisogni, in buona sostanza, una terapia “su misura”.

Gli obiettivi principali dell’ open dialogue sono:

  • a) ridurre al minimo i trattamenti ospedalieri : la crisi viene osservata “in vivo”, a domicilio, nell’ambiente in cui ha avuto origine e non sradicando il soggetto dal proprio sistema familiare e sociale; inoltre, al domicilio, i familiari e le persone della rete sociale dell’individuo (vicini di casa, gruppo di preghiera ecc.) possono essere delle importanti risorse e dei partner attivi nel processo di cura e di comprensione dell’evento “crisi” non più concepito come evento imprevedibile e incomprensibile, bensì come portatore di significato.;
  • b) intervenire in modo precoce sull’esordio psichiatrico: il primo intervento viene espletato da un’èquipe multidisciplinare (psichiatra, psicologo, assistente sociale, infermiere) entro 24 ore dalla richiesta. Ciò permette di diminuire il tempo che intercorre tra l’insorgenza dei sintomi e l’inizio di un trattamento, la cossiddetta Duration of Untreated Psycosis (DUP - periodo di psicosi non trattata). Molti studi hanno evidenziato che tale lasso di tempo è uno dei fattori maggiormente correlato alla prognosi della malattia. Inoltre, l’èquipe che prende in carico il paziente si assume la responsabilità di accompagnarlo per tutto il tempo necessario alla soluzione della crisi e in qualsiasi setting;
  • c) trasformare il sistema psichiatrico centrato sul paziente, sull’individuo e sui suoi sintomi, in un sistema aperto, centrato sulle famiglie e sulla rete sociale.
    La psicosi, all’interno di questa cornice, diventa una risposta “naturale” anche se singolare e spesso tragica di affrontare un evento alienante e terrificante della vita. È la risposta ad un trauma che non trova altra via per esprimersi se non quella del sintomo. Tapio Salo, a tal proposito, sostiene “la psicosi non è qualcosa che hai nella testa; è qualcosa che esiste nella zona di confine tra i membri di una famiglia o tra i membri di un piccolo gruppo. È qualcosa che esiste all’interno di queste relazioni: la persona che diventa psicotica rende percepibili tutti questi aspetti negativi.” (12)

Il dialogo aperto non è un metodo, non è una tecnica, bensì uno stile di vita, un atteggiamento. Si ricordi che “il dialogo è qualcosa cui non possiamo sfuggire, è lì come il respiro, il lavoro, l’amore, gli hobby o guidare l’auto. È la vita”. (16). Infatti, dialogare è il secondo atto che l’uomo compie quando nasce, dopo respirare. Inoltre, “come persone viventi noi siamo essere relazionali, nasciamo nelle relazioni... Nulla è più necessario che essere uditi e presi seriamente, ed è questo che dà origine a una relazione dialogica” (16).

Durante gli incontri i professionisti si prefiggono di riattivare il dialogo fra i membri della famiglia con l’obiettivo di dare una nuova rappresentazione del problema e ciò è possibile attraverso un linguaggio co-costruito e condiviso per esprimerlo. Non si tratta, però, di trovare né vincitori né vinti né tantomeno soluzioni ai problemi, bensì aprire nuove prospettive creandole nel dialogo (14). “La sfida… è… abbandonare i nostri scopi di produrre un cambiamento nei nostri clienti attraverso i nostri interventi” (16).


LA PRATICA DIALOGICA

L’open dialogue è caratterizzato da dodici elementi chiave:

  • 1. Due o più terapeuti: secondo l’approccio dialogico è importante che un gruppo di terapeuti lavori in èquipe con la rete sociale. Sono previsti non meno di due terapeuti che possono seguire le seguenti modalità: un terapeuta conduce l’incontro e l’altro funge da team riflessivo oppure entrambi conducono il colloquio e poi condividono le loro riflessioni.
  • 2. Partecipazione della famiglia e della rete sociale: agli incontri vengono invitati i familiari o i membri della rete sociale connotati come risorse insostituibili. Si ricordi che la cornice di riferimento è che i clienti e i loro familiari sono “responsabili” del cambiamento, sono gli attori che possono plasmare il proprio destino riprendendo in mano la propria vita. Infatti, nessun operatore si presenta come il detentore della “Verità”, il detentore esclusivo di un sapere che investe in modo unidirezionale la famiglia.
  • 3. Uso di domande aperte: le domande aperte vengono usate per coinvolgere tutti nella costruzione dei dialoghi. È importante dare ad ogni partecipante la possibilità di esprimere le proprie idee, anche se non si costringe nessuno a parlare. Inoltre, sono i clienti a decidere come usare il tempo a loro disposizione, non sono i professionisti che decidono di cosa parlare.
  • 4. Rispondere alle cose dette dai clienti: il terapeuta risponde alle cose dette dai clienti usando le loro stesse parole, impegnandosi nell’ascolto responsivo, sintonizzandosi con le comunicazioni non verbali e permettendo e tollerando i silenzi.
  • 5. Enfatizzare il momento presente: quello che si enfatizza è il momento presente poiché il cambiamento avviene nel “qui ed ora”.
  • 6. Polifonia – sollecitare punti di vista molteplici: l’approccio dialogico mira ad un confronto, ad uno scambio creativo di molteplici voci e punti di vista. La polifonia ha due distinte dimensioni:
    • 1) la polifonia esteriore: il terapeuta coinvolge tutti nel colloquio, incoraggiando tutte le voci a farsi sentire e rispettare;
    • 2) la polifonia interiore: il terapeuta ascolta e incoraggia ogni persona a esporre chiaramente il proprio punto di vista e la propria esperienza in maniera complessa. Il terapeuta può anche informarsi dei membri assenti e ciò può favorire l’emergere della polifonia interiore.
  • 7. Creare un focus relazionale nel dialogo: attraverso l’uso di domande circolari che vengono poste per chiarire maggiormente la situazione, per definire meglio i rapporti all’interno e all’esterno della famiglia, per esplicitare il contesto relazionale in cui origina il problema o il sintomo. Tali domande, definite “domande relazionali”, non vengono proposte come parte di un metodo strutturato, bensì come un modo creativo per aprire, attraverso le possibili risonanze con la specifica conversazione, nuove prospettive e alternative per la voce ma anche per le emozioni.
  • 8. Rispondere ai problemi dialogici e comportamentali attribuendo loro un significato: nella pratica dialogica si enfatizza la “normalizzazione del discorso”, infatti, il terapeuta si sforza di commentare e rispondere a ciò che viene narrato circa i sintomi o il comportamento problematico considerando tali reazioni come “naturali” in risposta ad una situazione difficile.
  • 9. Enfatizzare le parole stesse e le storie dei clienti, non i sintomi: nel dialogo aperto si raccontano gli eventi della vita di una persona, le sue esperienze, i suoi pensieri e le sue emozioni, non i sintomi.
  • 10. Team riflessivo: i professionisti riflettono sulle idee, immagini, emozioni e possibili associazioni d’idee che sorgono nelle loro menti e nei loro cuori al fine di creare uno spazio durante il quale i terapeuti possono ascoltarsi a vicenda e avere accesso ai propri dialoghi interiori. Tutto ciò avviene in presenza della famiglia che viene invitata ad ascoltare e a non intervenire.
  • 11. Essere trasparenti: ogni partecipante all’incontro di gruppo è coinvolto in egual modo in tutte le discussioni che vengono affrontate. In buona sostanza, tutto il discorso sulla cura è condiviso con tutti i partecipanti, ivi compreso, se necessario, il trattamento farmacologico. Infatti, quest’ultimo viene considerato come una delle possibili traiettorie dei percorsi di cura. Tamponare il sintomo, soffocare le voci e amputare l’esperienza psicotica non sono più concepiti come l’obiettivo prioritario.
  • 12. Tollerare l’incertezza: la crisi va compresa con la partecipazione di tutti (polifonia), non è un evento bizzarro bensì la risposta naturale ad una situazione difficile. Per affrontare tale crisi i terapeuti devono tenere a mente che devono comportarsi in modo da aumentare il senso di sicurezza tra i familiari e il resto della rete sociale. È importante stabilire un contatto con ciascuna persona sin dal primo incontro e riconoscere e legittimare la sua partecipazione. Ciò comporta una riduzione dell’ansia e aumenta la connessione e conseguentemente il senso di sicurezza. (13)

L’OPEN DIALOGUE IN PRATICA

Da un punto di vista pratico le sedute di open dialogue si svolgono in diverse fasi:

  • il/i conduttore/i conduce l’incontro esplorando in prima seduta la storia dell’incontro (chi ha voluto l’incontro, per quale motivo ecc.) mentre nelle successive si chiede ai partecipanti come vogliano usare lo spazio a loro disposizione. Durante tale fase i membri del team riflessivo sono silenti. La durata è di circa un’ora.
  • il/i conduttore/i si rivolge al team riflessivo che ora può esprimere le emozioni, sensazioni, idee, metafore che la famiglia ha suscitato loro. Può anche ricorrere a vissuti di tipo personale. Tutti le riflessioni devono essere caratterizzate dalla connotazione positiva: non mere critiche bensì esperienze che possano aprire nuove alternative.
  • il/i conduttore/i si rivolge alla famiglia chiedendo una loro opinione su quanto detto dal team riflessivo, che torna ad essere silente. Queste due ultime fasi durano in media trenta minuti.

L’OPEN DIALOGUE NEL MDSM DI CALTAGIRONE-PALAGONIA

Per entrare nello specifico della nostra esperienza di open dialogue a Caltagirone e Palagonia, è importante inquadrare il contesto di riferimento: il Modulo Dipartimentale di Salute Mentale di Caltagirone-Palagonia insiste sul territorio siciliano, nel Comprensorio Calatino Sud Simeto, il quale accoglie una popolazione di circa 144.000 abitanti distribuiti in 15 Comuni, la cui economia è prevalentemente caratterizzata da agricoltura, artigianato, servizi e turismo e dove sono presenti due Distretti Socio Sanitari e due Piani di Zona. Tale servizio è formato da due centri di salute mentale, dieci ambulatori territoriali con èquipe formate da psichiatra, psicologo, infermiere e assistente sociale, due centri diurni, un SPDC, un day hospital, una Comunità Terapeutica pubblica, una REMS, un centro per la psicoterapia familiare e di comunità e per l’inclusione socio-lavorativa, un SERT e un servizio di NPI.

Nello specifico, invece, l’introduzione dell’open dialogue nel nostro servizio è partito dalla formazione che, come ricorda Seikkula nel suo articolo del novembre 2016, è una delle traiettorie cardine su cui deve svilupparsi il futuro dell’open dialogue. La formazione ha previsto diversi step: in una prima fase, due operatori del Dipartimento di Salute Mentale si sono recati a Roma dove sono stati formati all’approccio open dialogue (progetto in collaborazione con il CNR per verificare l’applicabilità del modello in Italia), successivamente, attraverso la lettura di articoli, libri e attraverso simulate sono stati formati altri operatori del servizio sotto la supervisione di questi due dirigenti. Gli operatori coinvolti in questa seconda fase sono stati psichiatri, assistenti sociali, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica e infermieri appartenenti sia all’SPDC del P.O. di Caltagirone, sia al servizio territoriale ma anche alla REMS e alla CTA pubblica di Santo Pietro.

Formare tanti operatori all’approccio dell’open dialogue ha permesso di formare èquipe di quattro professionisti (due conduttori e due facenti parte del team riflessivo). Ciò ha comportato una maggiore polifonia che, come ricordato sopra, è uno degli elementi chiave dell’open dialogue. Infine, nell’ottica della formazione si sta attualmente progettando un corso che si svolgerà nel trimestre gennaio-marzo 2017 e sarà aperto ad altri operatori della salute mentale.

Nel periodo che va da marzo a dicembre 2016, sono stati seguiti 30 casi, di cui 6 sono stati presi in carico durante un ricovero ospedaliero e il percorso è continuato nel territorio. Tali casi non sono stati precedentemente segnalati perché ancora il progetto è in fase di introduzione. A tal proposito, è stata elaborata una scheda di primo contatto per individuare i nuovi casi di esordio psicotico, gestita dagli infermieri, e finalizzata a intervenire nelle 24 ore successive alla richiesta d’intervento, così come previsto dal dialogo aperto. È stata la stessa equipe che ha seguito il nucleo familiare, dal momento del ricovero al reinserimento socio-familiare. Viceversa in altri casi si è verificato un primo contatto ambulatoriale presso il Servizio o al domicilio come da specifica richiesta della famiglia. È stata costituita l’èquipe dei professionisti che ha effettuato con la famiglia e la rete sociale degli incontri di open dialogue. Ciò ha permesso di diminuire il numero dei ricoveri in SPDC in assoluto. Il ricovero non è stato necessario neanche di fronte ad eclatanti crisi psicotiche, in alcuni casi anche in presenza dei vigili urbani.

Dall’analisi dei dati dei casi presi in carico e da un approfondimento diagnostico è emerso che: 21 utenti presentavano esordio psicotico, 4 utenti disturbo bipolare, 2 utenti disturbo di personalità borderline, 1 disturbo di personalità dipendente, 1 nevrosi d’ansia con angoscia e 1 sindrome dissociativa.

Questo modus operandi ci rinvia a due concetti chiave sopra esposti o se si preferisce i due concetti chiave implicano questo modus operandi e cioè:

  • 1. l’importanza della continuità psicologica: l’equipe che viene costituita all’inizio del percorso terapeutico deve avere la responsabilità del caso e seguirlo in tutto il suo percorso. Il tema responsabilità fa affiorare alla mente un altro concetto chiave e cioè che l’equipe dei professionisti deve solo aiutare la famiglia a recuperare la sua dialogicità, la responsabilità della cura e l’agentività deve essere della famiglia. Ciò spesso nella nostra esperienza, è stato verbalizzato dagli operatori come “un sentirsi alleggeriti” dalla responsabilità di trovare soluzioni o prospettive alternative alla famiglia. Anche dal punto di vista farmacologico, laddove è stato necessario, il fatto di discuterne apertamente durante l’incontro sia con gli altri membri dell’equipe che con la famiglia è stato percepito dagli operatori come una condivisione di responsabilità.
  • 2. la flessibilità di metodi e strumenti: la flessibilità è uno degli elementi cardine e spesso nella quotidianità dei servizi non è semplice da perseguire. Spesso, infatti, ci siamo imbattuti in problematiche inerenti i turni dei vari operatori: una volta formata, l’equipe deve continuare a seguire quel caso sia che venga visto in ambulatorio sia che prosegua in ospedale e viceversa. Può accadere che gli operatori non siano in servizio e pertanto la flessibilità diventa un importante caposaldo.

CONCLUSIONI

Nella nostra esperienza, che può essere sicuramente connotata in termini positivi, abbiamo notato che l’uso degli psicofarmaci si è notevolmente ridotto nei casi di esordio psicotico, che il numero dei ricoveri ospedalieri è diminuito ma anche il clima relazionale fra gli operatori del Servizio è migliorato e si rileva un maggior coinvolgimento delle famiglie.

In sintesi possiamo dire che siamo i “visitatori” delle persone che ci danno il permesso di visitare la loro vita, ma noi non siamo gli individui più significativi nella loro vita. È più importante che i pazienti siano compresi dai loro familiari o dai propri amici e conoscenti. È così che il paziente riesce a farsi capire e ascoltare e valorizzare come persona. È un tipo di supervisione particolare perché devi fare in modo che risulti utile al paziente e alla famiglia.


BIBLIOGRAFIA

(1) AaltonenJ, Seikkula J, Lehtinen K. The comprehensive Open Dialogue Approach in Western Lapland : the incidence of non-affective psychosis and prodromal states. Psychosis. 2011; 3.

(2) Alanen YO. Schizophrenia. Its origins and Need-Adapted treatment. Karnac Books; 2011.

(3) Andersen T. The reflecting team: dialogues and dialogues and dialogues New York: Norton; 1991.

(4) Andersen T. Conversation, language, and possibilities. New York: Basic Book; 1997.

(5) Arnkil TE, Seikkula J. Metodi dialogici nel lavoro di rete. Erickson; 2012.

(6) Bachtin M. The dialogic imagination. Austin: University of Texas Press; 1981.

(7) Barone R, Bruschetta S. La comunità terapeutica nella comunità locale per la cura della grave patologia mentale Testo disponibile al sito www.mitoerealta.org: CT_e_Comunità_locale_-_Barone_Bruschetta_1.pdf

(8) Barone R, Bellia V, Bruschetta S. Psicoterapia di Comunità. Clinica della partecipazione e politiche di salute mentale. Milano: Franco Angeli; 2010.

(9) Bateson G. Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi; 1976.

(10) Bessone M, Tarantino C. Forme di democrazia in psichiatria: l’Open Dialogue finlandese.

(11) Bruschetta S, Frasca A, Barone R. Verso Servizi Comunitari di Salute Mentale Recovery-Oriented.in Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici, rivista online di psichiatria. 2016.

(12) Bessone M, Tarantino C, Forme di democrazia in psichiatria : l’Open Dialogue finlandese, State of Mind, 03/06/2015

(13) Olson M, Seikkula J, Ziedonis D. The key elements of dialogic practice in Open Dialogue. Worcester:The University of Massachusetts Medical School; 2014. (Trad. It. Gli elementi chiave della Pratica Dialogica nel Dialogo Aperto: criteri di fedeltà ad opera di: Marcello Macario, MD, Mental Health Department, Local Health Authority, Savona (Italy); Angelo Arecco, expert by experience, Italian Hearing Voices Network, Savona (Italy); Chiara Tarantino, Clinical Psychologyst, University of Urbino (Italy) Versione 1.1, 2014

(14) Seikkula J. Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche. Roma: Giovanni Fiorini Editore; 2014.

(15) Seikkula J, Aaltonen J, Alakare B et al. Five-years experience of first-episode non-affective psypchosis in open- dialogue approach:treatment principles, follow-up outcomes, and two case studies. Psycotherapy Research. 2006; 16 (2).

(16) Seikkula J, Dialoghi aperti nel presente e nel futuro: nuovi sviluppi”, 21 Novembre 2016.