Psicoterapia o Umanizzazione? Riflessioni sul convegno Guerre e Migrazioni Forzate
Autrice
Ricevuto il 15 luglio 2025; Accettato il 30 luglio 2025
Per resistere all’orrore della barbarie, umanizziamo. La 64° conferenza dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia (ACF), diretta da Maurizio Andolfi, Neuropsichiatra infantile, o come lui stesso si definisce “bambinologo”, ha come tema la discussione sul tema Guerre e Migrazioni Forzate-Perdite e Trasformazioni Familiari con centinaia di psicologi, medici, terapeuti, operatori presenti a Roma lo scorso 4-5 luglio. La conferenza dopo il manifesto di Assisi che nel 2023 ha visto più di un migliaio di psicoterapeuti di diverso orientamento provenienti da più di 50 paesi nel mondo dibattere sul ruolo della terapia familiare come impegno sociale, si pone come forma di resistenza, incontro di comunità di professionisti per condividere innanzitutto il dolore di chi non è immune alla sofferenza degli altri, ma se ne fa carico e poi interrogarsi sull’azione, l’impegno per cui essere operatori di salute mentale significa oggi ancora più di ieri, essere attivisti: denunciare, testimoniare, fare politica nel senso nobile del termine.
Come rispondere a questi tempi di imbarbarimento globale istituzionalizzato, dove più di 56 oppressioni armate nel mondo – il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale- ancora si impongono come risoluzione dei conflitti, coinvolgendo direttamente o indirettamente almeno 92 Paesi, costringendo oltre 100 milioni di persone a migrare e centinaia di migliaia di morti (Acled, 2024)?
Come reagire alle immagini che ci provengono da Gaza, dove l’87% di un territorio è ormai stato raso al suolo, più di 50.000 morti uccisi solo negli ultimi due anni dopo una oppressione che dura già da decenni sul popolo palestinese?
Basta guardare i dati precedenti al 7 ottobre del 2023, per accorgerci che il popolo palestinese soffriva già per esempio di acqua non potabile neanche per l’agricoltura, di interruzione di energia elettrica, ed in più del 50% di casi di povertà, disoccupazione, con 1.400.000 rifugiati e migliaia di persone uccise in particolare nel 2008 e 2014 (UNRWA, 2021).
Un massacro che ci lascia sbigottiti e con un senso di irrealtà per la sfrontatezza della spinta imperialista che non si ferma davanti a bambini, anzi mira alla testa, arrivando addirittura ad uccidere donne e bambini in fila per il latte in polvere e gli aiuti umanitari. Ci lascia sbigottiti quell’ assurda banalità del male che è appoggiata da istituzioni internazionali con l’esplicito avallo e la pubblica negazione dei crimini contro l’umanità, il timido dissenso, o il silenzio complice.
In tempi, in cui i movimenti popolari si organizzano e resistono attraverso marce su Gaza, espressioni pubbliche di piazza, bandiere palestinesi ovunque sventolate in solidarietà e risonanza emotiva con donne, uomini e bambini impunemente trucidati, bombardati, deportati e costretti a vivere se superstiti come topi in gabbia, aspettando che l’obiettivo del più forte dei contendenti si realizzi, ovvero l’eliminazione, lo sterminio dell’altro contendente, come risoluzione della contesa del territorio e delle sue risorse. Una modalità che diremmo dettata dalla dominanza del cervello rettile (teoria di MacLean degli anni ’60), completamente distaccato dai due cervelli superiori, quello mammifero limbico emozionale e quello della neocorteccia, della consapevolezza. A questi impulsi, si aggiunge la fredda razionalità noradrenergica, il controllo, il focus, l’attenzione su calcoli e convenienze materialistiche, senza alcun mirroring per il dolore provocato. I calcoli e le convenienze economiche degli oppressori, le imprese statunitensi sono state denunciate da chi adesso è inviata ONU per la Palestina ed è per la sua denuncia, sanzionata da uno Stato. Un delirio collettivo che esprime l’impulso istintivo dell’espansione territoriale, senza conoscere dialogo, negoziazione, capacità simboliche che dovrebbero essere squisitamente umane di incontro e scontro con l’altro, con la diversità.
Cosa resta in chi ancora connette i tre cervelli di Macleaniana memoria, sente l’eco delle urla delle madri a cui vengono strappate le giovani vite, i tremori dei bambini, gli occhi sbarrati di fronte a scene orribili altamente traumatizzanti, quel dolore che dilania il corpo, trafigge il cuore, e che conduce la mente per non impazzire a distaccarsi dalla realtà e dal corpo con sintomi di dissociazione che porteranno altre e durature conseguenze negli anni a venire? Come nelle parole della poesia di Mustafa Qossoqsi, poeta e psicologo clinico palestinese in apertura del convegno: “Il mio corpo non è più una casa, l’ho sgombrato in fretta, un attimo prima che fosse bombardato. Ho pronunciato lentamente il mio nome, come chi cammina in un corridoio buio, gli ho staccato la corrente, ho ripiegato le sue ali. Sono inciampato nella sua tristezza che, simile ad un difetto strutturale della casa, non si può riparare”.
Forse l’umanizzazione resta come ultimo baluardo di resistenza nella parte di umanità che resiste, sente e si interroga. Yasser Jamei – Psichiatra, Direttore Gaza Community Mental Health Programme in Palestina- con enorme contegno presenta i numeri raccapriccianti del genocidio e le conseguenze psicosociali prima e dopo il 2023. Se prima, prevalevano il senso di impotenza, la mancanza di ogni progettualità, rabbia, disperazione, apatia e diffidenza rispetto alle promesse politiche, dopo i bombardamenti costanti con l’esposizione multipla ad eventi traumatici, le reti sociali e di comunità sono completamente distrutte, i sentimenti prevalenti si alternano tra la paura/terrore di anticipazione, la negazione ed i sensi di colpa nei sopravvissuti.
I bisogni a cui rispondere sono tanti, innanzitutto quelli basici di cibo e sicurezza, poi il bisogno di recuperare una routine quotidiana, un sistema educativo, di rinforzare il sistema di supporto sociale, i servizi sanitari di salute mentale.
Prima di arrivare ai servizi specialistici, secondo Yasser, serve fare advocacy per servizi sociali di base sicuri che proteggono la dignità umana, serve lavorare a livello comunitario sul ricreare e rinforzare reti di supporto, interventi di supporto emozionale e pratico condotti da operatori di comunità, e, solo al vertice della piramide, gli interventi specialistici. Si tratta di avviare un processo di umanizzazione, più che di psicoterapia. La psicoterapia stessa risulta un atto politico di advocacy e nel contempo di umanizzazione ai vari livelli: comunitario, familiare e individuale. Il lavoro del terapeuta sembra nell’emergenza della guerra, essere quello di testimone, di come il trauma collettivo soggettivamente viene esperito, vissuto. Rispettando il modo unico di narrarlo, disegnarlo, rappresentarlo, sentirlo nel corpo “rotto”, spaccato come la casa e come la propria vita, come interrotta è l’infanzia dei bambini che “orfani sono stati svegliati per sempre dalla guerra” (cfr. disegni).
Compito dello psicologo è raccogliere le storie di vita e politicizzare la sofferenza soggettiva, così prosegue il racconto di C. Cimmino della fondazione Andolfi con le narrazioni di chi è fuggito in Italia dalla guerra in Ucraina.
E la guerra e le disparità sociali, economiche, di risorse arrivano nella nostra parte fortunata di Terra, attraverso le migrazioni forzate, e gli operatori di salute mentale incontrano i vissuti dei rifugiati. Lo psicologo greco, responsabile del Centro Clinico Babel, Nikos Gionakis, delinea un approccio per lavorare con i migranti, che attiene alla filosofia della cura, di accoglienza per tutte le richieste per fare in modo che tutte ricevano una risposta, assicurare la continuità della cura, ed un lavoro sull’unicità dei rifugiati, dei loro sogni e progetti, affrontando nel contempo le sfide indotte dal contesto, come la politica della deterrenza, il ruolo spesso imperialista delle stesse ONG. Le risposte ai problemi, ai molti bisogni emergenti, in molti casi non esistono già, bisogna costruirle con creatività. Un approccio di base alla cura aumenta il senso di controllo, la possibilità di scelta, l’agentività nelle persone torturate, vittime di violenza da guerra e migrazioni forzate, che purtroppo nei viaggi e poi nelle politiche di accoglienza in Europa, rischiano di ottenere una vittimizzazione secondaria, altra traumatizzazione perché le frontiere sono uno spazio non solo fisico, ma mentale, una distanza psicologica come afferma F. Vecchiano dell’Università Ca’Foscari di Venezia. Vincenzo Di Nicola, Professore dell’Università di Montreal, continua con il puntualizzare il lavoro dell’operatore in quanto accompagnatore: stare con i rifugiati significa accompagnarli nel lungo viaggio dalla soglia alla meta, ovvero dallo stato in cui non sentono più senso di appartenenza, a diventare invece importanti per qualcuno e risentirsi a casa, a sentire nuovamente connessioni.
Tocca poi all’Associazione Frantz Fanon, che porta il nome dello psichiatra anticolonialista nativo americano, che attraverso le parole di Roberto Bertolino delinea come occuparsi dei rifugiati significhi oggi sempre di più aiutarli nel riconoscimento sociale delle loro vulnerabilità, per creare protezione umana: i 15 livelli di vulnerabilità dell’UNHCR diventano livelli di umanità. L’obiettivo è valorizzare la loro alterità e rispettarla, ripoliticizzare le loro memorie, restituire autorità narrativa alle loro storie, al di fuori dei restringimenti ad imbuto delle diagnosi. I migranti sono testimoni dell’ordine del male, dell’oppressione, portano con sé l’autorialità storica. Forse anche per questo il tema della migrazione è oggetto di tante controversie, aggiungerei io, perché in fondo a chi vive le grazie di un imperialismo, la sua abbondanza di servizi, risorse, opportunità per quanto esistano paradossi anche nella parte colonialista, è scomodo pensare che questo stile di vita si sorregga sulla sottrazione ingiusta di risorse, e sullo sfruttamento di un altrove, e che il mondo non sia poi così giusto come crediamo. Sono, quindi, messe in discussione le politiche di accoglienza, riscontrando effetti nefasti psicosociali in chi è accolto. Si tratterebbe di una inclusione subalterna, ovvero di un inserimento dei migranti ma nei livelli più bassi della società, con una economia morale della scarsità, una accoglienza povera, precarizzazione della residenza e fragilità dei legami. Le infinite deroghe al tempo per il rinnovo dei documenti fanno dell’attesa e della sopportazione una disciplina della prova motivazionale. Pertanto la persona, con i suoi bisogni di stabilità, di progettualità, vive per anni in uno stato di sospensione, compromettendo la sua salute mentale insieme alla solidità dei suoi legami di origine, che si sfaldano nell’attesa senza limite.
Il dibattito prosegue con le domande e gli interventi degli uditori, tra emozioni che scorrono vive in una sala gremita del Seraphicum nonostante la calura dell’estate romana e le brusche interruzioni dell’energia elettrica per un incidente accaduto poco distante. Una altra oppressione in un altro angolo della Terra, sul tetto del mondo, è raccontata da Marilia Bellaterra, Presidente AREF International oltre che didatta APF. Nomina “genocidio in diluizione“ quello che accade in Tibet, con più della metà del territorio occupato, 1.200.000 tibetani uccisi, la sterilizzazione forzata, 6000 monasteri distrutti, campi di concentramento Laogai e traffico di organi. Ai tibetani superstiti continuano le persecuzioni, la distruzione della loro cultura, costretti a parlare il mandarino e a rinunciare alle loro tradizioni. Insieme a quella che è una persecuzione sociale, come spesso avviene, si accompagna anche una ingiustizia ambientale: il disboscamento, lo sconvolgimento dell’ecosistema che serve con i suoi ghiacciai più del 20% delle risorse idriche del pianeta, e che ha visto la costruzione dall’imperialismo cinese di più di 80.000 dighe con il rischio di incrementata sismicità e quindi più frequenti ed intensi terremoti. In questo ritratto, è fondamentale la luce posta dalla relatrice sulla resilienza dei tibetani, la pratica del “qui ed ora”, l’educazione trigenerazionale, la determinazione ad usare il dialogo per affrontare ogni tipo di conflitto, che si basa sulla compassione ed il perdono come un’ azione di forza. Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama e Madre del Tibet, ha di fatti inaugurato il convegno con un videomessaggio in cui ha parlato del pensiero discriminatorio all’inizio di ogni guerra: noi vs loro. Si tratta di un pensiero obsoleto perché in realtà siamo interdipendenti, le differenze sono “ospiti di riguardo”.
Che speranza di riparare, guarigione anche a guerra finita?
Moustafa palestinese risponde alla domanda di ingaggio di un collega ebreo sul cosa facciamo all’indomani della fine della guerra. Ed è una riflessione proprio sul perdono che termina la due giorni. Perdonare è diverso da condonare, perché serve fare in modo che le azioni del presente indirizzino il futuro e non vengano dimenticate. È un forgive, non un forget, riprendendo i termini inglesi. Precede il perdono, il rispetto della dignità umana, c’è attenzione, contegno, nell’uso di ogni parola da parte dei relatori. Il giorno dopo la guerra “verseremo le lacrime che non abbiamo versato, i nostri morti che non abbiamo avuto il tempo di piangere”. Ed io aggiungerei, che recuperata la dignità degli oppressi, allora si potrà pensare ad elaborare la ferita, ai rituali/gruppi comunitari di riconciliazione già realizzati in altri paesi come il Sudafrica dopo la fine dell’apartheid, a come prevenire il trauma transgenerazionale, a come non far dilagare l’odio, ma anche a come non dimenticare perché mai più l’umanità conosca tale barbarie.
