Volume 31 - 4 Novembre 2025

Intrecci Culturali e Psicopatologia

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Contributo presentato alla Riunione Scientifica SIEP tenutasi a Firenze il 28 e 29 novembre 2024 dal titolo “Quali risorse per la salute mentale? Alleanze tra Servizi, utenti, famiglie, agenzie del territorio”.



Buongiorno a tutti, ringrazio il dott. Rossi Prodi per l’introduzione. Sono il dott. Marco Faldi, medico in formazione specialistica in Psichiatria, e al momento sto proseguendo il mio percorso formativo presso l'Unità Funzionale Salute Mentale Adulti di Prato e presso l'Università degli Studi di Firenze.

Il mio intervento di oggi verterà principalmente su alcune delle dinamiche che intercorrono tra variabili socioculturali e psicopatologia.

Per capire la malattia mentale, è utile adottare un approccio biopsicosociale, considerando fattori biologici, psicologici e sociali. I primi due fattori sono stati nel tempo più indagati, soprattutto in ambito universitario. Tuttavia, anche elementi quali il contesto sociale, con aspetti come cultura, stigma, eventi di vita, condizioni economiche e supporto sociale, gioca un ruolo determinante nella patogenesi dei disturbi mentali. È importante sottolineare che, nella letteratura scientifica, i fattori socioculturali sono stati meno esplorati rispetto a quelli psicobiologici, sia a causa delle difficoltà metodologiche che della tendenza di una non trascurabile parte del mondo scientifico a considerare la malattia mentale in una prospettiva organicista.

È invece importante sottolineare come la cultura abbia un impatto profondo sulla psicopatologia, influenzando la definizione stessa di normalità e patologia, il modo in cui i sintomi si manifestano, i fattori di rischio e protezione, la propensione a cercare aiuto e, conseguentemente, l’appropriatezza e l'efficacia dei trattamenti. È infatti fondamentale considerare che ciò che è considerato un disturbo mentale nella nostra cultura – quindi, secondo l’accezione occidentale che diamo a questa locuzione - potrebbe essere visto in un’ottica diversa in un'altra. Questo aspetto ha implicazioni importanti per la diagnosi e la terapia, richiedendo un approccio attento alle diverse modalità di espressione del disagio mentale e alle diverse concezioni di salute e malattia.

Un concetto che può aiutarci a comprendere meglio le complesse relazioni tra cultura e psicopatologia è il concetto di acculturazione. L'acculturazione è un processo complesso e dinamico che descrive i cambiamenti che si verificano negli individui quando gruppi di persone con culture diverse entrano in contatto. Non si tratta semplicemente di un'assimilazione passiva, bensì di un processo di negoziazione e trasformazione reciproca tra culture diverse, che può portare a cambiamenti nella cultura dominante, nella cultura minoritaria o in entrambe. Esistono diversi modelli per concettualizzare l'acculturazione, ciascuno con i suoi punti di forza e di debolezza.

Alcuni modelli si concentrano sulle strategie individuali di adattamento, mentre altri enfatizzano gli aspetti sociali e contestuali del processo. Tra i modelli più utilizzati, quello di Berry [1] si distingue per la sua chiarezza e per la sua capacità di catturare la complessità del fenomeno. Il modello di Berry non è l'unico, ma è uno dei più conosciuti e utilizzati perché offre una rappresentazione visiva e concettuale facilmente comprensibile della complessità del processo di acculturazione.

Il modello di Berry, a differenza di altri modelli che spesso si limitano a descrivere l'assimilazione o l'integrazione, propone una tipologia più ampia e flessibile delle strategie di acculturazione, considerando due dimensioni principali:

  • Il mantenimento della cultura d'origine: questa dimensione si riferisce al grado in cui gli individui cercano di preservare la propria cultura e identità. Può variare da un forte desiderio di mantenere le proprie tradizioni e valori a una completa rinuncia alla propria cultura di origine.
  • Il contatto con la cultura dominante: questa dimensione indica il livello di interazione e coinvolgimento con la cultura del nuovo contesto. Può variare da un isolamento completo e rifiuto della cultura dominante a un'integrazione completa e partecipazione attiva alla vita sociale del nuovo contesto.

Combinando queste due dimensioni, Berry identifica quattro possibili strategie di acculturazione:

  • Assimilazione: alto contatto con la cultura dominante, basso mantenimento della cultura d'origine. Gli individui abbandonano la loro cultura e cercano di identificarsi completamente con la cultura dominante;
  • Integrazione: Alto contatto con la cultura dominante, alto mantenimento della cultura d'origine. Gli individui cercano di mantenere la propria cultura e di integrarsi simultaneamente nella cultura dominante, creando un equilibrio tra le due;
  • Separazione: Basso contatto con la cultura dominante, alto mantenimento della cultura d'origine. Gli individui rifiutano il contatto con la cultura dominante nel tentativo di preservare la propria cultura e identità;
  • Marginalizzazione: Basso contatto con la cultura dominante, basso mantenimento della cultura d'origine. Gli individui non riescono a integrarsi né nella cultura dominante né nella propria cultura d'origine, vivendo una situazione di disagio e isolamento.

È importante sottolineare che queste quattro strategie rappresentano idealtipi, e nella realtà gli individui possono adottare strategie più complesse e ibride. Inoltre, la scelta di una particolare strategia è influenzata da numerosi fattori, tra cui le caratteristiche individuali, le politiche sociali del paese ospitante, e le relazioni intergruppo. Infine, la strategia scelta può avere conseguenze significative sulla salute mentale degli individui, con l'integrazione spesso associata a maggior benessere psicologico e la marginalizzazione associata a maggiori difficoltà di adattamento e maggiori rischi di problemi di salute mentale.

L’attuale sistema classificativo delle malattie mentali non tiene in adeguata considerazione la dimensione socioculturale delle malattie mentali. Inoltre, esso analizza il disagio psichico da una prospettiva spesso “occidente-centrica”, trascurando le differenze culturali e il fatto che le malattie mentali non sono entità statiche, ma sono influenzate dal contesto sociale in cui si manifestano e dai suoi cambiamenti. Questa prospettiva limitata può portare a diagnosi errate e a trattamenti inefficaci, soprattutto nella cura a popolazioni vulnerabili quali i migranti. È quindi importante superare questo approccio etnocentrico e sviluppare metodi diagnostici e terapeutici più culturalmente sensibili.

A supporto di questa concettualizzazione dei disturbi mentali desidererei soffermarmi, a scopo esemplificativo, su due delle diagnosi psichiatriche più comuni di più frequente riscontro nella nostra epoca e nel nostro contesto socioculturale: la depressione maggiore e i disturbi dell’alimentazione.

In primo luogo, molti lavori hanno sottolineato il carattere contingente e culturalmente determinato della patologia depressiva per come la intende oggi il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali; a questo proposito, cito l’interessante opera di Alain Ehrenberg “La fatica di essere se stessi” [2], illuminante nel definire le dinamiche socioculturali che hanno portato all’odierna “epidemia” di depressione mensionata in ambito sia scientifico che mediatico. Le manifestazioni della depressione, infatti, variano molto a seconda del contesto culturale, con una gamma di sintomi che va da quelli emotivi e psicologici, più comuni nei paesi occidentali, a quelli somatici, più frequenti in altre parti del mondo. Questo evidenzia come la depressione non sia semplicemente il prodotto biologicamente determinato di una “malattia” (disease), ma rifletta anche le dinamiche sociali e culturali del contesto in cui si verifica.

Per quanto invece concerne i disturbi dell’alimentazione, essi sono stati più volte concepiti come “sindromi culturalmente determinate” di matrice occidentale, alla luce del fatto che tali disturbi non sembrano altrettanto prevalenti in contesti non occidentali. È importante in primis partire dal principale assunto del modello trans-diagnostico dei disturbi dell’alimentazione, secondo cui queste sindromi apparentemente eterogenee condividerebbero un core psicopatologico comune, costituito da bassa autostima nucleare, perfezionismo clinico, intolleranza alle emozioni e difficoltà nelle relazioni interpersonali [3]. Questi elementi costituiscono una sorta di nucleo sottostante, che si manifesta poi fenotipicamente attraverso comportamenti alimentari disfunzionali.

È fondamentale considerare che l'espressione di questo nucleo psicopatologico attraverso il corpo e il controllo del peso potrebbe essere, almeno in parte, culturalmente determinata. In contesti occidentali, dove l'aspetto fisico e la magrezza sono spesso esaltati dai media e dalla società, il corpo diventa un campo privilegiato per la manifestazione del disagio psichico. L'ossessione per il peso e il cibo può rappresentare un tentativo, spesso inconsapevole, di gestire e controllare aspetti della propria vita percepiti come incontrollabili. La dieta e l'esercizio fisico diventano strumenti per raggiungere un ideale di perfezione corporea, spesso irraggiungibile, che si spera possa compensare la mancanza di autostima e il disagio emotivo.

Inoltre, la transizione da una società prevalentemente incentrata sulla performance e sul successo a una società post-moderna, atomizzata e caratterizzata da una progressiva perdita di senso di comunità e di legami sociali significativi, potrebbe aver determinato un ulteriore cambio di paradigma nella psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione, osservabile nella pratica clinica da parte di coloro che quotidianamente si occupano di queste condizioni (soprattutto nel post-SARS-CoV2). In questo nuovo contesto, il controllo sul corpo e sul cibo andrebbe oltre la semplice regolazione di una bassa autostima, diventando un meccanismo per costruire e affermare un'identità e un ruolo sociale in un mondo percepito come incerto e frammentato. La restrizione alimentare, l'ossessione per il peso e il corpo, possono essere interpretati come strategie per compensare la mancanza di altri significativi punti di riferimento identitari e per acquisire un senso di controllo e di autonomia in un contesto sociale caratterizzato da instabilità e individualismo. In altre parole, il controllo sul corpo diventa un surrogato di un'identità sociale e di un senso di appartenenza che risultano altrimenti difficili da raggiungere.

In conclusione, la relazione tra aspetti culturali e psicopatologia è complessa e articolata. È pertanto imprescindibile un approccio culturalmente sensibile per diagnosticare e trattare efficacemente i disturbi mentali, così come è necessaria maggiore attenzione, in ambito di ricerca, ai determinanti socioculturali di salute mentale.

Vi ringrazio per l’attenzione e ringrazio in particolare il dott. Cardamone e la dott.ssa Picchetti per avermi permesso, attraverso la formazione che ho potuto effettuare in un Servizio di Salute Mentale “ricco” come quello di Prato, di concettualizzare meglio i punti fondamentali di questo intervento anche attraverso l’esperienza sul campo.


Note e bibliografia

[1] Berry, J. W. et al.1989 “Acculturation attitudes in plural societies”, Applied Psychology, 38:185–206

[2] Ehrenberg, A. 1999 “La fatica di essere se stessi. Depressione e società”. Einaudi editore

[3] Fairburn, C. G. et al. “Cognitive behaviour therapy for eating disorders: a transdiagnostic theory and treatment”, Behav Res Ther, 2003 May; 41(5):509-28. doi: 10.1016/s0005-7967(02)00088-8