Uscire dall’invisibilità. Favorire alleanze tra istituzioni e territorio nei percorsi di migranti e richiedenti asilo
Autrice
Contributo presentato alla Riunione Scientifica SIEP tenutasi a Firenze il 28 e 29 novembre 2024 dal titolo “Quali risorse per la salute mentale? Alleanze tra Servizi, utenti, famiglie, agenzie del territorio”.
Questo approfondimento nasce dal lavoro di un gruppo di operatrici del DAISM-DP di Parma cha ha deciso di firmarsi come CIM, Collettivo che Incontra le Marginalità, e da diversi anni propone seminari e articoli sui cosiddetti “emergenti” in salute mentale interrogando le istituzioni nelle quali lavoriamo. Tra questi il tema dell’accoglienza dei migranti sfida i nostri dispositivi del sapere e della conoscenza, obbligandoci a rinunciare ad una competenza tecnica in favore di strumenti di co-apprendimento e di emancipazione, sia delle persone che incontriamo, sia degli stessi operatori impegnati. Il CIM opera alleanza, come in questo approfondimento che vede la collaborazione di Alice Corsaro, medico specialista in Igiene Pubblica dell’azienda Usl di Parma e Silvia Vesco, responsabile dell’area Salute per CIAC, associazione che da oltre 20 anni, si occupa della tutela di richiedenti asilo e rifugiati per la città di Parma. Operano nel CIM Germana Verdoliva, Marianna Cavalli, Emanuela Leuci e Maria Inglese.
Da dove siamo partite
Nell’agosto 2023 viene aperto a Parma un Centro di Accoglienza Straordinario Provvisorio (CASP,) sotto la responsabilità della Prefettura di Parma con il coinvolgimento della Protezione Civile. Si tratta di un luogo di transito per migranti di recente arrivo in Italia, provenienti dalle regioni del sud Italia, Sicilia, Calabria; ha ospitato fino ad un massimo di 120 persone contemporaneamente, di varie provenienze, di varie età, tra i quali sono transitati alcuni minori, donne, e nuclei familiari.
Era l’11 agosto, nel pieno delle ferie, nostre e della città che sonnecchiava; con le colleghe Corsaro e Vesco del CISS (Coordinamento Interdisciplinare Socio Sanitario tra Azienda Usl di Parma e associazione Ciac per l’integrazione delle situazioni di vulnerabilità tra richiedenti e titolari di protezione internazionale) decidiamo di “andare a vedere”. Andare, vedere, incontrare persone di recente sbarco, che avevano il diritto di fare richiesta di asilo e protezione, in vulnerabilità fisica e psichica. Nessuno ce lo chiede, andiamo lo stesso.
E cominciamo ad incontrare le persone, minori e non, presenti nel campo individuando gli indicatori di vulnerabilità e segnalando le situazioni che necessitano di un rapido trasferimento in strutture di accoglienza più adeguate (più decenti, nella accezione di Margalit: le società civili sono quelle nelle quali i cittadini non si umiliano tra loro, le società decenti dove le istituzioni non umiliano i cittadini).
I primi casi incontrati sono i minori, per i quali ancora non era stata avviata la procedura di protezione in quanto vulnerabili per definizione come indicato nella trasposizione della Direttiva 2013/33/UE, l’art. 17, comma 1 del D. Lgs. n. 142/2015. Con i colleghi della NPIA decidiamo di dedicare una parte del nostro tempo a incontrarli in contesti di sicurezza e competenza culturale. Cosa intendiamo con competenza e sicurezza culturale?
Competenza culturale riassume quel posizionamento che nell’incontro clinico accoglie e interroga alla pari il punto di vista del paziente, che può essere influenzato dalla sua affiliazione originaria (identità culturale, spiegazione culturale della malattia, ambiente psicosociale di riferimento, elementi culturali della relazione medico-paziente). Con Sicurezza culturale si intende il saper affrontare gli squilibri di potere nelle istituzioni sanitarie per garantire una base etica all’assistenza sanitaria, quale banalmente la possibilità del paziente di esprimersi nella propria lingua d’origine (è una criticità nei servizi sanitari la limitata attivazione dello strumento della mediazione culturale nell’incontro con i pazienti stranieri, solo per fare un esempio). Impressione diffusa di chi lavora all’interno dei servizi di salute mentale è che la “competenza e la sicurezza culturale” siano ancora un obiettivo da raggiungere, insieme ad interventi efficaci nei confronti dell’utenza straniera che si rivolge a noi.
È un dato emergente quanto sia in crescita l’impatto sui Servizi preposti alla tutela della salute mentale delle popolazioni dei rifugiati e dei richiedenti asilo. In uno studio dell’Università di Verona (1) si registra, dal 2000 in poi, un accesso crescente della popolazione migrante nei servizi di salute mentale (dal 2% nel 2000 al 17% nel 2021). È altresì noto quanto questa popolazione presenti un’elevata prevalenza di disagio psicosociale e di disturbi psichiatrici: tra i migranti inseriti nei percorsi di accoglienza infatti il 34% soffre di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e i 31% di disturbi depressivi, seguono il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo da attacchi di panico, i disturbi di somatizzazione.
Tale popolazione presenta numerosi fattori di rischio per la salute e in particolare per la salute mentale che si possono suddividere in pre-migratori, migratori e post-migratori, tra i quali ne ricordiamo solo alcuni: condizioni socio-economiche precarie, povertà, disoccupazione, guerre e persecuzioni nel paese d’origine, viaggi attraverso il deserto nelle mani spesso di trafficanti di uomini, violenze dirette e assistite, imprigionamenti, stupri, ma anche il percorso e il tempo di attesa nel vedersi riconoscere titolari di un permesso, i dinieghi, il razzismo istituzionale, le modalità di accesso ai servizi di cura. Su alcuni di questi fattori di rischio è possibile, per i servizi territoriali, “fare la differenza”.
Bisogna considerare quanto la migrazione negli ultimi 10 anni sia profondamente mutata. Il tema migrazione economica è sempre un po’ spinosa, sicuramente vi è un cambio negli ultimi dieci anni, i salvataggi in mare sono stati molto limitati, vi è sempre una maggiore esternalizzazione dei confini (caso Albania), l’accesso alla protezione internazionale è sempre più ostacolato. Le persone che oggi arrivano nel nostro paese diventano quindi portatrici di innumerevoli fattori di rischio che impattano sulla salute mentale. Possiamo dire che dal punto di vista della salute si è passati dall’incontrare persone giovani e generalmente in buona salute (“il migrante sano”), ad incontrare persone con un patrimonio in termini di salute depauperato (“il migrante esausto”) (2).
La migrazione risulta, di per sé, un fattore di rischio potenzialmente traumatico, ‘iniziatico’ (si pensi soltanto ai tanti minori stranieri non accompagnati che arrivano nei paesi europei). Il progetto migratorio è, infatti, spesso connotato da un debito generazionale e da un preciso mandato familiare.
Altri fattori di rischio, che impattano sulla vulnerabilità di questa popolazione sono i traumi ripetuti e le violenze intenzionali. Michele Rossi (3) analizza le domande di asilo autografe (un documento scritto in prima persona in cui il richiedente protezione umanitaria ricostruisce i fatti, gli eventi e i motivi che hanno determinato la sua migrazione) facendo emergere la violenza come un dato strutturale della migrazione contemporanea e che come tale va quindi considerata centrale nella accoglienza e nella presa in carico dei soggetti che arrivano nel nostro sistema di cura. Il 79% dei richiedenti asilo, scrive Rossi, ha subito violenza, tortura, stupro, abuso sessuale; il 93% riporta di avervi assistito.
Inoltre, la vittima di tortura, difficilmente approda ai servizi di salute mentale, arriva più facilmente ai servizi di cure primarie o di emergenza/urgenza portando una serie di manifestazioni somatiche vaghe e persistenti, quali cefalee, insonnie, irritabilità, disturbi del comportamento. Si tratta di esperienze che lasciano un segno indelebile nella psiche e nel corpo della persona, ma sono inenarrabili: aprirsi alla narrazione, mettere in parola è insostenibile e può avvenire solo in contesti altamente sicuri e protetti e con personale formato, specializzato e capace.
I migranti hanno, infine, un minore accesso e utilizzo dei servizi di salute mentale (4), vi sono ostacoli nel ricevere cure adeguate, per problemi finanziari-economici, per la precarietà della propria posizione giuridica, ma anche per mancanza di servizi culturalmente e linguisticamente competenti (5a, 5b, 5c) e per la presenza dello stigma rispetto alla malattia mentale.
Chi è il vulnerabile che incontriamo?
Nel libro di Michele Rossi (6), direttore di Ciac (Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione internazionale di Parma e provincia) sono raccolte le memorie autografe di tutti i richiedenti asilo e protezione giunti all’osservazione del centro (circa 400 dal 2012 al 2017) e analizzate nella loro costruzione narrativa e concreta. Si tratta di un manoscritto autografo prodotto dal richiedente asilo immediatamente dopo l’approdo in Italia o comunque entro i primi mesi dall’arrivo, in cui vengono narrate in prima persona, con l’aiuto di mediatori anch’essi spesso ex-richiedenti protezione, le vicende biografiche premigratorie e migratorie, alle quali vengono aggiunte le narrazioni delle vicende post-migratorie (un respingimento della domanda, ritardi nelle risposte, difficoltà socio-ambientali, mancanza di risorse, di rete e di contatti con i familiari) che rappresentano dei veri e propri fattori di rischio sulla tenuta della salute fisica e psichica. Rossi analizza in queste narrazioni i fattori socio-demografici, quelli contestuali o strutturali (possibilità di scegliere la migrazione, risorse, debito contratto) e quelli relazionali comunitari (legami familiari, relazioni di prossimità) e ne ricava tre profili del ‘nuovo’ richiedente asilo e protezione:
- Il ‘rifugiato classico’
Soggetto che subisce una persecuzione individuale agita o temuta per motivi politici, culturali o legati all’appartenenza a specifici gruppi sociali; non può o non vuole avvalersi della protezione del proprio stato e quindi sceglie la via della migrazione forzata (risponde ai requisiti di protezione della Carta di Ginevra, 1953). Di solito ha un profilo sociale più alto, vive in contesti urbani e metropolitani, ha già fatto esperienza di viaggi all’estero per studio o lavoro; si tratta di un viaggio senza debito, si auto-organizza, ha risorse. Il trauma in questo caso è legato alla ‘perdita’ del proprio status, alla disfatta, al fallimento e, di solito, non accede all’accoglienza istituzionale o lo fa molto tardi. - Il ‘cittadino senza stato’
Psi tratta di persone formalmente cittadine di uno stato ma che non possono esercitare la propria cittadinanza né accedere ad alcuna protezione dal proprio stato; provengono da aree rurali, hanno una bassa istruzione o spesso sono analfabeti, con uno status socio-economico e culturale estremamente basso, spesso indigenti, non esprimono appartenenze a gruppi sociali ma è alta l’affiliazione religiosa. Il trauma è legato ad eventi che determinano un aggravamento delle condizioni esistenziali già estreme (un lutto, una malattia, perdita del lavoro) che precipita la persona e la famiglia verso una marginalità ancora più estrema; hanno un mandato familiare preciso per il sostentamento-sopravvivenza; le fughe avvengono per motivi climatici o per land grapping, per conflitti per l’accesso alle risorse primarie (terra, acqua…). Circa l’86% affrontano la migrazione senza risorse economiche, senza documenti, entrano nella rete del traffico; subiscono un alto numero di respingimenti e di detenzioni istituzionali lungo il transito; quasi il 90% fa una migrazione a tappe, attraversano da 4 a 8 stati, senza familiari, viaggi che durano dai 3 ai 4 anni in media, in auto-camion, nave e a piedi. Manifestano grande preoccupazione per i familiari che restano, sono disposti ad adattarsi a qualsiasi condizione, devono mandare soldi a chi è restato che dipendono in tutto da loro. - La ‘persona senza comunità’
Persone che provengono dall’Africa occidentale, sono inseriti da subito nelle tratte per motivi di sfruttamento sessuale e di lavoro; vivono in grande povertà nel loro paese, hanno scarsissima istruzione, erano spesso disoccupati, per lo più sono giovanissimi e donne, orfani, talvolta estromessi dalla famiglia e dalla comunità (outcast). Provengono da contesti deprivati e senza nessuno che li protegga o li reclami; si tratta delle persone più fragile, senza tutele, soggiogabili e ricattabili; il viaggio migratorio è breve; vivono in condizioni di segregazione e schiavitù; le comunicazioni con la famiglia sono gestite dai ‘protettori’; sono persone totalmente dipendenti dalle organizzazioni che gestiscono il traffico; godono di ospitalità organizzate e informali; sono spesso ‘invisibili’, emergono solo quando riescono ad uscire da tali organizzazioni.
Le storie di marginalità e le biografie di persone con esperienza migratoria che sempre più spesso incontriamo nei servizi incarnano la mancanza di rete, di appartenenze e di sostegno, potremmo definirle come storie dei ‘senza’: senza casa, senza reddito, senza documenti, senza rete familiare, senza diritti, senza voce, anche senza lingua (vedi il nostro studio condotto nel DAISM-DP di Parma, pubblicato su Sestante)(7).
Ci possiamo chiedere: perché partono? come partono? verso dove? Queste storie, a guardarle da vicino, ad ascoltarle con attenzione e senza pregiudizio, sembrano piuttosto storie di desiderio e di ostinazione:
“Passando si portano dietro tutto l’abbandono di cui sono state fatte oggetto, senza diventarne necessariamente vittima… in loro il passare diventa protesta del vivente contro quanto lo nega. Il loro è un rifiuto che si fa affermazione di vita” (8).
La citazione, tratta dal libro L’avanguardia dei nostri popoli riprende l’immagine del “naufragio con spettatore”, che accompagna le narrazioni contemporanee sulla migrazione. Spettatore (siamo tutti spettatori) perché tutti cerchiamo di mantenere una posizione salda, ferma, separata, dove portare con noi la ‘nostra verità’ e tenere l’altro a debita distanza. Il testo ci rimanda la nostra empasse rispetto alle esistenze dei ‘senza’ che entrano nelle nostre terre, soggetti caratterizzati da:
“essere senza (senza diritti, senza casa, senza linguaggio, senza senso, senza Stato, senza speranza, senza utilità)…, (espressione) di processi di soggettivizzazione che non corrispondono a nessuna delle forme di individuazione e di soggettività, come la modernità le ha sinora pensate” (9).
Un naufragio, a ben guardare, per la modernità: siamo noi, zattere instabili che non conoscono la mappa per il viaggio che ci attende.
Ma c’è un altro segnale preoccupante. Viviamo nella paralisi dell’immaginario, che rappresenta la nostra via di fuga dalla realtà, da sempre, a maggior ragione oggi in tempi privi di immaginazione. Ma ostacolare l’immaginario è indispensabile alla dinamica del pensiero totalitario.
“Gli altri credono, noi sappiamo”. Questo è da sempre la posizione dell’uomo bianco moderno. Trattare gli altri saperi come credenze, non scientifici, selvaggi. Marginali. Dobbiamo invece apprendere a pensare in maniera complessa, multipla, plurale. Oggi appare necessario apprendere-riapprendere a pensare, insieme, creando una pratica dal basso che amiamo definire un’azione collettiva.
A cosa servono i collettivi? A quale domanda rispondono?
Il collettivo è “una rete fatta di umani e di non-umani presi in un insieme di relazioni reciproche e in co-evoluzione” (10) che individua dei fenomeni (ontologia), stabilisce piste di conoscenza adeguate al contesto (epistemologia) e soprattutto definisce condotte coerenti con l’esistenza di quel mondo (etica). Il nostro mondo ci obbliga a queste scelte in tutti e tre i campi. Nei collettivi si pratica e si ospita la co-presenza, come il mondo ci sta drammaticamente mostrando; costringe alla diplomazia, al parlamento e, quindi, alla negoziazione e alla mediazione.
Cos’è l’emergente?
Quale sogno portano le persone che arrivano a bussare ai nostri servizi? Quale “sogno di una cosa” portano?
L’emergente, non l’emergenza, amiamo dire nel nostro piccolo CIM, è, secondo la definizione della Treccani:
“l’atto dell’emergere, in botanica è la protuberanza della superficie del fusto o delle foglie (il germoglio se vogliamo), in riferimento ai beni storici e culturali è l’affioramento, il venire in luce di reperti archeologici, artistici, ambientali prima nascosti o comunque ignorati…ma è anche la circostanza imprevista, accidentale, un momento critico che necessita di un intervento immediato…”.
Vi è una profonda sfida e un continuo rischio nell’incontro con le vite ai margini. Una sfida che interroga potentemente i dispositivi di cura nei luoghi sensibili, nelle istituzioni che abitiamo. Istituzioni che hanno porte e soglie. A differenza delle porte che possono aprire o chiudere, la soglia è per natura luogo di passaggio. Un passaggio e un luogo di incontro anche involontario. Sulle soglie ci si dà appuntamento per un momento di svago, si vive l’informalità tra coabitanti dello stesso luogo di lavoro ad esempio, o di convivenza, un pianerottolo o un cortile di un condominio; anche un negozio ha le sue soglie e io, consumatore critico, posso decidere se oltrepassarla o meno, se passare dallo stato di pura contemplazione un po' sognante a quella di soggetto di consumo e di mercato. La soglia è uno spazio inatteso, involontario e volontario contemporaneamente, ci si sfiora sulla soglia, ci si guarda e solo dopo ci-si pensa. Le nostre istituzioni oggi sono luoghi inaccessibili, espulsivi, burocratizzati, luoghi di stanchezza fisica e morale, luoghi mortificati da pensieri aziendalizzati che nulla hanno a che fare con il nostro mandato di ‘cura’ e con l’alimentare speranza. Troppe porte (spesso chiuse), poche soglie. Ma è sulle soglie che incontriamo l’emergente. Oggi l’emergente interroga il nostro saper restare legati, la nostra cura reciproca, l’accoglienza come valore.
C’è una malattia, lo s-radicamento (essere senza radice), che abita il nostro contemporaneo, ne aveva già parlato Simone Weil durante la II guerra mondiale. Lo s-radicamento è una metafora viva di quanto ci sta attraversando. Intorno a noi assistiamo allo s-radicamento, al franare del terreno stabile di un mondo conosciuto, fatto di legami e capace di ricordarci le co-costruzioni di senso e le narrazioni condivise. Lo s-radicamento è la dimensione contemporanea della malattia del vuoto che accompagna tante esistenze private di senso e di biografia, che si incontrano nei luoghi della cura. Siamo tutti esposti a questa malattia, tutti nudi e senza protezione. Siamo uomini e donne alla deriva, in un tempo che non è più tempo e in spazi che non sono più luoghi domestici, che non conoscono più l’ospitalità. La narrazione che raccogliamo negli incontri terapeutici con gli “emergenti” pone domande all’umano ferito, umiliato, isolato che è l’altro, e che sono anch’io. Attiva domande e scambi di sguardi tra noi, ci rende compagni e testimoni di un tragitto piuttosto scomodo e inascoltabile che parla alla nostra capacità-volontà di restare legati, di rimanere solidali, responsabili nel “dovere tra vita e vita”, tentando un avvicinamento possibile. Un tentativo di costruzione, di riflessività condivisa, di rispecchiamento (non narcisistico o performativo) dell’umano nell’umano. La marginalità, la vulnerabilità estrema, le precarietà, le esistenze offese e umiliate dei migranti sono l’emergente che ci interroga. Così come gli esordi psicopatologici in giovani migranti, ex MSNA (Minori stranieri non accompagnati) che incontriamo in un PS o in un SPDC; o i MSNA che hanno alle spalle 3-4 anni di viaggio e che giungono in Europa con un mandato familiare esigente; o ancora i migranti con esposizione diretta a violenza intenzionale, vittime di violenza, stupri e torture. Le patologie della cittadinanza, descritte da Beneduce e Taliani (11), patologie dove la violenza istituzionale infierisce su esistenze ferite e offese che combattono con una burocrazia che crea ulteriore sofferenza; di questo dolore, crudeltà, anche la psichiatria si fa complice dell’esclusione e del soggiogamento.
Tutte queste persone bussano, talvolta, alle nostre porte. Le incontriamo nelle soglie. Ce ne dobbiamo occupare?
Utilizzo una frase di Binswanger, citata da Benedetto Saraceno nel suo Sulla povertà della psichiatria:
“In tutte le psicologie che riducono l’uomo a un oggetto, soprattutto in quelle dei nostri naturisti…, troviamo una spaccatura, ossia una fessura dalla quale appare chiaro che non è tutto l’uomo, cioè l’uomo come totalità che giunge all’elaborazione scientifica. Dappertutto troviamo ‘qualcosa’ che sommerge e fa saltare i confini di una simile psicologia; e questo ‘qualcosa’, che non viene degnato di uno sguardo dallo psicologo naturalista, e proprio per l’antropologo è proprio il fattore decisivo”. Scrive poi Saraceno: “l’uomo che traspare dalla fessura è lo scarto, il margine. Lì si attestano le assenze d’opera, lì non perviene il discorso della psichiatria, lì si attesa anche il dolore e lì sta il lavoro della riabilitazione. Vi sono persone, ma anche gruppi, tribù e popoli interi che parlano attraverso le fessure, anzi tacciono attraverso le fessure, in cui sono visibili i loro corpi. Gli psicotici, ma anche i morenti e i poveri. Essi sono portatori di una assenza d’opera…dunque i poveri di spirito, i lunatici, i matti, i folli, gli psicotici sono (come i morenti e i poveri) portatori della ‘profezia del naufragio’: io posso naufragare in quanto sono me stesso…solo quando si sale fino all’ultimo uomo si trova il naufragio scrive Jaspers.. dalla fessura, lontani dal centro, appaiono i profeti del naufragio, al centro ci sono i portatori dell’opera e i produttori del discorso” (12).
Gli “assenti d’opera”. Ne parlava già Foucault nel suo splendido testo La storia della follia ma anche nel libro mai concluso La vita degli uomini infami. Come incontrare questi emergenti? Nelle stanze chiuse degli ambulatori? Nei servizi con le porte chiuse? Con ostacoli all’accesso?
La marginalità è, per il nostro CIM, il vero oggetto trasformativo della clinica moderna.
L’esperienza maturata nel CISS
Torniamo da dove siamo partite. Una volta incontrate nel CASP le persone in vulnerabilità, perché stranieri, perché vittime di violenze, perché minorenni soli, facciamo le prime certificazioni multidisciplinari utilizzando il modello della scheda sulla presa in carico che il CISS ha sviluppato per i casi complessi che arrivano alla sua attenzione.
Il CISS, COORDINAMENTO INTERDISCIPLINARE SOCIO-SANITARIO CIAC-AUSL, nasce da una collaborazione già attiva tra AUSL e CIAC; tale collaborazione viene formalizzata nel 2009 attraverso un Protocollo d’intesa e coinvolge anche il comune di Parma e i comuni della provincia. Si tratta di un coordinamento multidisciplinare composto da operatori della sanità (az. Usl e Az. Ospedaliera), del sociale e del terzo settore, che si riunisce a cadenza fissa per programmare gli eventi, sincronizzando le azioni delle diverse professionalità attive sui casi segnalati. Non è un servizio dedicato, ma un modello organizzativo che affianca i diversi servizi territoriali nelle prese in carico complesse, funziona a cerchi concentrici, dal molto vicino alla persona fino al coinvolgimento di istituzioni anche lontane. Il CISS ha tra le sue competenze quello di applicare le Linee Guida del Ministero della Salute del 2017 (Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale).
Il CISS certifica la vulnerabilità per i soggetti che, in attesa del riconoscimento della protezione, arrivano sul nostro territorio e che hanno bisogno di incontrare una accoglienza tutelante e capace di orientare le persone ai propri diritti e ai servizi del territorio, attivare percorsi di cura e accompagnamento individualizzati.
Dall’esperienza del CISS abbiamo ricavato quella che abbiamo definito la scheda emersione vulnerabilità. La scheda mira ad individuare indicatori in ambito giuridico, sociale, psicologico e sanitario per l’emersione di situazioni di vulnerabilità. E decidiamo di applicarla alle persone di recente arrivo nel CASP.
Torniamo all’agosto 2023. In quel periodo, nell’ambito del massiccio afflusso di persone migranti ed in relazione alla crisi del sistema di accoglienza (13) che ha visto diminuire risorse e possibilità di accesso su tutto il territorio italiano (D.L. 10 marzo 2023, n. 20 L. n. 50/2023), l’esclusione dei richiedenti asilo dal SAI, la tendenza a privilegiare il sistema emergenziale di accoglienza (CAS) invece che promuovere un SAI presente su tutti i territori, la promozione di bandi che vanno deserti (perché riducono sempre di più al minimo i servizi per richiedenti asilo, rendendo impossibile un accoglienza dignitosa) in questo scenario veniva aperto, come detto, un hub di transito, definito “Centro di Accoglienza Straordinario Provvisorio” (CASP), tutt’ora attivo. Visto il recente arrivo delle persone migranti era cogente rispondere alla necessità di tutelare le persone più fragili attraverso l’emersione delle vulnerabilità. Tale requisito, secondo la normativa vigente, era necessario al fine di un’accoglienza idonea e tutelante le esigenze specifiche, nel contesto del sistema di accoglienza SAI. Inoltre, visto l’ampliamento della lista dei paesi sicuri, tale riconoscimento permette l’accesso alla domanda di asilo evitando la procedura accelerata per l’audizione in commissione territoriale. Il CISS è intervenuto tempestivamente insieme al dipartimento di cure primarie AUSL per garantire l’assistenza sanitaria (prime visite e terapie necessarie, esami di screening), l’accesso al SSN tramite l’ottenimento del codice STP e la segnalazione di urgenze sanitarie. A partire dalle segnalazioni degli operatori sanitari sociali e giuridici presenti nel centro, le persone segnalate sono state accompagnate ad incontrare l’equipe multidisciplinare in setting adeguati, sicuri e culturalmente competenti al fine di raccogliere elementi utili per approfondire la tipologia di vulnerabilità (traumi, violenze subite ed eventuali esiti psicopatologici) insieme alla raccolta della memoria migratoria. A seguito di questi incontri sono state prodotte le attestazioni di vulnerabilità con il fine di effettuare l’ingresso in progetti SAI, evitare la procedura accelerata, ed evitare l’evoluzione verso quadri clinici più gravi. In un contesto di frammentazione dei servizi sociosanitari, di restrizione dell’accesso agli stessi da parte delle persone migranti e di smantellamento del sistema di accoglienza, questa esperienza testimonia la possibilità, anche e soprattutto in fase emergenziale, di poter creare un intervento tempestivo efficace e sostenibile a tutela della salute e dei diritti delle persone migranti. Da questa esperienza dal basso è nato un Protocollo nel gennaio 2024: “Protocollo di intesa per ‘modalità’ organizzative della presa in carico sanitaria degli stranieri accolto presso il Centro Accoglienza Straordinaria provvisorio -CASP- gestito dalla protezione civile”.
Dalla prassi al protocollo, dall’esperienza al metodo. Metodo in fondo significa “ciò che si racconta dopo la strada”. È ciò che del viaggio si racconta dopo averlo fatto, come scrive Stefania Consigliere, “a volte nient’altro che un’accozzaglia di eventi capitati mentre eravamo in balia di luoghi, forze e occasioni che non abbiamo capito” (14). Quindi il metodo non viene prima del cammino, ma dopo.
Concludendo
Le pratiche dell’accoglienza per le persone richiedenti protezione umanitaria interrogano il “fare comunità” all’interno del territorio e dei servizi. Questi soggetti incontrano sempre maggiori ostacoli, limiti e difficoltà in un clima di diffidenza costante; così anche le agenzie che offrono accoglienza. Servizi e enti del terzo settore rischiano di vivere, insieme ai loro utenti/ospiti, condizioni di marginalità, non riconoscimento, invisibilità. Noi come loro, invisibili. Nello stesso tempo il lavoro degli enti pubblici e del terzo settore istituito in buone prassi rappresenta ancora la frontiera sulla quale si sperimentano convivenza, accoglienza e pratica dei diritti. Sulla frontiera, sulla “soglia”, sui “margini” è possibile portare sguardi nuovi e nuove visioni che interrogano servizi e comunità:
“La capacità di andare ai margini e alle periferie mette alla prova la solidarietà degli uomini che di per sé struttura la città degli uomini nel suo stesso progettarsi e costruirsi” (15).
La sfida è riuscire a trasformare l’accoglienza da “emergenza” a prassi strutturata di ospitalità:
“quando l’accoglienza si costruisce e si organizza, allora diviene un’ospitalità, una cultura di apertura che vuole rimanere viva” (16).
A partire dalle storie di marginalità e di vulnerabilità che incontriamo come operatori sanitari all’interno della rete di accoglienza è possibile far emergere, affiorare e rendere visibile, il lento e paziente lavoro di accompagnamento verso una emancipazione che coniughi diritti, bisogni, necessità e desiderio. Alleanza, origina dal latino ligare con prefisso intensivo ad, e si traduce con legare strettamente, trattenere, attaccare. Tenere unito. Un monito quindi a noi e ai nostri servizi a “Non tenere separati i mondi”.
Note e bibliografia
1) M. Nosè, Turrini G., Imoli M., Ballette F., Ostuzzi G., Padoan C., Ruggeri M., Barbui C., Prevalence and correlates of psychological distress and psychiatry disorders in asylum seekers and refugees resettled in an Italian Catchment Area, Journal o Immigrant and Minority Health, 20, 2018 pp. 263-270
2) Geraci S, Vischetti E, Batocchioni G, Castro Cedeno G, Liddo M, Torchiaro S, Civitelli G., Invisibilità sociale e diritti negati: l’esperienza quarantennale dell’Area Sanitaria Caritas di Roma nella tutela della salute di migranti e di altre persone in condizione di marginalità sociosanitaria. In Da Cas R., Morciano C. (Ed). La salute delle popolazioni in condizione di grave marginalità sociosanitaria. Bollettino Epidemiologia Nazionale 2023; 4(4); pp. 14-26. DOI
3) M. Rossi, Pensavo di essere libero, e invece no, Tau editrice, 2021
4) K. Bhui, D. Bhugra, Mental illness in black and asian ethnic minority: pathways to care and outcomes, Advances in Psychiatry Treatment, 8, 2002, pp.26-33
5a) K. Bhui, N. Warfab, P. Edonya, K. McKanzie, D. Bhugra, Cultural competenze in mental health care: a review of Model Evaluation, BMC Helath Nursing, 14, 2007, 7-15
5b) L. Kirmayer, D. Groleau, J. Guzder, C. Blake, F. Jarvis, Cultural consultation: a model of mental health service for multuicultural societies, Canadian Journal of Psychiatry, 48 (2), 2003, 142-153
5c) D. Wynaden, A. Orb, Impact of patient confidentiality on carers of people who have a mental disorder, International Journal of Mental health Nursing, 14, 2005, 166-171
6) Cit.
7) M. Inglese et al., Centro salute mentale e utenza straniera. Caratteristiche dei pazienti e competenza culturale dei servizi nell’Ausl di Parma, in Costruire la salute per/con i migranti, Sestante, n. 12, maggio 2023, pp.44-48
8) Cavalletti A., Solla G., L’avanguardia dei nostri popoli. Filosofia della migrazione, Cronopio, Napoli, 2020, pp.82-83
9) Cit., pp. 10-11
10) S. Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, Derive e Approdi, 2021
11) R. Beneduce e S. Taliani, Patologie della cittadinanza, tecniche della liberazione, in La psichiatria e il futuro della salute mentale, Aut aut, n. 398, giugno 2023, pp. 178-197
12) B. Saraceno, Sulla povertà della psichiatria, Derive Approdi, 2017, pp.161-162
13) Michele Rossi, Tre mesi di campi: diritti violati e zero servizi Possiamo accettare tutto questo in silenzio? La Repubblica, 23/11/2023, “Inaccettabile la situazione nel campo profughi a Martorano. Le istituzioni non possono tacere” - la Repubblica
14) Cit. pag. 97
15) F. Riva (a cura di), Ripensare la solidarietà, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, p.33
16) P. Gandolfi, Noi migranti. Per una poetica della relazione, Castelvecchi, Roma, 2018, p. 49