Volume 31 - 4 Novembre 2025

Miriam Gandolfi, Manuale di tessitura del cambiamento. Un approccio connessionista alla psicoterapia. Giovanni Fioriti Editore, 2015, I ristampa 2022




Nell’intenzione dell’autrice, psicoterapeuta a Bolzano, di formazione sistemica, con un’esperienza pluridecennale nel campo dell’età evolutiva e delle famiglie, supervisore in diverse istituzioni comunitarie e didatta in varie scuole e corsi universitari, questo importante volume, trecento e passa pagine densissime, dovrebbe esemplificare, come ogni manuale, fin dal titolo, la metodologia del suo modo di lavorare, neo-sistemico e connessionista (p.26). In realtà questo testo ricchissimo, scritto magnificamente, da vera divulgatrice scientifica, con ampi riferimenti alla fisica e alla logica-matematica rivoluzionaria del secolo scorso, punteggiato da sottili ironie che coprono un netto dissenso verso tutte le pratiche riduzioniste, è molto di più: un vero trattato di psicologia che parte, nell’importantissimo capitolo 0, dal riesame critico dei concetti-base dell’operare psicoterapeutico e nella salute mentale in genere, quali quelli di “mente”, “paziente”, “psicopatologia” e “cura”.

Il principio che anima questa revisione è sicuramente il concetto di “processo” contrapposto a quello dell’operare meccanicistico/statico/categoriale: si potrebbe dire, riprendendo la sapienza presocratica, che il paradigma di Gandolfi si ispira al principio “tutto scorre” (e magari “ricorre”), piuttosto a quello che “tutto è” dato in un certo modo, immutabile ed eterno. Contrappone infatti il concetto di “processo conversazionale” che consente una “connessione”, a quello di “diagnosi”; di “cambiamento perturbativo” a quello di “malattia”; di “logiche paradossali” alle banali “logiche lineari” immaginate da giudici, politici sanitari e psicoterapeuti ingenui, di “tempo ricorsivo” a quello di “tempo cronologico e irreversibile”. Il cambiamento terminologico non è fine a se stesso, è necessario per una radicale rivisitazione delle comuni prassi di cura riduzioniste che, costruite sulle “buone pratiche”, le “evidenze scientifiche” neuroscientifiche e tutta una serie di manovre proceduralizzate che entrano ormai in automatico del lavoro istituzionale come abitudini così consolidate da divenire stereotipe e vuote di senso.

Il processo di cura si delinea invece, nell’ottica connessionista neosistemica, in un lavoro di “tessitura del cambiamento” anziché di correzione tout court di uno status di minorità. “La psicoterapia”, dice Gandolfi, “non può coincidere con l’eliminare, gestire o controllare comportamenti definiti da un osservatore esterno come sbagliati, anomali e perciò patologici” (p.10); ed ancora “la patologia non va combattuta, né elisa, ma inclusa in una cornice contestuale più ampia che, assegnando al comportamento patologico un significato pertinente, benché doloroso, consente al sistema-paziente di decidere se mantenerlo o meno come strategia necessaria per definire o imporre la propria appartenenza.” (p. 14). Ed ancora (p.203) “confondere la mente col cervello” è “un errore logico oltre che epistemologico”. Si capisce da questi assunti, se ampliati alle dimensioni sociali e antropologiche e radicalizzati, come facilmente l’atteggiamento terapeutico possa sfumare in derive brainless e antipsichiatriche.

Il rischio della visione di Gandolfi è che il riferimento epistemologico alla fisica e alla logica-matematica garantisca al ragionamento una metodologia antiriduzionista ineccepibile, e consenta di descrivere benissimo il paradigma della complessità (come già è avvenuto negli anni ’70, legata ai nomi mitici di Bateson, Watzlawick, Maturana e Varela, Racamier, Palazzoli Selvini e molti altri, talora col supporto delle cugine teorie della Gestalt termine antico, apprendo qui, particolare non irrilevante, inventato da Goethe nei suoi studi naturalistici), ma tenda ad escludere l’importanza degli aspetti biologici e il primato del corpo nel concetto di salute. Il ruolo delle neuroscienze e il loro dominio nelle prassi da esse ispirate è molto marginalizzato. Inoltre, il paradigma neo-sistemico connessionista finisce sempre per cercare, come nelle prassi investigative/interpretative tradizionali, ma in un processo di co-costruzione tra terapeuta e curato, “un significato” rivelatorio, un “punto di svolta”, che consenta un reframing delle convinzioni patogene. Qui l’interazione è molto diversa da quella gestaltista e soprattutto da quella fenomenologica nei cui setting l’ascolto del discorso del paziente non rimanda altro che a se stesso, al cambiamento qualitativo del vissuto, generatore di sofferenza.

É vero, da un’ottica di lavoro nei servizi, che l’enfasi neuroscientifica rigida sulle evidenze, le procedure, i paradigmi classificativi categoriali (“sistemi formalizzati eterodefiniti e decontestualizzati, come i DSM e l’ICD”, scrive Gandolfi a p. 72), la minuziosa quanto teorica e propagandistica descrizione delle potenzialità terapeutica dei farmaci, hanno creato aspettative miracolistiche e apportato numerosi effetti jatrogeni; ad esempio il non prendere mai in considerazione prospettive terapeutiche alternative, la passiva adesione alle prescrizioni farmacologiche di massa come “unica soluzione”, infine la cronicità dei trattamenti e la minimizzazione dei loro effetti sulla qualità della vita. Tuttavia anche il formalismo razionalista suggerito dalla metodologia connessionista, pur teoricamente ineccepibile, non può essere generalizzato, ed anche quando ha un’applicabilità mirata, porta alla luce grovigli confusi e talora inestricabili nella prassi terapeutica come nella vita reale: il lavoro terapeutico porta cioè ad una comprensione più appropriata della realtà senza poi consentire alcuna azione mutativa. Le resistenza al cambiamento dei “sistemi” familiari e relazionali (almeno di quelli terribili che abbiamo modo di osservare nei servizi nelle famiglie degli psicotici) é infatti maggiore di quella del singolo individuo. Ed infatti dagli esempi clinici del manuale si evince che principalmente a cambiare prospettiva siano, dopo un’analisi sistemica, solo alcuni atteggiamenti dei singoli individui.

Nulla di quello che luccica è oro, nella salute mentale. L’esperienza clinica, i decenni passati coi pazienti, ci indicano che una via di mezzo tra le due logiche terapeutiche, riduzioniste e antiriduzioniste, è forse quella auspicabile e che radicalizzazioni in un senso o nell’altro non sono utili, anzi sono dannose. A tratti Gandolfi sembra cadere in questa tentazione quando ad esempio scrive: “processi di assemblaggio di matrice riduzionista e processi di trasformazione di matrice connessionista appartengono a modelli scientifici diversi, affrontano domini di eventi diversi.” (p.319). Altrove invece è la stessa Gandolfi ripetutamente a proporre un “pensare e/e” invece che un “pensare o/o”. La “mente”oggi, non è più quella “cartesiana” che lei contrappone a quella “conversazionale” in una tabella a pagina 40: qualsiasi teorico della mente attuale (come ad esempio Dennett), sa bene che la sua natura non è “sostanziale” ma “fenomenica”, qualcosa che, come i fenomeni atmosferici in relazione alle variazioni di pressione, muta nelle relazioni e nei contesti, psicologici, relazionali e dei substrati neurobiologici; per questo la mente risente dei farmaci giusti, delle parole giuste, delle relazioni giuste, può guarire senza alcuna alterazione del senso di una vita oppure anche attraverso trasformazioni di senso indotte dalla vita o dalle psicoterapie. Quindi credo che una qualche forma di integrazione dei due paradigmi sia non solo possibile ma sicuramente necessaria per affrontare una buona parte delle problematiche cliniche che afferiscono ai servizi: ad esempio tutta quella della psicopatologie dell’età di transizione tra adolescenza e maturità (si potrebbe dire della definizione genetico-epigenetica dell’individuo adulto) nella quale le categorie diagnostiche tradizionali sembrano aver perduto del tutto un valore definitorio e prognostico, rilanciando invece la necessità di un’analisi accurata, nelle sue varie e complesse dimensioni sistemiche, di comportamenti fortemente disadattivi e di relazioni intrafamiliari ambivalenti e distruttive. Più volte negli ultimi anni mi sono reso conto, dirigendo un servizio, del vuoto lasciato della mancanza di una formazione e di pratiche sistemiche che appaiono necessarie, ad esempio, ogni volta si scontrano violentemente la narrazione del paziente e quella dei familiari, considerando anche che le coppie parentali e le fratrie oggi spesso sono disarticolate, ambivalenti o perfino contrapposte nelle loro posizioni. Da profano ritengo che la pratica “neosistemica e connessionista” si prospetti nei nostri tempi molto più complessa di quanto già non fosse un tempo e rilanci sfide che forse non devono limitarsi più al contesto della salute mentale ma, come si diceva un tempo, debbano far risaltare le contraddizioni sociali e politiche, oggi enormi. In ogni caso la pratica neosistemica deve essere aggiornata rispetto a strutture relazionali drammaticamente trasformate rispetto agli anni ’70 e ’80. Forse, proprio in quegli anni si sono verificate e messe in marcia trasformazioni sociali (laicizzazione della società, della liberazione sessuale, del riassestamento dei rapporti tra i sessi, omologazione delle differenze di genere etc., digitalizzazione delle relazioni, anche sessuali) cui la nostra generazione di terapeuti si affaccia a volte faticosamente dovendo tenere a bada inevitabili pregiudizi.

Gli aspetti teoretici del testo restano comunque, alla fine, minoritari rispetto alle concettualizzazioni pratiche e alla casistica analizzata, allo stile terapeutico arguto e sottile che viene delineato con chiarezza. Gandolfi rilascia in modo sistematico nei vari capitoli numerosissimi consigli tecnici utili in tutti i contesti di cura, su come agire praticamente di fronte alle diverse costellazioni di presentazione dei casi: per fare degli esempi, come convocare gli attori, valutare la reciprocità della terapia, tessere il cambiamento, come integrare psicoterapia e psicofarmacologia, cosa si debba intendere per conclusione della cura e come l’imperfezione dei risultati sia inevitabile , infine cosa intendere per valutazione dei risultati, e come fare terapia ai familiari di pazienti “in contumacia”.

Fedele al proprio assunto didattico, il libro si chiude con un utilissimo glossario dei termini chiave (credo anche parole magiche e inaudite alla maggioranza degli operatori sanitari) quali “banalizzazione”, “doppio legame”, “strani anelli”, “gödelizzazione”, “evidence base psychology”, “paradosso”, “parole punto”, ”paziente designato”, “polarizzazione”, “reframing”. Anche molte altre presenti ripetutamente nel testo, come “intelligenza di sciame”, “descrizione autologica e etero logica”, “autoreferenzialità dell’altro” potevano essere aggiunte.

Da molto tempo, nella letteratura psicoterapeutico/psichiatrica non avevo avuto l’impressione di apprendere qualcosa dalla lettura di un libro: per questo estenderei l’invito a tutti gli operatori e professionisti della salute mentale a prendere in mano questo testo, leggerlo (e rileggerlo) per iniziare a riflettere seriamente su quanto ci insegna e ci propone, anche al fine di scardinare prassi routinarie e a-riflessive, cronificanti, inutili o perfino dannose e di restituire sempre al paziente una definizione della sua sofferenza nel contesto in cui è vissuto e vive.