Volume 31 - 4 Novembre 2025

The Shrouds (I sudari) (titolo italiano, Segreti sepolti), di David Cronenberg, 2024. Una recensione psicoanalitica




L’ultraottuagenario David Cronenberg torna sugli schermi con un film esplicitamente autobiografico, come lo erano stati, implicitamente, tutti i suoi primi, fino a Crash (1998), sia pure sotto il mascheramento di nuovi stilemi fantascientifici: lo scoprimmo in un nostro lontano e approfondito saggio di psicopatologia nato dalla visione di tutti i primi film del regista canadese (nota 1). The Shrouds (2024) ripropone tutti i temi originari, uniti dalla sottile transizione tra dimensioni perverse e paranoidi che definiscono tutti i suoi film migliori. Certamente la veste è aggiornata, soprattutto per il largo uso di devices digitali che creano continui mise-en-abîme di schermi nello schermo cinematografico e l’utilizzo assolutamente straordinario della AI per gli effetti speciali sui corpi vivi, morenti, senza pelle o salme in vari stadi di decomposizione.

Nel 2017 il regista ha perduto l’amata moglie dopo 42 anni di matrimonio e di collaborazione lavorativa. Nel corso del lutto, nel 2021, ha edito un brevissimo cortometraggio insieme alla figlia, The death, nella quale mette in scena, come in un incubo bergmaniano, la propria morte. Come poteva il geniale regista della Nuova Carne e della Bellezza Interiore perdere l’opportunità di riflettere sulla decomposizione dei corpi, sulla loro struttura morfologica sottocutanea? Nel 2023 Cronenberg ha girato un documentario sulle cere anatomiche del Museo fiorentino de la Specola, in occasione della mostra della Fondazione Prada, dal titolo “Four Unloved Women, Adrift on a Purposeless Sea, Experience the Ecstasy of Dissection (Quattro donne mai amate, alla deriva su un mare senza scopo, sperimentano l’estasi della dissezione): la cosa che colpisce nel documentario onirico del regista è che l’espressione dei volti delle donne dissezionate per mostrare vari organi e apparati, non rivela sofferenza ma pose e sguardi quasi estatici. Per aumentare l’aspetto onirico di questo sguardo artistico su manufatti, che sia pure di eccezionale, qualità scultorea manifattura, erano nati come meri oggetti didattici, le cere galleggiano su dei materassini gonfiabili in una piscina.

Sembra che Cronenberg, un regista che proviene da importanti studi umanistici e che come film-maker si può considerare anche un filosofo radicale “per immagini” dell’esistenza (Existenz è del 1999), adesso stia affrontando l’arduo tema della morte come compimento di una lunga riflessione sui temi della vita, dell’influenza della tecnologia sui corpi, sul “destino delle pulsioni”, libidiche e aggressive (per richiamare Freud), sul carattere continuamente evolutivo della mente umana. Contemporaneamente, riflette sull’evoluzione del grande tema umano delle pratiche della sepoltura, rimosso e critico per la parte occidentale dell’umanità, largamente priva di una vera religione e di un modo soddisfacente e credibile di onorare i defunti che non sia incenerirli e metterli tristemente in un vaso.

In questo lungometraggio, The shrouds (I sudari), Cronenberg figura come ai vecchi tempi oltre che come regista come soggettista e sceneggiatore. Mette in scena un suo alter ego, Karsh (anagramma imperfetto di Crash?), interpretato da un longilineo e palestrato Vincent Cassel, assai a disagio negli scenari meta fantascientifici cronenberghiani, ma che ha il pregio di una non comune somiglianza fisica col regista. Il film inizia con una scena in cui Karsh, allucina la salma nuda della moglie in una sorta di grotta/camera mortuaria, che in realtà si rivela essere la sua bocca spalancata sulla sedia di un dentista: un raro esempio filmico di letterale introiezione dell’oggetto d’amore perduto. Dopo la morte della moglie Rebecca (Becca o Becky), Karsh ha creato una start up tecnologica basata su dei sudari elettronici, che, avvolgendo le salme, consentano ai visitatori dei cimiteri-tech di restare in contatto con i corpi dei loro cari e osservarne amorevolmente la decomposizione: un’onoranza funebre, si potrebbe dire, da veri atei, quali affermano di essere esplicitamente sia Cronenberg che Karsh. L’impresa di Karsh in Canada, dotata di un ristorante di lusso con vista sulle tombe (che richiamano in versione digitale, un cimitero ebraico), è in attesa di essere esportata in Islanda e Ungheria; su di essa si posa ben presto l’attenzione profanativa di agenti non meglio identificati, russi o cinesi, o ecoterroristi islandesi, per spionaggio industriale, o hackeraggio rivolto ad acquisire i dati sui visitatori, o altro, su cui si dipana un plot fin troppo arzigogolato, che ricorda la seconda parte di Videodrome (1983): in quest’ultimo film la dimensione paranoide allucinatoria, qui solo atmosferica, riproduceva un vero stato psicotico che finiva col suicidio del protagonista. Su queste parti evitiamo di soffermarci, focalizzando, invece, da psichiatri, la questione della elaborazione di un lutto traumatico che scava nel profondo della mente di Karsh (e nella mente degli spettatori) generando immagini cinematografiche di rara intensità visiva. Come tutti coloro che vogliono mettere una netta cesura col passato, Karsh ha cambiato casa, costruendosi un lussuoso loft in stile giapponese con un letto circondato da un acquario pieno di carpe marezzate bianche e rosse (carpe Koi), che sembra galleggiare su una piscina, come i preparati anatomici nel citato documentario. Ma il rivolgersi verso Oriente è forse anche un tentativo di recuperare una dimensione spirituale per trovare una consolazione nel lutto, un voltare pagina radicale nella propria esistenza?

La casa coniugale, arredata in modo tradizionale e perfino vecchio, e la casa giapponese, servono comunque allo spettatore per collocare temporalmente le scene che hanno come protagonista gli avatar onirici della moglie e quelle, invece, nelle quali si realizzano i tentativi di guarigione dal lutto.

Avevamo visto già nella bella serie After life (2019) di Ricky Gervais l’utilizzo dei tablet per rievocare i giorni felici con la moglie, ed anche le fasi finali della malattia oncologica che l’avrebbe portata a morte (ormai le cure oncologiche sono comunemente social). Karsh invece, dopo aver chiesto al suo dentista le immagini radiografiche dei denti della moglie, presenta nel tablet alternativamente le foto del corpo della donna in decomposizione alternate a vecchie foto sexy di lei: come dire, foto di vita e foto di morte.

Il lutto è un’esperienza dolorosa che si ha solo quando si è legati al defunto da uno stretto legame di sangue, oppure di amore. Esistono ancora oggi coppie felici e durature che la morte separa dolorosamente e Cronenberg, come Gervais, ci mostrano proprio questo: il lutto lascia il marito della amata moglie in una condizione non solo di solitudine e nostalgia, ma di svuotamento di senso dell’esistenza, di perdita di ogni valorizzazione della vita, di disinvestimento, di morte nella vita (uno stato, dice Karsh “strano e pesante”). L’obbligo della sopravvivenza, che presuppone l’impossibile lavoro di reinvestimento di nuovi oggetti (d’amore), fa parte dell’esperienza dolorosa. In The Shrouds, Karsh inizialmente non riesce a trovare nuovi investimenti emotivi e erotici al di fuori del cadavere della moglie che osserva decomporsi nel sepolcro grazie ai suoi sudari elettronici: questa pratica necrofilica e perversa sembra essere l’unica in grado di alleviare il suo dolore mentale. Cronenberg ce lo mostra nelle scene in cui contrappone l’eccitamento che prova guardando le immagini della salma della moglie all’indifferenza per una matura ma ancora bella donna reale conosciuta su una chat di incontri. Il compito della sopravvivenza al lutto è quello di disinvestire il da-sempre amato corpo della moglie a vantaggio di altri corpi femminili: cosa non semplice.

In una scena Karsh stesso indossa un sudario vedendo tramite esso il suo corpo senza pelle, come una delle cere anatomiche de La specola, in un’anticipazione della propria morte: ma “i sudari non sono fatti per i vivi”, gli dice Hunny, l’assistente virtuale, promettendogli che troverà qualcosa di diverso per sollevare il suo umore nero. In questa scena, la più cupa di tutto il film, in cui Karsh si mostra nella sua assoluta solitudine, Karsh dice di non essere più sicuro della validità del proprio progetto tecnologico.

Il lutto di Karsh è complicato dalla presenza di elementi traumatici, l’aver visto le progressive mutilazioni e fragilità inferte al corpo della moglie dalle operazioni chirurgiche, cure sperimentali prescritte da un certo Dr. Ecker (che poi si scoprirà essere stato, prima di diventare il suo oncologo, un fidanzato giovanile di Becca). I pezzi amputati vengono utilizzati a fini scientifici per studi e presentazioni (come le cere anatomiche), cosa di cui Becca, in un sogno o esperienza oniroide, si dice orgogliosa. Nella camera da letto della casa coniugale, il corpo mutilato e ferito della moglie, compare in esperienze oniriche nella sua eroticissima, per quanto mutilata, nudità integrale, sorta di re-experiencing post-traumatico: immagini che bucano lo schermo, che “spaccano” (come diceva il protagonista di Videodrome, produttore di una piccola TV locale): immagini che hanno una potenza tattile, corpi che lo spettatore sente, come se la magia del cinema li materializzasse, sia pure allucinatoriamente. Ma il corpo fragilissimo ed ancora erotico di Becca, disposto a fare ancora l’amore con Karsh, si frantuma anche solo per un abbraccio, cosa che impedisce ai due di proseguire, riportando Karsh alla realtà vissuta: in un dialogo con Terry afferma che nelle ultime fasi della malattia i due coniugi non potevano più avere rapporti per la bassissima immunità di Becca.

A queste esperienze oniriche segue la relazione con una cliente coreana non vedente, Soo-min Szabo, il cui miliardario marito è in fase terminale e quindi prossimo ad usufruire del servizio: con questa donna, che sembra voler esorcizzare in anticipo il dolore del lutto, il rapporto è puramente tattile, non visivo: quasi un’esperienza erotica arcaica di contatto dell’infante con la madre, che si conclude a letto, dove lei si dice felice di avergli tolto la sua pseudo verginità (l’astinenza di vari anni dopo il lutto). Il contatto con l’oggetto d’amore e l’eccitamento si possono avere anche senza la vista, e questa acquisizione estranea alla mente occidentale ed allo stesso progetto di Karsh, viene, di nuovo, dall’Oriente.

Il processo di reinvestimento libidico (della riscoperta dell’eccitamento) prosegue con l’ambivalente relazione con la sorella Terry, somigliantissima alla moglie, finora solo amica e confidente, che si concretizza in un rapporto fisico che duplica esattamente quello con la moglie: è la stessa Terry a sottolinearlo nell’amplesso chiedendogli se lei raggiunge l’orgasmo esattamente come la sorella. Per convincerlo a stare con lei, cosa che Becca aveva vietato a Karsh prima di morire, Terry gli racconta del tradimento di Rebecca col Dr. Ecker per cui il corpo della cognata è non solo un feticcio della moglie ma, nello stesso tempo, quello di una rivale con cui vendicare il suo insospettabile tradimento. Successivamente Terry viene paranoicamente sospettata di aver escogitato varie strategie, tra le quali l’uccisione del Dr. Ecker e il suo seppellimento accanto alla moglie, nel posto che Karsh aveva predisposto per sé dopo la sua morte (i coniugi che riposano per sempre uniti), per poterlo avere e tenere con lei. Un’ipotesi paranoidea che l’ambigua espressione di Terry sembra avvalorare come vera.

Anche Hunny, l’assistente virtuale di Karsh, un avatar di una donna giovane con la voce della moglie morta, si impegna ad alleviarne il dolore, prima trasformandosi in un Koala, un pupazzo peloso e rassicurante, oggetto transazionale infantile, cosa che irrita Karsh, poi in un’animazione di Becca nuda che, con le sue ferite e amputazioni, si impegna in una sorta di pole dance per eccitarlo, espediente che lo disgusta ancora di più. Hunny, si scoprirà, forse è hackerata dall’informatico di fiducia di Karsh, Maury. Il radicale paranoideo pervade nel sottofondo tutto il film, incarnato ad esempio dalle strane escrescenze (o microspie? o micro sudari?) che Karsh scopre scrutando le ossa della moglie, oppure nelle varie cospirazioni che potrebbero riguardare anche i suoi più stretti collaboratori.

In sintesi gli stadi dei reinvestimenti libidici di Karsh passano dall’assoluto autoerotismo necrofilico iniziale, alle esperienze oniriche nelle quali la moglie ritorna viva ed eccitante seppure mutilata e sessualmente inaccessibile per la sua fragilità (re-experiencing post-traumatico), nell’alterità del rapporto puramente tattile e regressivo con Soo-min Szabo, infine in quello con Terry che rappresenta una feticcio del corpo della moglie, e perfino con Hunny, imago femminile virtuale un po’ mamma un po’ zoccola. A parte forse Soo-min, tutte queste figure femminili sono fonte di dubbi e subliminari angosce paranoidi: la moglie dona felicemente gli organi al Dr. Ecker oncologo suo (ex) amante, l’apparente dolce e remissiva Terry è forse una manipolatrice o perfino cospiratrice assassina per soddisfare il suo desiderio di sostituirsi alla sorella; Hunny è forse manovrata dal cognato nerd e Hacker. Nessuna di loro, a parte Soo.min, sembra affidabile ed emotivamente contenitiva. Ma Karsh stesso, alla fine, è un perverso, voyeur-masochista (con la moglie morta), feticista con la cognata che riproduce la moglie, regressivo-infantile con Soo-min. Si potrebbe dire che tenta con ciascuna di loro di stabilire relazioni metonimiche con la moglie morta, che passano per il soddisfacimento sessuale, del quale le donne cronenberghiane, dagli sguardi penetranti e dagli impercettibili ghigni di soddisfazione, sono padrone. Il lavoro di elaborazione consiste quindi in atti che fondono l’immaginario con il reale attraverso i corpi di altre donne vive (“Body is reality” è un mantra cronenberghiano) che possano surrogare il corpo in ultima analisi inaccessibile della moglie morta. Come in Crash, il capolavoro tratto dall’omonimo romanzo di James Ballard, il sesso (perverso, comunque promiscuo, non inibito), è il solo in grado di far vibrare nuovamente la vita in chi, come Karsh, è in uno stato di morte libidica e traumatica. E come in Crash (1996) l’evento traumatico viene rivissuto attraverso una riproposizione, una riproduzione artificiale, per essere padroneggiato: la moglie torna in sogno nel suo progressivo disfacimento ed è comunque capace di riattivare il desiderio.


Forse per sfuggire ai timori paranoidi persecutori, per espatriare, Karsh fugge quindi con Soo-min Szabo in Ungheria dove probabilmente aprirà un nuovo cimitero-tech. Sembra la soluzione dell’elaborazione del lutto, ma nel volo la donna svela inaspettatamente di incarnare le stesse ferite e mutilazioni della moglie: come dire, l’oggetto del lutto traumatico può solo essere riprodotto feticisticamente, non modificato, non cambiato, non oltrepassato.

La temporalità del lutto traumatico consente pochi avanzamenti, l’evento è irreversibile e rappresenta uno snodo esistenziale inesorabile: la perdita dell’oggetto d’amore totale non può essere annullata né elaborata, ma solo alleviata, esorcizzata con degli espedienti, quali i tentativi di entrare in relazione con altri corpi vivi che facciano rivivere, metonimicamente, il corpo della moglie: “vivevo dentro il corpo di Becky”- dice Karsh. Il corpo della moglie non solo non c’è più nella realtà, ma rimane continuamente presente nella mente del sopravvissuto. In un intervista (nota 2) Cronenberg dice “nessuna strategia, neppure fare il film, è servito a liberarsi del dolore del lutto e la persona che non c’è più resta con te.” Il sopravvissuto, nonostante le sue manovre immaginarie e reali, resta sempre lì, non può che ripetere il trauma, rimetterlo in scena.

The Shrouds, pur con numerosi difetti, quali la eccessiva complicazione del plot, una certa lentezza e verbosità, merita di essere visto uno o, meglio, più volte, non solo per riflettere sui contenuti altamente significativi sul piano psicoanalitico, ma anche per la sua bellezza formale, a partire dalle immagini elettroniche dei titoli di testa e di coda, che evocano il citoplasma cellulare. Tutti gli altri aspetti formali sono di altissimo livello: la fotografia di Douglas Koch, la musica sontuosa del grande compagno di sempre di Cronenberg, Howard Shore, l’eleganza dei costumi e dell’abbigliamento di Karsh (di Ives St.Laurent), le scenografie, alcune della quali restano nella mente, così come le immagini dei corpi feriti, integri, morti o vivi, dei personaggi: un film che non scompare nella memoria dopo la visione, come la quasi totalità della produzione attuale.


Note

Nota 1: R. Dalle Luche, A. Barontini. Transfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema di David Cronenberg. Mauro Baroni, 1994.

Nota 2: Ibid.