Volume 31 - 4 Novembre 2025

Il Verhexungswahn, oggi: intorno a una Sindrome culturalmente ordinata degli emigrati italiani

Autori

Ricevuto il 02 luglio 2025; Accettato il 31 luglio 2025



Riassunto

Il deliroide di affatturamento (o di influenzamento stregonesco), costituisce un sottogruppo di concezioni deliranti che, installate in un’area-limite dell’esperienza psico-relazionale, appaiono “comprensibili” e “condivise” in determinati contesti culturali (costrutto sindromico sintonico con la cultura locale). Di seguito, riportiamo il caso di un paziente transitato presso un servizio psichiatrico ospedaliero italiano, la cui condizione soggettiva collima con il coacervo sintomatologico descritto molti anni fa da M. Risso e W. Böker (Verhexungswahn – VXW). Abbiamo ricapitolato l’anamnesi patobiografica del paziente e descritto la sua traiettoria clinica (integrata con dati biomedici). Abbiamo poi ragionato sulla fenomenologia psicopatologica osservata oltre che sulla terapeutica applicata. Il nostro interesse è stato sollecitato dalla relativa singolarità dell’esempio morboso. Esso invita a cesellare una chiave di lettura aggiornata su una configurazione piuttosto frequente nel corso della Grande emigrazione internazionale delle popolazioni provenienti dall’Italia meridionale.


Summary

Delusions of bewitchment (or of witching influence) constitute a subtype of delusional beliefs that, when rooted in a borderline area of psycho-relational experience, appear “understandable” and “shared” within certain cultural contexts (a syndromic construct resonant with local culture). Below, we present the case of a patient who was treated in an Italian psychiatric hospital, whose subjective condition aligns with the symptomatological features described many years ago by M. Risso and W. Böker (Verhexungswahn – VXW). We summarized the patient's clinical history and biographical background and described his clinical trajectory (integrating biomedical data). Then, we reflected on his psychopathological trajectory as well as on the therapeutic approach applied. Our interest was particularly piqued by the relative rarity of this morbid example, which has invited us to refine an updated interpretative key for a configuration that was quite common during the Great International Emigration of populations from Southern Italy.


Introduzione

Per accostarsi adeguatamente alla situazione clinica descritta attraverso il caso che presenteremo, è necessario porsi in un atteggiamento di “critica aperta”, sottoponendo a scrutinio l’adeguatezza dei criteri diagnostici utilizzati nell’ambito della tutela pubblica della salute mentale. L’argomento in esame è costituito dalle modalità di espressione psicopatologica di una fascinazione che avvince per forza magica e collocata da Risso e Böker [1] in una categoria distinta rispetto ai deliri classici. Il termine Verhexungswahn è stato da loro coniato per restituire la cifra psicopatologica di una condizione culturalmente ordinata diffusa nei migranti meridionali italiani da loro incontrati nella clinica universitaria di Berna. Queste persone presentavano una caratteristica aggregazione sintomatica di cui facevano parte: l’influenzamento del pensiero e soprattutto della volontà (il sentirsi agiti e in balia di una stregoneria o comunque assoggettati alla volontà di una donna esercitante una tale fascinazione); una condizione di impotenza derivante da un’improvvisa perdita di forza e tale da raggiungere anche stati di “deliquio” o perdita di coscienza; l’influenzamento dei vissuti corporei (dai formicolii indotti fino a sensazioni di trasformazione corporea come il rimpicciolimento degli arti, la sensazione di “ristagno” del sangue in alcuni distretti corporei passibili di essere esperiti come anestetizzati o addirittura morti, e così via); le esperienze allucinatorie di diverso tipo ma strettamente connesse al delirio di sortilegio (allucinazioni propriocettive connesse alle trasformazioni corporee; allucinazioni olfattive con il rinvenimento negli oggetti dell’ambiente circostante degli odori delle “sostanze velenose” attraverso cui era stata effettuata la fattura d’amore, ecc.); gli stati di depressione agitata e infiltrata dalla paura (le vittime del sortilegio si sentivano essenzialmente colpite nel loro sentimento vitale, oltremodo malati e prossimi alla morte e da ciò derivava una paura disperata). La sofferenza descritta era attribuita dai pazienti incontrati dagli Autori alle ritorsioni magiche (malocchio e fatture d’amore o di morte) per conflitti erotici e amorosi in corso di migrazione (connessi all’incontro con la sessualità “moderna” delle donne straniere e al richiamo dell’originario mondo femminile e familiare). Inoltre, gli Autori sottolineavano come la peculiarità di questi vissuti fosse costituita dalla loro capacità di sintonizzare interi gruppi umani (quelli delle comunità di origine) su un’interpretazione del male incombente capace di escluderne l’origine intraindividuale, di sottrarlo alla competenza medica e di ricondurlo alla sfera magico-religiosa nel cui ambito rinvenire possibilità di intervento in specifici operatori tecnici intraculturali (magare, ecc.).

Risso e Böker hanno individuato una peculiare casistica che, per sintomatologia e decorso, viene classificata all’interno delle psicosi emotive schizofrenosimili e delle poussées schizofreniche [2]. Tali emergenti clinici presentavano, altresì, una notevole variabilità interindividuale. Sulla scorta di tale evidenza i due studiosi, precursori di un’originale e aggiornata Psicopatologia culturale, hanno infine rinunciato a ricondurli entro una precisa categoria nosografica.

Ai fini dell’inquadramento di questo fenomeno, conviene preliminarmente riferirsi al DSM-5, dove si rinviene l’ordinamento sistematico delle principali forme di delirio, di cui si enfatizza un tratto “patologizzante” invariabile [3]. Questo manuale nosografico istituisce una polarizzazione differenziale fra deliri non bizzarri e bizzarri, collocandoli entrambi nel secondo paragrafo della sezione dedicata ai Disturbi dello spettro della schizofrenia e dedicando poi uno spazio maggiore alla descrizione di questi ultimi. L’elemento distintivo dei deliri bizzarri è il difetto della loro “plausibilità” nella matrice culturale determinante il vissuto psicopatologico dei pazienti. Nel DSM-5, peraltro, si sottolinea come sia fondamentale da parte del clinico tenere in considerazione il contesto nel quale si struttura la concezione delirante. In accordo con la prospettiva etnopsichiatrica, inoltre, si rileva come alcune ideazioni, emergenti da una trama discorsiva socialmente condivisa, possano essere interpretate come deliranti solo se decontestualizzate rispetto alla cultura di riferimento. Queste stesse, invece, risulterebbero non patologiche o patologiche a un diverso grado di gravità se si rivelassero espressioni coerenti con visioni e pratiche sociali condivise: “i familiari, gli amici e i conoscenti trattavano le descrizioni di fatture con la più grande naturalezza. Si può dimostrare che anche l’ambiente circostante, mentalmente sano, crede ai pericolosi effetti di tali magie” [1] (nota 1).

La psicopatologia classica ha dedicato particolare attenzione ai deliri bizzarri in quanto ritenuti il sintomo principe dei quadri schizofrenici. Gli epifenomeni deliranti si configurano come primari, ossia inderivabili e incomprensibili dal punto di vista psicologico [4]. Se consideriamo la “perdita del senso comune” come l’elemento centrale del mondo della vita (Lebenswelt) delle persone schizofreniche, essi rappresentano un prodotto del dispositivo antropologico della “rivelazione”, in grado di svelare (Apofania) nuove formazioni sostitutive della realtà e di disegnare un ulteriore orizzonte di senso [5, 6, 7].

Minore attenzione è stata invece dedicata ai deliroidi, quadri clinici “secondari” caratterizzati da un rapporto di derivabilità o comprensibilità psicologica con: a) il tono dell’umore (olotimici); b) le circostanze esterne e il contesto culturale (situazionali); c) i tratti di personalità (caratterogeni). Più che sulla “rivelazione”, il deliroide è alimentato dal dispositivo della “conferma” di uno stato affettivo irrigidito e sull’intolleranza all’ambiguità [8].

Nonostante la convinzione delirante sia scarsamente criticate e fortemente sostenuta dalla postura assertiva (stenica) dell’individuo, il deliroide – a differenza dei deliri primari – conferisce maggiore “plasticità” formale al sintomo grazie alla sua dipendenza dalla fluttuazione del tono affettivo basale. Spesso, inoltre, i deliroidi non esprimono contenuti bizzarri tanto più che, se contestualizzati, appaiono finanche plausibili all’osservatore esterno e lo inducono a interrogarsi sugli aspetti dilemmatici del loro inquadramento.

Al livello inferiore di gravità sintomatologica troviamo le idee prevalenti: verosimili (rispetto al contenuto); derivabili (da eventi di vita o da conflitti relazionali); criticabili (ma fino a un certo punto, esercitando le facoltà personali di esame e giudizio cosciente); predominanti (su ogni altro pensiero); perseguite e riproposte con ostinazione indefessa (spinta oltre i limiti di una ragionevolezza temperata e condivisa). L’ideazione prevalente appare spesso associata a quadri dello spettro psicotico con evoluzione non difettuale (es., parafrenie) o a disturbi non univocamente psicotici (es., dismorfofobie).

In sintesi, quando si parla di “delirio” non si fa riferimento a una sintomatologia unitaria, ma a un insieme eterogeneo di costrutti ideativi che differiscono tra loro non soltanto per i contenuti, ma anche per genesi e decorso (nel contesto, o meno, di un disturbo dello spettro psicotico). Allo stesso modo, le condizioni psichiatriche risultanti dall’aggregazione più o meno coerente di questi e altri sintomi (es., Disturbi schizofrenici) appaiono difficilmente assimilabili a una malattia caratterizzata da un’evoluzione obbligata e invariante, quanto a un processo esistenziale aperto a un’ampia varietà di influenze determinative (eterogenesi) e di esiti funzionali. Di conseguenza, i fattori interagenti sul campo multistratificato e multivettoriale – familiare, sociale e culturale – in cui si muove la persona esercitano un condizionamento decisivo nella genesi e nell’andamento cronodinamico di questi disturbi [9].

Una volta fissati i capisaldi osservativi ed epidemiologici della psichiatria convenzionale, occorre ora spostarsi lungo una prospettiva diversa. Per apprezzare le sfaccettature della storia clinica qui presentata, bisogna confrontarsi con il paradigma tratteggiato da Risso e Böker, che rinvia alla più generale lezione antropologica di Ernesto de Martino [10]. Questo invito storico e metodologico viene da noi avanzato in quanto riteniamo di trovarci al cospetto di un caso che interessa l’ambito della “Psichiatria culturale” [11], o “transculturale” [1].


Il caso

Rocco ha 72 anni, primogenito, nato in un paese della Lucania e attualmente in pensione. Al momento del primo accesso presso il nostro Servizio vive da solo, pur mantenendo contatti con la famiglia d’origine. I genitori sono deceduti in età avanzata. Anche il fratello minore si è trasferito in Toscana; la sorella risiede in Italia meridionale; in passato ha sofferto di una depressione subclinica. Nessun’altra problematica psichiatrica di rilievo in famiglia. Prima della recente degenza, l’interessato non ha mai avuto contatti con specialisti in salute mentale. È stato valutato ambulatorialmente una sola volta, ma è stato poi ricoverato in SPDC per aver rivolto minacce contro una donna colpevole, a suo dire, di avergli “lanciato” un “maleficio”.

Il paziente soffre di ipertensione e diabete non insulino-dipendente. Le analisi di laboratorio rilevano poliglobulia JAK-2 negativa e insufficienza renale cronica di terzo grado – elementi suggestivi di danno epatico, da correlarsi con l’inclinazione al consumo eccessivo e protratto di alcol (potus). Questo comportamento viene da lui minimizzato e giudicato irrilevante. Nel 2020 è stato colpito da un ictus su base ischemica e, recentemente, è stato ricoverato nel reparto di Malattie Infettive a causa di un rash allergico.

All’ingresso in SPDC, si mostra lucido e collaborante, ma tende a inalberarsi. Non sembrano esserci alterazioni dell’asse timico; il contenuto del pensiero appare polarizzato sulla tematica del maleficio: si mostra recriminativo verso l’équipe curante e, soprattutto, nei confronti di una vicina di casa, con cui sarebbe in corso una “guerra di magia”. Rocco ritiene che non dovrebbe essere lui quello “sotto esame”; ciononostante, dopo alcune contrattazioni, accetta le cure. Dal punto di vista diagnostico, emergono solo alcuni tratti afferenti al Cluster A, per cui si desiste dal diagnosticare un Disturbo di personalità. Durante il colloquio, il pensiero appare organizzato, ma i contenuti risultano resistenti alla critica. L’atteggiamento in reparto è a tratti inadeguato: irascibile e litigioso con gli altri utenti.

All’ingresso assume Promazina (40 mg al giorno) e Alprazolam (2 mg al giorno). Durante i 10 giorni di degenza la terapia viene modificata, introducendo prima Risperidone e poi Lurasidone, entrambi sospesi a causa di parziale inefficacia e scarsa tollerabilità soggettiva (da sedazione e scialorrea). Viene infine introdotto Paliperidone, a basso dosaggio, che il paziente ha accettato di assumere per un periodo più continuativo. La sintomatologia delirante si ridimensiona in parte nel corso del ricovero ospedaliero: permane la convinzione idiosincrasica di essere stato “stregato”. L’irritabilità, invece, scema progressivamente sia nei confronti degli altri degenti sia verso la persecutrice. Afferma che non desidera più attaccarla fisicamente, preferendo mantenere lo scontro personale su un “piano magico”.

In questo periodo assistenziale vengono effettuate una TC cranio-encefalo e, per completezza diagnostica, una PET-FDG. Gli esami strumentali obiettivano una sofferenza diffusa a carico di diverse zone encefaliche, ma di significato non dirimente sul piano neuropsicopatogenetico.

In vista del rientro a domicilio, si sfrutta la sua maggiore lucidità e collaborazione per esplorare più a fondo le credenze deliranti da lui non ancora criticate.

Racconta che i primi contatti con la dimensione magica sarebbero avvenuti in tarda adolescenza: dopo aver abbandonato il liceo ha lavorato come tecnico e agricoltore, incominciando a studiare da autodidatta la materia esoterica. Nessun familiare o amico dell’epoca avrebbe condiviso il suo interesse per l’arcano.

All’età di 19 anni, sarebbe stato vittima di una prima “fattura”, lanciatagli da una giovane che desiderava sposare. Allo scopo di allontanarlo, la famiglia della ragazza si sarebbe rivolta a un “fattucchiere”, incaricandolo di preparare un sortilegio di malattia. Rocco dichiara di essersi lasciato aiutare da un altro “mago” – per riuscire a “guarire” – e ci istruisce che le fatture sono di tre tipi: d’amore; di morte; di malattia. Per caratteristiche specifiche e intrinseche, quest’ultima può diventare la peggiore. Disegna per noi uno schema con cui ci spiega, in modo enfatico ed esauriente, le “regole” dell’attività magica. Sostiene di aver allestito una biblioteca personale, accumulando quasi 300 libri sull’argomento.

Fig. 1. Modello semplificato illustrato dal paziente: “Se la fattura viene commissionata, il colpo di ritorno non colpisce il mago che la fabbrica, ma la persona che la commissiona”.

A 25 anni viene colpito da una seconda fattura, di nuovo commissionata dalla famiglia della giovane desiderata anni prima. Descrive il proprio stato sotto l’influsso del sortilegio ed esso ricalca, per certi versi, la configurazione di un episodio depressivo di entità moderata, seguito da una fase simile allo sviluppo timico di uno “stato misto”, con salienze di aggressività e irrequietezza generale.

Anche in questa seconda occasione si affida a un mago capace di confezionare una “controfattura”, ma poi porta a termine da solo la costruzione dello strumento di “contrattacco”. Nel corso del tempo, non si rivolge mai a uno psichiatra e continua a incontrare operatori del magico e “streghe”, ma mostra una certa reticenza a parlarne. Fra la seconda fattura e lo stregamento della vicina passano quasi 50 anni! A un certo punto della vita contrae matrimonio, ma si separa dalla moglie e si trasferisce in Italia settentrionale. Lascia la Lucania perché vi si sarebbe sparsa la voce che “guarisce” la gente; ciò l’avrebbe reso un bersaglio di azioni occulte istigate dall’invidia sociale.

Compra quindi casa nella frazione di una cittadina toscana. La proprietaria dell’abitazione, da cui acquista l’appartamento, continua a vivere nello stesso palazzo. I rapporti con la donna, oltre che con la figlia di quest’ultima, vengono descritti come inizialmente distesi. Qualche dubbio fuggevole, sugli intenti malevoli delle vicine, s’infiltra tra i suoi pensieri dopo l’episodio ictale. Un giorno, però, rinviene sulle scale condominiali una busta con un ago all’interno. Indentifica questi oggetti come vettori materiali del sortilegio. Per strana ricorrenza, qualche settimana prima un’altra inquilina avrebbe deciso di lasciare lo stabile in seguito alla scoperta di una busta simile alla propria.

Qui emergono le prime salienze di alterazioni psicotiche del pensiero – in primis: un elevato grado di sensitività interpretativa persecutoria (identifica nelle scale il luogo in cui viene “spiato”; successivamente, comunica che le pareti del suo appartamento sono troppo sottili, per cui è possibile origliare attraverso di esse). A questo episodio ne fa seguito uno altrettanto significativo.

Rocco viene ricoverato per dieci giorni a causa di una cellulite localizzata al volto; nel corso della degenza, subentra una reazione avversa agli antibiotici (rash maculopapulare che impone un trattamento steroideo). Interpreta queste manifestazioni dermoreattive quale indubitabile effetto della fattura di malattia e segno somaticamente cifrato di una dichiarazione di guerra. Tali condizioni inconfutabili innescano in lui sentimenti di acrimonia e lo istigano a minacciare la vicina, identificata come persecutrice e belligerante.

Gli aspetti più problematici del quadro – su tutti: aggressività e ideazione eterolesiva – rientrano dopo alcuni giorni di terapia ospedaliera. Il paziente viene pertanto dimesso con la prescrizione di assumere quotidianamente due antipsicotici (Promazina, Paliperidone) e un ansiolitico (Alprazolam). Rocco rientra al proprio domicilio accettando, inizialmente, di porsi in una posizione non bellicista nei confronti della signora. In tale fase, il quadro appare maggiormente controllato a livello volizionale (inibizione più efficace della tendenza aggressiva), ma permane florida l’ideazione delirante soggiacente.

Nei giorni successivi alla dimissione, il paziente esperisce un peggioramento del quadro psicopatologico: il conflitto con la vicina di casa si rinnova rapidamente e la sua intensità impone un secondo ricovero. Non solo: Rocco viene sottoposto a una misura di sicurezza che lo obbliga a risiedere in un luogo di cura. In osservanza della restrizione e raggiunta una stabilizzazione clinica, viene inserito in una S.R.P. 3 (nota 2), in attesa di poter essere trasferito in un ambiente assistenziale idoneo all’età e alle condizioni cliniche. All’interno della suddetta struttura intermedia, il paziente appare adeguato sul piano comportamentale e aderisce al trattamento farmacologico. In questa fase, però, gli operatori si misurano con la rigidità del suo pensiero, dovendo gestirne l’insofferenza a condividere gli spazi di vita insieme agli altri degenti e fronteggiarne la tendenza al ritiro sociale.

Trasferito infine in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA), viene rivalutato clinicamente per monitorare il quadro psicopatologico. Al momento del riesame, il paziente appare lucido, con buone facoltà mnesiche, correttamente orientato nello spazio e nel tempo. A distanza di quasi un anno dall’ultimo ricovero, nonostante non si osservino segni di acuzie psicotica in atto, il contenuto del suo pensiero è ancora polarizzato sulla convinzione, salda e scarsamente criticata, di essere stato vittima di un affatturamento da parte della vicina, rispetto alla quale non esita a esprimersi in maniera recriminatoria e, a tratti, offensiva.

Tale pensiero turba pervasivamente il vissuto soggettivo, al punto che Rocco finisce per attribuire allo stregamento anche i sintomi somatici occorsi durante la collocazione in S.R.P. 3, in virtù del ripristino della prossimità spaziale con la vicina incriminata (influenzamento ravvicinato). Con debole capacità critica, afferma di non riuscire a respirare né a sentire gli odori durante la permanenza, obbligata e temporanea, in struttura. Anche se l’obiettività clinica e gli accertamenti eseguiti hanno escluso la sussistenza di una patologia organica in atto, Rocco continua ad attribuire la perturbazione fisiopatologica ai malefici della vicina, capace di perseguitarlo anche a distanza (influenzamento remoto). Il paziente lamenta la deflessione del tono umorale (astenia emozionale) che scorre parallelamente alla produttività della tematica delirante (ideazione stenica). L’interazione tra queste due sfere fenomeniche (deflazione umorale; inflazione ideativa) lo imprigiona in una cella immaginativa a muri invisibili: trascorre in solitudine buona parte della giornata, del tutto refrattario a rapportarsi con gli utenti e gli operatori dell’ambiente socio-istituzionale.


Riflessioni

Impiegando gli attuali sistemi nosografici, il caso descritto rappresenta un esempio di Delirio secondario (deliroide), espresso da un paziente con alcuni tratti personologici ascrivibili al cosiddetto cluster A (DSM-5) [3].

Vogliamo qui evidenziare l’affinità psicopatologica e socio-culturale tra la storia di Rocco e quelle descritte da Risso e Böker in “Sortilegio e delirio” [1].

Nonostante il lungo intervallo temporale e le distanze geoculturali, queste narrazioni socio-cliniche si intrecciano in alcuni nodi euristicamente stringenti:

  1. contesto culturale;
  2. tema delirante;
  3. assenza di ulteriori sintomi psicotici (dispercezioni, alterazioni formali del pensiero)
  4. anamnesi familiare esente da psicopatologia maggiore.

Come nei casi di Verhexungswahn, si impone la centralità di un evento di vita (amore negato) che funge da innesco e propulsore dello sviluppo di una configurazione psicopatologica emergente da una contingenza critica socio-affettiva condivisa da molti pazienti meridionali emigrati all’estero [10].

Effetti dell’amore negato: Rocco sostiene di essersi sentito “umiliato” dal rifiuto subito in gioventù da parte di una ragazza decisa ad autodeterminarsi rispetto alle proprie scelte affettive. A protezione di questa opzione soggettiva si schiera la volontà di un intero gruppo familiare, che arma la propria strategia con strumenti d’offesa fabbricati dalla “bassa magia” popolare e di uso convenzionale all’interno di uno specifico contesto socioculturale [1].

Nella casistica di Risso e Böker, il paziente “medio” è convinto di essere stato in qualche modo “raggirato” (influenzato) da una donna. Il “raggiro” interviene sia nel momento del respingimento esplicito, sia quando quella stessa si adopera, con modalità occulte, a impedire che l’uomo riesca a intrattenere relazioni affettive e sessuali con altre congeneri.

Risalendo a queste narrazioni, si rilevano alcune importanti differenze nel modo di presentazione e nell’andamento dei tre episodi di stregamento che Rocco riferisce di aver sperimentato nel corso della vita. Se i primi due ricalcano quelli di “Sortilegio e Delirio” – in termini di esordio, acme e risoluzione – il terzo episodio possiede caratteristiche peculiari e diverge dagli altri due per:

  1. Età: i casi descritti da Risso e Böker interessano pazienti mediamente giovani mentre il nostro è un uomo in fase senile;
  2. Localizzazione geografica: migrazione extra-nazionale (Svizzera) per loro, nazionale (interna), in questo caso. Tale raffronto autorizza l’ipotesi che alcuni sintomi siano espressione di una risposta disadattiva generale di fronte a mutazioni socio-ambientali;
  3. Situazione culturale: Risso e Böker intercettano questa peculiare anomalia morbosa quando i pazienti risiedono in un mondo straniero. Nel nostro caso, invece, l’interpretazione magica dell’attacco persecutorio viene elaborata, oltre che “agita” (controfattura), nella società nativa e, a distanza di tempo, si riattiva e intensifica in quella adottiva (migrazione interna), dove assume una forma francamente psicopatologica.

I primi due episodi si verificano quando anche il nostro paziente è giovane e vive nella regione d’origine. In tale contesto persiste la tendenza culturale ad accettare una spiegazione “magica” per eventi psicologici abnormi. L’ultimo episodio si verifica in Toscana, ai giorni nostri e a paziente ormai invecchiato. In questo secondo scenario regionale, Rocco non ha rapporti significativi con persone che condividano il tradizionale modello esplicativo della patologia messo a disposizione (ready-made) dei membri appartenenti allo stesso mondo ideologico (trasmissione intergenerazionale di concezioni del mondo e pratiche sociali [12]).

Nel nuovo contesto sociale viene inquadrato come delirante non solo a causa del contenuto (“incomprensibile”) dei suoi racconti, ma anche perché questi ultimi perdono carattere e peso “sociale”, non essendo più condivisi con altri [11]. Il carattere e il peso conferiscono ai modelli interpretativi tradizionali una peculiare forza protettiva, mentale e sociorelazionale, in situazioni critiche individuali o collettive anche di notevole impatto. In assenza di una sintonizzazione partecipata, il soggetto finisce per costruire un’idea singolare, divergente, di esclusiva proprietà individuale (idiosincrasica) che lo dissocia e lo esclude dalla realtà consensuale (mancata aderenza al senso comune; perdita dell’evidenza naturale) [13].

Nel nostro caso, l’elemento patogeno viene forse anche rinforzato dall’accoglimento in una struttura residenziale dove vive lontano dai familiari e senza riuscire ad allacciare relazioni con altre persone. Ciò potrebbe aver favorito l’incistamento e la cronicizzazione di un delirio che permea, infine, l’intero vissuto soggettivo.

La retrazione dietro la barriera difensiva di uno spoglio castello delirante non sembra semplicemente il frutto delle contingenze, ma anche, almeno in parte, una strategia intenzionale. Nel corso del tempo, Rocco non si azzarda a condividere la propria “dottrina” con persone estranee (non iniziate) a un “cerchio magico” confessionale e paraprofessionale (maghi o “streghe”). Questo è un riflesso opaco della natura intima e gelosa contenuta nel “mondo magico” in cui si è inviluppato [10]. Da un lato, questa intenzione strategica protegge chi si avvicina al “portatore” di una conoscenza scomoda, evitando la diffusione del “contagio” psichico (delirio a più persone). È plausibile considerare anche un’ipotesi “non altruista”, anzi auto-celebrativa e grandiosa: Rocco evita di condividere le sue conoscenze non ordinarie perché solo lui sa padroneggiare il potere esoterico che gli consente di contrastare le forze maligne.

Questo aspetto differisce dalla concettualizzazione del delirio di stregamento avanzata da Risso e Böker. Essi introducono la loro categoria nosografica per alimentare il dialogo fra la categoria psicodiagnostica di delirio, utilizzata dalla psichiatria scientifica, e quella di affatturamento, diffusa nel contesto demo-antropologico dell’Italia meridionale. In tal modo, intendono mettere in luce l’importanza di uno spazio di confronto fra le rappresentazioni della malattia fornite dal paziente e quelle utilizzate dallo psichiatra [14].

Nel caso descritto, il paziente finisce per escludere totalmente l’interlocutore dalla possibilità di “comprendere” il delirio ed esserne empaticamente partecipe. Tuttavia, nella tematica delirante permane una certa “esplicabilità”. Nell’ascoltare il paziente viene da chiedersi: perché, tutto sommato, non prendere per buone le sue parole? Il suo ragionamento è lineare… sembra consapevole che, in una dimensione così evanescente, ci possano essere degli “impostori”. Formula addirittura argomentazioni sensate nel contrapporre ai mistificatori i “maghi veri”, a cui, fra le righe, afferma di appartenere. Quante volte capita di trovare deliri spiegati in modo coerente, quasi “credibili”? In queste situazioni di incertezza, per non perdere l’orientamento clinico, è massimamente utile misurare la presenza e l’effetto della cosiddetta percezione delirante, esperienza sorgiva e spesso ineffabile (perché satura d’angoscia) che pervade l’esperienza soggettiva di una modificazione paurosa del mondo: Rocco descrive con toni onirici l’episodio del ritrovamento dell’ago nella busta, primum movens della cascata delirante [15]. Il pensiero si immerge in un’atmosfera crepuscolare (tramonto dell’astro di senso che illumina la realtà ordinaria), perde di definizione, diventa auto-referenziale e allusivo. La trama narrativa si fa più sottile, si confonde, si frammenta e perde di linearità fino a raggiungere il punto di caduta, dove il nostro sofferente, “infine”, lancia il proclama stentoreo di “vedere” un “disegno” persecutorio.

Da questo caso emerge una forma compiuta (Gestalt) – portatrice di senso – della tematica delirante. Essa potrebbe funzionare come un pensiero operatorio, ovvero come una ritualità performativa interna in grado di promuovere decisioni e prescrivere comportamenti. Tale dispositivo ideativo e fattuale sarebbe talmente interiorizzato da agire in modo quasi auto-risolutivo e terapeutico. A proposito della ritualità sociale – egemonica all’interno di un mondo culturale dato – de Martino identifica l’efficacia del processo rituale nella sua funzione di “destorificazione del divenire”. Sulla scorta di una deliberazione ideativa – più o meno cosciente, più o meno automatica – il rito preordina una sorta di via di fuga dalla sofferenza contingente che: “…permette a questi uomini di vivere nel corso del tempo come se non percorressero uno sviluppo individuale, cioè senza confrontarsi realmente con i propri conflitti e le proprie paure…” [16].

Al culmine della proiezione delirante sulla realtà, può spesso accadere che il “fuggitivo” finisca dentro un’insidiosa trappola esistenziale, dove viene sequestrata e incatenata l’ulteriore capacità evolutiva della persona. Diventa così necessario, perché richiesto e giustificato, un gesto terapeutico alternativo. Quest’ultimo deve ricercare una via diversa da quella, erratica e ormai ineffettuale, tracciata dalla nosologia popolare che, senza adeguate mediazioni socio-culturali e filtri affettivo-relazionali correttivi, ha contribuito alla costruzione dell’apparato delirante. Questa terza via deve sapere articolarsi allo snodo tra concezioni scientifiche e tradizionali – punto di avvicinamento lubrificato da un ascolto empatico e sapiente – senza procedere a squalifiche e sanzioni, né inebriarsi con fascinazioni irrazionali.

Merita infine avanzare una breve considerazione riguardo alla scelta farmacologica: visto il dubbio circa una possibile componente affettiva alla base del quadro deliroide, si potrebbe sollevare l’obiezione di non avere impiegato un regolatore timico puro invece di un farmaco più propriamente deliriolitico (quale, ad esempio, un antipsicotico tipico). Appare d’altra parte difficile sostenere la presenza di un vero e proprio disturbo dello spettro bipolare in un paziente settantenne che, fino a quel momento, non ha mai assunto terapia né richiesto un ricovero.

La scelta di un farmaco antipsicotico di seconda generazione – quindi non un bloccante D2 puro – è dovuta principalmente a due fattori:

  1. l’età del paziente impone un’attenzione particolare rispetto alla tollerabilità della terapia prescritta, e generalmente gli antipsicotici atipici sono associati a minori effetti collaterali rispetto ai tipici, soprattutto in termini di sintomi extrapiramidali;
  2. la natura culturalmente ordinata (Culture-Bound Syndrome – CBS) del sintomo, che lo rende particolarmente sintono con il vissuto del paziente, potrebbe minare alla base l’efficacia della terapia neurolettica, qualunque sia la scelta del farmaco. In tal senso, il delirio potrebbe essere considerato – da un punto di vista clinico e di approccio terapeutico – più affine a un tratto di personalità che a un sintomo positivo nell’ambito di un’acuzie psicotica [17].

In sintesi, la vignetta clinica riportata è ricca di elementi interessanti per la psichiatria del presente. Essa riporta l’attenzione su una casistica che, per motivi storici e antropologici, almeno in Italia, non è più così rappresentata come in passato, ma possiede una valenza fondamentale in etnopsichiatria. È indubbio che un saper-fare transculturale sia indispensabile per valutare le stratificazioni complesse del caso e progettare un programma di cura adeguato.

Nelle pagine finali di Sortilegio e delirio, Michele Risso s’interroga sul ruolo dell’azione interpretativa rivolta dal terapeuta al paziente, e discute sul mondo della comunicazione rispetto a quello dell’interpretazione [1]. Quando, da terapeuti, ci scontriamo con un milieu culturale completamente diverso dal nostro, mettersi in una posizione d’ascolto può essere l’unica via efficace per distinguere ciò che è culturalmente determinato da ciò che è delirio o lo sottende.


Note

Nota 1: Si può solo richiamare il delirio mistico, che rappresenta un altro tipo psicotico “culturalmente giustificato” in quanto spesso innestato su una radicata fede religiosa. A tale riguardo è utile tenere a mente la differenza tra orientamento religioso estrinseco e intrinseco di Allport & Ross [3], oltre che il parallelismo con le forme esternalizzanti e interiorizzate di narcisismo.

Nota 2: Le S.R.P. 3 sono strutture residenziali che accolgono pazienti che, almeno transitoriamente, non possono permanere nel proprio contesto familiare in forza delle necessità assistenziali, ma i cui quadri clinici permettono un funzionamento personale e sociale per cui risultano efficaci programmi di intervento a bassa intensità riabilitativa.


Riferimenti bibliografici

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