Volume 31 - 4 Novembre 2025

Adolescenti in transizione fra mondi. Temi e problemi della migrazione vissuta in prima persona o di riflesso

Autori

Ricevuto il 29 settembre 2025; Accettato il 15 ottobre 2025


Riassunto

L’articolo affronta alcune questioni cruciali che oggi interpellano i servizi di salute mentale di fronte al disagio crescente delle nuove generazioni, segnate da trasformazioni rapide e profonde. Particolare attenzione è rivolta alla collocazione dell’esperienza migratoria nella relazione clinica, che può essere rimossa o ridotta a mera distanza culturale incolmabile, con il rischio di oscurare i costi soggettivi e collettivi della migrazione o di irrigidire la percezione dell’altro come alieno e indecifrabile.
Il testo analizza inoltre la questione metodologica della differenza linguistica — con il ricorso all’auto-traduzione o alla mediazione linguistico-culturale — intesa non soltanto come strumento tecnico, ma come attraversamento tra mondi simbolici eterogenei, soprattutto quando i protagonisti sono adolescenti migranti. Viene infine messa in luce la dimensione transgenerazionale dell’evento migratorio, che incide sui processi di filiazione, discendenza e affiliazione, generando nuovi scenari relazionali e identitari.
In questa prospettiva, lo sguardo etnopsichiatrico consente di leggere le traiettorie adolescenziali come luoghi di tensione tra appartenenze e spaesamenti, continuità e fratture, riconoscendo non solo le differenze culturali attese, ma anche le singolarità idiosincratiche e le crisi familiari generate da dinamiche interne o dall’impatto dei molteplici processi migratori in essere.


Abstract

This article explores key challenges currently faced by mental health services in responding to the increasing distress of younger generations, shaped by rapid and profound social transformations. Particular attention is given to how the migratory experience is positioned within the clinical relationship: it may be silenced or reduced to an unbridgeable cultural gap, risking the erasure of the subjective and collective costs of migration or the rigid perception of the other as alien and incomprehensible.
The discussion further addresses the methodological issue of linguistic difference—whether through self-translation or linguistic and cultural mediation—conceived not merely as a technical device, but as a transit between heterogeneous symbolic worlds, particularly when the protagonists are migrant adolescents. The analysis also highlights the transgenerational dimension of migration, which reshapes processes of filiation, descent, and affiliation, giving rise to new relational and identity landscapes.
From this perspective, an ethnopsychiatric lens enables us to read adolescent trajectories as sites of tension between belonging and displacement, continuity and rupture. It emphasizes not only expected cultural divergences, but also idiosyncratic singularities and family crises triggered by internal dynamics or by the impact of multiple, ongoing migratory processes.



Questo testo rappresenta lo sviluppo elaborativo dell’intervento di due di noi all’evento seminariale intitolato “Manifesto psicoanalitico dell’adolescenza. Il diritto di crescere”, tenutosi nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio nel maggio di quest’anno. Il Manifesto, elaborato da AGIPSA – Associazione dei Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza, ci ha offerto l’occasione di parlare e di riflettere insieme su fenomeni che stanno interessando e preoccupando molto gli operatori dei Servizi di Salute Mentale, così come gli psicologi, i neuropsichiatri infantili e gli psichiatri nel loro insieme. Si tratta delle difficoltà e delle sofferenze delle nuove generazioni che negli ultimi decenni e in questi ultimi anni in particolare stanno sperimentando cambiamenti epocali dalle tonalità apocalittiche: la precarietà lavorativa e in prospettiva l’inutilità stessa dell’opera lavorativa umana, la percezione di una crescente insostenibilità delle condizioni climatiche e ambientali, il trauma collettivo della minaccia pandemica e dell’isolamento sanitario prolungato, lo spettacolo atroce di guerre che minacciano di allargarsi ad ogni luogo, i movimenti diasporici generalizzati di persone in fuga da condizioni sociali, politiche o ambientali insostenibili e il conseguente contatto intensivo e conflittuale fra gruppi culturali.

Questi fenomeni storici lasciano attoniti gli adulti che, per paura ed egoismo, tendono a ripiegare su vetusti principi autoritari, riproposti come salvifici. Si tratta di una regressione affettiva, intellettuale e istituzionale che produce un nuovo dispotismo capace di: svuotare dall’interno il funzionamento democratico del corpo sociale e delle istituzioni; riproporre chiusure nazionaliste contrastive e tese al respingimento e alla svalutazione dell’altro; ignorare i rischi dell’attuale scenario antropocenico.

L’incapacità di immaginare per sé e di proporre ai più giovani un orizzonte di senso fiducioso verso il futuro, attento e aperto all’altro e alla natura, ha prodotto e sta producendo nelle nuove generazioni effetti catastrofici sul piano psichico. Il fatto che – provocatoriamente, ma anche disperatamente – queste giovani generazioni arrivino a definirsi (e percepirsi) come le “ultime”, nel momento in cui provano a protestare contro una deriva catastrofica, individuale e collettiva, sembra testimoniare questo vissuto di un momento apocalittico a loro destinato.

Come operatori dei Servizi pubblici di salute mentale registriamo tutto questo nelle problematiche e nei vissuti degli adolescenti e dei giovani che sempre più si rivolgono a noi: ovviamente ai Servizi di salute mentale per l’infanzia e l’adolescenza, ma anche a quelli per gli adulti. Incontriamo sempre più spesso neomaggiorenni che a noi si rivolgono in continuità con una presa in carico nella minore età, oppure spontaneamente e per la prima volta fanno riferimento ai presidi territoriali. Purtroppo non sono rari i casi anche di accesso emergenziale in ospedale, per quadri caratterizzati da posture depressive e anticonservative, agitazioni psicomotorie più o meno incentivate da assunzioni di sostanze, stati dissociati con tendenze autolesive, acuzie con sintomatologie psicotiche, e così via.

Per provare a rispondere a queste sfide emergenti occorre sostenere un clima politico, sociale e scientifico capace promuovere contemporaneamente un incremento di risorse (attualmente più che insufficienti) e innovazioni metodologiche e operative. La contemporaneità è evidentemente necessaria, perché usualmente i Servizi sono costretti a immaginare nuove modalità operative in assenza di risorse aggiuntive (anzi a fronte di una loro diminuzione), con il rischio incombente di ritrovarsi a dover adottare soluzioni al ribasso o emergenziali.


Effetti dell’oblio dell’altro. Su alcuni processi conflittuali indotti dalla migrazione

Nell’evento di presentazione del Manifesto abbiamo voluto focalizzare la nostra attenzione sull’esperienza degli adolescenti che sperimentano gli effetti diretti (per averli loro stessi intrapresi) o indiretti (per aver vissuto l’incontro con i loro effetti psichici e culturali nei genitori) dei movimenti internazionali di massa. In questo modo, abbiamo potuto tornare ancora una volta a riflettere su temi e su fenomeni già affrontati in passato (1; 2; 3). In questa occasione, proponiamo di affrontarli a partire da un’osservazione per così dire etnografica.

Ci è capitato – non così raramente – di discutere casi clinici con colleghi e a un certo punto, molto dopo l’avvio del confronto, scoprire che la persona o i suoi genitori provenivano da mondi lontani e avevano sperimentato l’esperienza del viaggio migratorio, dell’abbandono del mondo di origine o della fuga da esso e dell’incontro con una nuova realtà sociale. In questi casi, l’emersione di un simile evento nella storia della persona compariva in modo casuale, apparentemente anodino nel resoconto anamnestico e senza alcuna connessione con la sofferenza emotiva o la problematica psicopatologica descritta. Altre volte, invece, nelle discussioni o nei confronti con i colleghi, l’evento migratorio (con i suoi impliciti e le sue conseguenze) appariva in primo piano e quasi agglutinava nel suo ambito discorsivo il quadro clinico nel suo complesso, creando tuttavia un vissuto di lontananza linguistica, culturale ed emotiva nel terapeuta con il conseguente rischio di una presa di distanza più o meno esplicita. Ad esempio, la migrazione può immediatamente presentare i suoi conti come barriera linguistica che interdice un dialogo diretto fra terapeuta e utente. La conseguente necessità di un cambiamento di setting – con l’introduzione della figura del mediatore linguistico-culturale – può aumentare a dismisura nel terapeuta la percezione di una propria inadeguatezza o di quella delle proprie metodologie di riferimento, ovvero di una difficoltà dell’utente rispetto alla formulazione in prima persona di una domanda di cura per una sofferenza psichica. Allora, le reazioni che abbiamo registrato nel tempo sono state la cancellazione della differenza personale e culturale (abolizione della lingua matrice (nota 1) del paziente; analisi della problematica esclusivamente a partire dai quadri di riferimento e dal punto di vista del clinico), se non la cancellazione tout court dell’altro (col sancire l’impossibilità di una presa in carico psicoterapeutica per barriera linguistica o mancanza di una domanda posta secondo i canoni attesi).

Questo carattere ambiguo della migrazione, oscillante fra l’irrilevanza (o addirittura l’inesistenza) e l’onnipervasività ci pare non riguardare solo lo sguardo del terapeuta (e l’intelligenza delle sue teorie di riferimento), ma anche il suo statuto nel mondo interno della persona: sia come contenuto psichico, sia come evento che complessifica il quadro dei contenitori culturali del funzionamento psichico (a partire da quello costituito dalla lingua), disarticolandoli o ponendoli in conflitto fra loro.

Questo statuto ambiguo della migrazione si preserva e anzi diventa ancora più marcato nelle generazioni discendenti da quella che effettivamente ha compiuto il viaggio migratorio. In questi casi, le dinamiche acculturative possono complicare i processi di contatto culturale e la corrispondente dinamica transfert-controtransfert fra gli attori dell’incontro clinico. Ad esempio, la lingua italiana perfettamente esibita dall’adolescente migrante (o figlio di genitori migranti), addirittura arricchita dall’inflessione o dalle marche fonemiche dialettali, può far dimenticare al terapeuta che tale competenza linguistica è il risultato finale di processi interni e relazionali assai complicati e costosi sul piano psichico. Non è possibile essere esaustivi in questa sede, ma si può comunque sottolineare come questi processi implichino sia i genitori sia il conteso sociale e istituzionale circostante. Ad esempio, le attese di un rapido adattamento al contesto ospitante possono investire il bambino di un mandato familiare ingombrante che può ingenerare conflitti intrapsichici e relazionali soprattutto in adolescenza (conflitti di identificazioni e di valori culturali). La necessità familiare che il minore assurga al ruolo di mediatore fra i genitori e il mondo esterno contribuisce ad alimentare una inversione dei rispettivi ruoli che può diventare particolarmente problematica dalla pubertà allorché i genitori iniziano ad adottare attitudini restrittive e limitanti sulla scorta di norme culturali (ad esempio rispetto alla sessualità) o per timori di derive acculturative o addirittura devianti in seno ai gruppi dei pari (conflitti transgenerazionali). La società di accoglienza (nelle sue porzioni istituzionali o latamente sociali) può denegare l’esistenza di un’appartenenza (effettiva, desiderata o potenziale) del bambino ad un mondo culturale altro, svalutarne il valore o addirittura discriminarlo per tale ragione e questo può creare una prima risposta mimetica, con annessa svalutazione delle figure genitoriali, a cui possono seguire – in epoca successiva (e adolescenziale in particolare) – processi di anomia marginalizzante ed eventualmente di antagonismo acculturativo: ad esempio derive ideologiche fondamentaliste che hanno come bersaglio sia la cultura di origine che quella di adozione; oppure derive antisociali in opposizione all’una e all’altra, ecc. (conflitti da acculturazione antagonista; 5; 6).

Oltre a simili impliciti evolutivi e ontogenetici, il terapeuta che riceve come non problematica la completa competenza dell’adolescente nella lingua adottiva (o che comunque si accontenta di una competenza sufficiente per imbastire il dialogo clinico) può allo stesso tempo obliterare l’esistenza di altri discorsi che in almeno un’altra lingua avvengono (effettivamente o potenzialmente) dentro e fuori dal ragazzo. Discorsi che implicano altre prospettive e altri processi di soggettivazione, altre ricostruzioni biografiche, altre concezioni di sé e del mondo e altre connotazioni affettive. Tale dimenticanza finisce inevitabilmente per portare acqua a scissioni, dinieghi e rimozioni che si articolano lungo una serie di opposizioni binarie già imposte dall’esterno al minore – direttamente o per induzione genitoriale – e che riguardano la geografia della migrazione (il qui e il là), la sua temporalità (l’ora e l’allora) e la topografia dei processi di identificazione e adattamento (dentro e fuori la famiglia; casa e scuola; amici connazionali e coetanei locali, ecc.). Soprattutto finiscono per far perdere al terapeuta le risorse che può apportare la conoscenza della dimensione culturale obliterata alla comprensione dell’adolescente e al processo terapeutico in corso.


La lingua dell’altro e i modi dell’incontro

Queste brevi notazioni relative alle possibili dimenticanze del terapeuta quando incontra un adolescente migrante o, del resto, un migrante tout court (dimenticanza dei costi soggettivi della migrazione in quanto evento individuale e collettivo e dimenticanza della cultura di origine dell’altro) ci conduce a mettere in evidenza una questione metodologica e una distinzione analitica.

La questione metodologica riguarda la differenza linguistica, il tema della traduzione fra lingue e quindi l’eventuale ricorso alla mediazione linguistico-culturale. Nel caso di adolescenti migranti si possono in effetti presentare diverse situazioni.

In primo luogo, l’adolescente migrante (accompagnato o non accompagnato) può essere incontrato in un momento in cui non possiede alcuna conoscenza dell’italiano o comunque una conoscenza insufficiente per un dialogo clinico o addirittura terapeutico. Egli può essere in possesso di una o più lingue tendenzialmente sconosciute al terapeuta ed eventualmente anche di una lingua veicolare (tendenzialmente coloniale) che può essere conosciuta dall’interlocutore.

In secondo luogo, l’adolescente migrante (accompagnato o meno) può aver acquisito una conoscenza sufficiente dell’italiano o addirittura discreta o ottima (a seconda delle doti personali, del tempo trascorso in Italia e della quantità e della qualità di interazioni con il contesto sociale adottivo). In questi casi, al ragazzo può essere chiesto di esprimersi nell’idioma adottivo ma non può essere dato per scontato che anche pensi in questa lingua. Di fatto è molto probabile che al contrario effettui un processo di auto-traduzione dalla propria all’altrui lingua dei propri vissuti e dei propri pensieri. Per questi casi può valere quanto scritto da Lévi-Strauss in una delle prefazioni al suo libro Antropologia strutturale, relativamente alla sua percezione di una differenza fondamentale “di tono e composizione” fra i capitoli derivati da testi originariamente scritti in inglese, rispetto a quelli concepiti direttamente in francese: “Qualunque sia la mia pratica nella lingua inglese, in cui ho insegnato per parecchi anni, la adopero però in modo scorretto e in un registro limitato. Io penso in inglese quello che scrivo in questa lingua, ma, senza rendermene sempre conto, dico quello che posso con i mezzi linguistici di cui dispongo, non quello che voglio. Di qui il sentimento di estraneità che provo di fronte ai miei testi, quando cerco di trascriverli in francese…” (7).

In terzo luogo, l’adolescente migrante arrivato con i genitori o ricongiunto in tenera o tenerissima età, oppure nato in Italia e quindi discendente di una precedente generazione migratoria, può dominare perfettamente l’idioma adottivo. Parallelamente può parlare con diversi gradi di competenza la lingua (o le lingue) di origine: può usare quest’ultima come un adulto madrelingua; può essere capace di comprenderla ma non di esprimersi attraverso di essa; può parlarla come farebbe un bambino e così via fino a non parlarla affatto. In questi casi, l’adolescente può esprimersi in italiano, pensando in questa lingua e senza bisogno di auto-traduzione. Tuttavia, in questi casi è auspicabile, se non necessario, porsi il problema del discorso effettivamente o potenzialmente esprimibile dal ragazzo nella propria lingua matrice, non potendo assumere di “incontrare” lo stesso adolescente in tutte le sue lingue effettive o potenziali. In primo luogo perché ciò che si dice cambia anche in funzione dell’interlocutore effettivo o potenziale (ad es., uno psicologo piuttosto che un qualche tipo di terapeuta tradizionale) e poi, in un senso più profondo, perché non si dicono le stesse cose in lingue diverse, le quali veicolano concezioni di sé, del proprio corpo, delle relazioni e del mondo affatto diverse fra loro. Addentrarci in questo discorso non è possibile in questa sede e valga solo un breve esempio: una neomaggiorenne proveniente da un paese maghrebino sta parlando delle sue paure e difficoltà nelle relazioni con i coetanei. Si tratta di una ragazza nata e cresciuta in Italia, che grazie al suo aspetto muove i primi passi nel mondo dello spettacolo e che si adegua perfettamente ai canoni estetici, morali e relazionali previsti in quel contesto. Nel suo discorso in italiano emergono preoccupazioni relazionali concernenti il suo tentativo di far scorrere “energie positive” fra sé e gli altri (e soprattutto con le altre ragazze del suo ambiente di lavoro) e al contempo di evitare di farsi influenzare emotivamente dalle “energie negative” che gli uni e le altre trasmettono. Invitata a riflettere su come avrebbe espresso tutto ciò nella sua lingua matrice (che ben conosce), la ragazza: a) introduce il concetto di “occhio” (‘aïn) in quanto eziologia tradizionale della sfortuna e della malattia (che agisce non per via emotiva – ad esempio l’invidia – ma che trova nell’occhio la sorgente fisica dell’influsso nocivo a causa di alcune sue specifiche caratteristiche per così dire “biologiche” e indipendenti dalla singola volontà o intenzionalità dell’aggressore (8); b) si interroga imbarazzata se il terapeuta possa “credere a queste cose”, timorosa di un giudizio nei suoi confronti (interrogazione sull’interlocutore reale e presente, carica di vissuti transferali) ed evoca la madre in parte denigrandola (come una persona superstiziosa e arretrata, ovvero debole e incapace di assertività sociale interna ed esterna alla famiglia) e in parte riconoscendola come fonte di sapere (pedagogia rispetto alle modalità e alle strategie comportamentali di protezione: ad esempio, evitare di mettersi in mostra, di vantarsi, ecc.) e come connessione con pratiche sociali diffuse nel paese di origine e in terra d’esilio (procedure diagnostiche come il khfif; uso di oggetti di protezione, ecc.).

Infine, è possibile richiamare sinteticamente due casi che rendono ancora più complicato lo scenario: quello dei ragazzi nati in Italia ma poi rinviati in patria per periodi più o meno lunghi fino al loro rientro in seno alla famiglia (a seconda dell’epoca della separazione e del ricongiungimento si possono presentare situazioni diverso rispetto alla competenza linguistica nella lingua matrice e in quella italiana); quello delle adozioni internazionali in cui la o le lingue originarie possono essere assenti perché mai apprese o perché condannate all’oblio (di volta in volta a causa della non conoscenza da parte del contesto adottivo che può per altro lanciare contro di esse l’interdetto o comunque svalutarne l’importanza). In questo secondo caso il discorso in lingua rimane del tutto potenziale, lasciando un vuoto o un buco nell’esperienza psichica della persona adottata.


La traduzione che avviene nel corso delle interazioni cliniche transculturali, permettendone così il divenire, produce la coniugazione simultanea e conflittuale fra l’essere e il divenire del paziente, del sistema clinico e del disordine emotivo o psicopatologico. Essa passa in modo esplicito ed evidente attraverso la figura concreta di un terzo – il mediatore linguistico-culturale – ma il processo traduttivo avviene anche in modo implicito e opaco all’osservatore come impresa auto-traduttiva. In questo caso, il locutore esprime sé stesso e descrive le proprie sofferenze in una lingua estranea, se non straniante e comunque non nella lingua matrice in cui pensa e vive secondo un codice logico-formale familiare. Quest’ultima – e queste ultime, in caso di poliglottismo – è per altro del tutto sconosciuta all’interlocutore terapeutico. In questi contesti traduttivi (o auto-traduttivi), il passaggio da un idioma all’altro sancisce uno iato fra la comunicazione che giunge al clinico per mezzo del mediatore (o direttamente dal paziente che si auto-traduce) e quanto vissuto, pensato e agito originariamente dal paziente. In entrambi i casi, la distanza è fisica, mentale, relazionale e culturale e si interpone non tanto fra le persone presenti nella scena, ma piuttosto fra le lingue e, ancora di più, fra i mondi che esse codificano (9; 10). Questo vale per entrambe le configurazioni del rapporto traduttivo: traduzione tramite interprete e auto-traduzione. Ma questa distanza fra lingue e fra mondi è presente anche nei casi in cui l’adolescente può egualmente esprimersi (e pensare discorsi) nella lingua matrice e in quella adottiva, ovvero in cui il discorso nella lingua matrice rimane come mera potenzialità ormai perduta. Come due di noi scrivevano insieme a Salvatore Inglese tempo addietro: “La clinica etnopsichiatrica è saturata dalla dinamica linguistica che obbliga a interrogare il codice comunicativo di un mondo culturale determinato, ovvero a discutere sul modo di funzionamento di una specifica lingua e su come essa generi entità effettive nell’esperienza vissuta da un paziente altrettanto specifico, prodotto elettivo di un mondo storicamente determinato”.


Strategie migratorie e processi di filiazione

Questa citazione ci conduce direttamente alla distinzione analitica chiamata in causa dalle possibili dimenticanze del terapeuta e che abbiamo più sopra evocato. Questa distinzione riguarda il modo in cui è possibile assumere teoricamente l’evento migratorio e di conseguenza gli effetti che se ne ricercano, i processi che si indagano, i fattori che si tengono in considerazione e così via.

È possibile individuare due modalità di assunzione teorica del concetto, che per altro stanno fra loro in un rapporto di complementarità.

Da un lato, si può pensare la migrazione come un evento biografico personale, che interseca e connette in un momento storico preciso almeno due, ma ormai sempre di più tre, contesti sociali e culturali diversi: quello di origine e quello di destinazione innanzitutto, con l’aggiunta sempre più frequente dei contesti sociali di transito. Si tratta di una modalità psicosociale di concepirla. Per comprendere la persona migrante e la sua sofferenza, da questo punto di vista, è necessaria una conoscenza storica e sociologica di questi contesti, presi in sé e nella loro interconnessione storicamente determinata. Tutto ciò è già esemplificato da quanto descritto a proposito delle dinamiche linguistiche in corso di migrazione, ma può essere ulteriormente specificato mettendo in evidenza alcuni fenomeni e processi.

Ad esempio, l’evento migratorio può creare uno sfasamento transgenerazionale rispetto ai processi di filiazione, discendenza e affiliazione (3). Le elaborazioni dei figli rispetto a questi processi che ne definiscono il posto nel mondo possono essere disallineate rispetto a quelle dei genitori e questo sfasamento può presentarsi come temporaneo (ad esempio in fase evolutiva: ne è un esempio il romanzo familiare freudiano) oppure a tempo indeterminato (come nelle derive psicotiche o per effetto delle trasformazioni identitarie prodotte dai processi acculturativi). G. è un ragazzo diciassettenne nato e cresciuto in Italia da genitori originari di un paese del Medio Oriente. Il padre è arrivato in Italia da giovane, troncando i rapporti con la propria famiglia, conducendo una vita “all’occidentale” ed arrivando a conseguire buoni successi economici. Dopo alcune relazioni con donne europee, ha però deciso di sposarsi e costruire una famiglia andando a cercare una moglie nel proprio paese. Pur provenendo da una famiglia umile, l’esperienza migratoria di successo gli consente di puntare in alto e di trovare una giovane donna di famiglia borghese. Quest’ultima è colpita dall’uomo che appare “moderno” e benestante e decide di seguirlo, celandogli però un segreto: l’arresto e l’incarcerazione per appartenenza a gruppi progressisti di opposizione al regime del suo paese. Durante l’arresto, di circa un anno, ha subito un processo di “rieducazione” religiosa ed una volta rimessa in libertà non ha più potuto continuare gli studi universitari. Entrambi presentano forti ambivalenze rispetto al mondo (religioso, politico, valoriale…) di provenienza ma anche aspettative reciproche mal riposte. La loro relazione si presenta presto come problematica e carica di violenza verbale e agita. La donna ha fatto anche alcuni tentativi di separarsi dal marito, rivolgendosi ad associazioni di protezione delle donne maltrattate, senza però riuscire a staccarsi. Quando arrivano ai servizi pubblici, conducono una vita da separati in casa ed il loro figlio maggiore, G., tiranneggia in famiglia senza che loro riescano a contenerne la furia, mentre si presenta del tutto adeguato – almeno dal punto di vista del comportamento – all’esterno (a scuola, all’oratorio dove svolge una funzione di “educatore” rispetto ai bambini più piccoli, con i pochi amici). I genitori, impauriti dal figlio, hanno cercato aiuto non riuscendo più a gestire autonomamente la situazione. Relativamente alle questioni della discendenza e della filiazione, la situazione che emerge è la seguente. G., poco più che pubere, ha deciso di convertirsi al cattolicesimo e poi convinto, ovvero obbligato, il padre a modificare lievemente il cognome in modo da italianizzarlo, in un percorso di progressivo diniego delle proprie origini. Sempre più ha portato avanti una divaricazione fra esterno e interno familiare: adeguato e responsabile nel primo caso, ma con deludenti risultati scolastici; despota nel secondo. G., infatti, ha sostituito il precedente regime familiare segnato da un padre violento, con un altro dove è lui questa volta a dettare legge. Pretende – riuscendoci quasi sempre – di controllare i confini della casa, selezionando gli estranei che possono varcarne la soglia; pretende di accedere liberamente alle finanze familiari, dilapidando fino ad un punto critico le risorse disponibili; pretende dai genitori – e poi anche dai Servizi – che venga posto rimedio agli insuccessi scolastici, scongiurando l’inevitabile bocciatura. Soprattutto, ribalta il rapporto di filiazione, arrivando ad emettere punizioni e ammende nei confronti dei genitori per “errori” che avrebbero commesso, al fine di educarli.

La migrazione può confrontare inaspettatamente i terapeuti anche con sfasamenti dei processi di filiazione all’interno del sistema familiare per effetto di unioni avvenute lontano dal controllo familiare o per processi di conversione religiosa. È quello che può succedere nel caso in cui i genitori appartengano a sistemi di filiazione e discendenza diversi: in particolare nei casi in cui si crea una contrapposizione irrisolvibile fra filiazione matrilineare e patrilineare. In questi casi, il figlio rimane senza appartenenza rivendicabile e in ogni momento espellibile qualora non siano presenti o vengano a mancare rapporti affettivi capaci di assicurare protezione. Può anche succedere in alcuni contesti culturali, che la situazione insostenibile sia risolta con un escamotage non privo di rischi. Ad esempio, un padre – privo della genitorialità riconosciuta – può decidere di acquistare (letteralmente) il bambino dalla controparte materna. In questo modo istituisce un legame di proprietà col figlio che garantisce a quest’ultimo protezione, ma che lo espone al rischio di diventare mera proprietà degli eredi (cioè loro schiavo) nel caso di una sua morte. S. è un minore straniero non accompagnato proveniente dal Ghana. È il figlio, concepito fuori dal matrimonio, di una donna musulmana appartenente ad un gruppo patrilineare e di un uomo cristiano di un gruppo matrilineare. La sua vita, fino a quando ha deciso di fuggire in Europa, è contraddistinta dall’impossibilità di essere inscritto in una linea di discendenza e da ripetute estromissioni dai gruppi familiari genitoriali. Prima fugge dal padre – che dopo la nascita l’ha voluto con sé – e dalla sua nuova moglie, poiché è, o si sente, maltrattato. Arriva dalla madre da cui viene accolto, ma un successivo matrimonio di quest’ultima, fa sì che venga affidato ad una zia materna rimasta vedova. Dopo la morte della madre, tuttavia, uno zio paterno lo butta fuori di casa. In questo caso, i genitori contraddicono le norme di filiazione e discendenza dei rispettivi gruppi di origine, per affetto (madre) o per logica religiosa (padre), volendo il figlio con sé. La convivenza però è problematica e conflittuale e comunque alla fine i sistemi familiari spingono alla fuga o cacciano direttamente il ragazzo, poiché non ne riconoscono l’appartenenza alla loro discendenza.

In questo caso, la migrazione presenta al terapeuta un problema di filiazione già nato nel paese di origine, cosa che spesso è connessa a processi migratori interni, conversioni religiose o all’avanzare dell’influenza statale nella vita quotidiana delle persone (ad esempio, tramite le registrazioni anagrafiche). D’altra parte, possono essere i processi migratori e le interazioni storicamente specifiche fra luoghi dell’origine e luoghi di arrivo a mettere sotto stress gli usuali sistemi di filiazione. È questo il caso dei cosiddetti left behind children o satellite children: bambini di origine cinese rinviati in patria, più o meno precocemente, dopo la nascita, affidati a altri familiari (nonni, zie, ecc.), in modo diretto o indiretto (allocazioni in collegi con rientri più o meno frequenti presso i parenti). Tutti gli operatori dei Servizi di salute mentale conoscono gli effetti a breve e lungo termine di queste separazioni sul sistema di attaccamento, così come il contraccolpo subito successivamente ai ricongiungimenti in età scolare, quando il minore ancora infante oppure pubere deve sperimentare una nuova perdita affettiva (rispetto ai parenti che si erano occupati di lui, anche solo nei giorni festivi) e reinserirsi in una famiglia in cui possono incontrare fratelli o sorelle sconosciuti o dove trovano figure genitoriali tali solo nominalmente, ma verso cui non nutrono un’affettività filiale. Spesso questa strategia migratoria è stata criticata, gettando biasimo su genitori visti come attori dell’induzione traumatica, perché negligenti, disattenti, ovvero asserviti alle logiche economiche. È però possibile allargare lo sguardo ai contesti e non solo a quello di accoglienza. Questo allargamento prospettico permette ad esempio di notare situazioni di sfruttamento lavorativo in condizioni alloggiative che difficilmente potrebbero garantire un accudimento genitoriale adeguato. D’altra parte, anche questa spiegazione appare limitata. Se si proietta lo sguardo verso i contesti di provenienza, si può notare la rilevanza di concezioni e modelli organizzativi non focalizzati esclusivamente sulla famiglia nucleare e constatare la pregnanza di una visione allargata che include pienamente la generazione ascendente bilaterale (nonni e nonne materne e paterne) così come affini e collaterali. Ancora di più, si può notare come la suddetta strategia migratoria sia sostenuta dallo stato cinese, con uffici governativi preposti e scuole per i figli dei migranti in patria e all’estero (11; 12). La debolezza dei processi di filiazione in terra straniera crea un rischio di indebolimento dell’inscrizione per via genitoriale del bambino in una discendenza e in una cultura. L’astenia affiliativa può essere ulteriormente fiaccata da un’eventuale delega dell’accudimento e della socializzazione ad agenzie straniere (pubbliche o private, formali o informali). L’azione statale può allora essere concettualizzata come una strategia trascendente che vicaria la debolezza delle funzioni genitoriali indotta dalla migrazione e che anzi ne prende il posto. Essa infatti agisce nel senso di: connettere direttamente il bambino alle generazioni precedenti (nonni) o comunque alla famiglia allargata; affiliarlo a reti sociali e istituzionali nazionali; inscriverlo pienamente – in misura tanto maggiore quanto più precoce è l’età – nella cultura e nella lingua di origine.

Quella delineata per i bambini cinesi rimandati in patria in tenera età sembra essere la situazione esattamente opposta rispetto a quella che Salvatore Inglese (13) osserva rispetto ai MSNA provenienti dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. In questi casi infatti, secondo questo autore, le famiglie e più in generale i gruppi sociali di origine non riescono ad esercitare o rinunciano alla propria funzione pedagogica, ovvero viene rifiutata da coloro che ne dovrebbero essere i destinatari naturali. Pertanto tale funzione viene delegata a società e gruppi umani che non hanno generato quelle creature. Questi gruppi umani stranieri vengono pertanto a svolgere un ruolo acculturativo a fronte di processi inculturativi interrotti, falliti o comunque difettuali. Si tratterebbe di una sorta di riproposizione a parti invertite del prototipo storico dei giannizzeri (nota 2) (cfr., 14). In questo caso però non è il potere centrale ottomano a prelevare i virgulti delle famiglie in tutti i luoghi remoti dell’impero per farne propri funzionari di governo e militari, ma sono direttamente le famiglie che inviano (con attitudine supportiva o espulsiva) le loro creature, delegando alla società accogliente la funzione di farli arrivare alla piena maturità sociale, permettendo loro di uscire da una condizione di attesa indefinita della possibilità di conquistare la propria personalità sociale, ovvero semplicemente di assicurarne l’esistenza. In effetti, si possono allo stato attuale identificare almeno due tipologie di minori che subiscono o che ricercano una tale sorte:

  • in primo luogo, ci sono quei minori che altrimenti non riuscirebbero a uscire da quella condizione che in antropologia culturale viene definita waithood: cioè la condizione di cadetto a vita impossibilitato ad avere una propria autonomia economica, incapace di uscire da una posizione di dipendenza e di controllo da genitori o fratelli maggiori e di farsi una propria famiglia (cfr., 16). In questo caso, si tratterebbe di una strategia frutto di un’intelligenza diffusa e immanente (e non trascendente come quella messa in atto dallo stato cinese) contro la condizione sociale di colui che deve attendere all’infinito la possibilità di accedere allo status di adulto;
  • in secondo luogo, ci sono quei minori che presentano condizioni “ontologiche” a cui il contesto sociale non riesce a dare una risposta contenitiva o che direttamente espelle poiché non ne riconosce la natura o rimane siderato e inorridito dalla metamorfosi identitaria che in essi riconosce: bambino-soldato, bambino-stregone o bambino-malvagio (es., i microbes di Abidjan - Nota 3).

Il minore straniero non accompagnato (MSNA) sarebbe, da questo punto di vista, un essere umano non solo biologicamente immaturo ma anche etnicamente incompleto per lo stato di più o meno parziale deculturazione derivante all’incompiutezza o dal fallimento del processo inculturativo. Questo essere umano immaturo dal punto di vista biologico, psichico e culturale viene esposto – durante il viaggio migratorio – a situazioni stressanti e traumatiche rispetto alle quali non possiede gli strumenti corporei, psichici o culturali per difendersene, gestirle o elaborarle. La sua immaturità infatti lo priva della minima forza necessaria. Al contempo, il connubio fra l’interruzione/fallimento del processo di inculturazione e l’allontanamento/espulsione dal mondo di appartenenza lo priva dei contenitori psichici e culturali che ne assicurano un equilibrato sviluppo e ne sorreggono le capacità di difesa rispetto ad eventi nocivi, quando non inauditi. Giunti da noi incontrano un sistema di accoglienza che agisce un’opera acculturativa serrata, spesso senza ascolto e riconoscimento delle tracce della cultura di origine, né delle istanze che dal minore provengono: necessità di acquisizione di risorse materiali e immateriali, di acquisizione di ruoli sociali riconosciuti nel contesto di origine, ecc. Rispetto a queste istanze acculturative possono mettersi in atto tutti i possibili processi di antagonismo acculturativo già messi in evidenza da Devereux (mimetismo, differenzialismo ostentativo e oppositivo, regressioni verso l’utilizzo di elementi culturali originari desueti e abbandonati da tempo, ecc.).


Risvolti metodologici del contatto culturale indotto dalla migrazione

Da un’altra prospettiva, quella etnopsichiatrica, si può pensare la migrazione come un evento che pone in contatto culture e, per quanto ci riguarda, visioni della persona, della malattia, della cura.

Da questo punto di vista, l’etnopsichiatria spinge a interrogarci sulla natura dei ragazzi che incontriamo, dal punto di vista dei loro mondi di provenienza, mettendo in evidenza la possibilità di incontrare figure cliniche in esse previste e descritte: come ad esempio quella dei bambini nit ku bon in Senegal (20; 21), degli abiku tra gli yoruba (22) o degli ogbanje tra gli Ibo e degli emere sempre tra gli yoruba (23). Si tratta di bambini che presentano, in virtù delle specifiche modalità di concepimento, una natura particolare riconoscibile da una serie abbastanza definita di segni, sintomi e modalità interattive. Tale natura problematica, a seconda dei casi, conferisce specifiche capacità (come ad esempio, quella di poter decidere se restare tra gli umani oppure di “ripartire”; oppure una peculiare capacità di “visione” e “conoscenza”), determina peculiari rischi (sventure economiche per la famiglia, ecc.) ed attiva specifiche modalità interattive da parte dei genitori e dell’entourage familiare (trattare il bambino con il rispetto dovuto ad un anziano, ecc.).

La clinica transculturale intercetta nella sua operatività quotidiana simili singolarità previste. B. è un adolescente proveniente da un paese dell’Africa occidentale, inviato dagli operatori di una struttura di accoglienza per minori non accompagnati a causa di alcune “stranezze” nel suo comportamento, per altro non meglio specificate. Durante i primi quattro incontri, B. non fa altro che ripetere in modo reiterato, quasi perseverante, una serie di dubbi ossessivi che lo colgono nel corso della giornata, precipitandolo in uno stato di paura: “quell’uomo che ho incrociato prima, avrà girato a destra oppure a sinistra?”, “come mai il cellulare prima era poggiato qua ed ora è poggiato in quest’altro posto?”. Questo tipo di domande hanno cominciato improvvisamente ad assediare le sue giornate da alcuni mesi e stanno ora sistematicamente riempiendo la relazione, generando nello psicoterapeuta una profonda noia e un desiderio impellente di chiudere prima possibile ogni incontro. Proprio questa reazione controtransferale inconsueta introduce il dubbio che il funzionamento ossessivo rinvii ad un problema più fondamentale nel rapporto del ragazzo con la realtà esterna. La svolta – almeno nella comprensione della situazione e nell’istaurazione di una relazione maggiormente significativa per entrambi – avviene grazie all’introduzione della lingua matrice (al posto dell’utilizzo di una lingua veicolare) e del passaggio da una focalizzazione sul sintomo a una sul mondo di provenienza. Emerge così come B. sia venuto al mondo dopo una serie di parti della madre a cui erano puntualmente seguite le morti dei figli. Alla sua nascita, la famiglia convocò un anziano guaritore che – fra le altre cose –procedette a dare un nuovo nome al bambino, il cui significato può essere restituito dalla traduzione “io ti ho conosciuto”. Ciò che è emerso, cioè, è che B. è stato riconosciuto (diagnosticato) come appartenente ad una speciale categoria di bambini (tipo nit ku bon). La diagnosi ha portato all’attivazione delle specifiche terapie previste che, tra le altre cose, hanno determinato il conferimento di un nuovo nome usato all’interno delle relazioni familiari e introdotto uno specifico stile interattivo nei suoi confronti da parte di genitori, fratelli e familiari. La migrazione attraverso il deserto ed il mare, sorta di ordalia generalizzata cui si sottopongono i migranti, ha esposto B. ad un nuovo contesto sociale, ignaro della sua natura e predisposto ad altre modalità relazionali. Tutto ciò sembra aver comportato l’emersione psicopatologica sopra descritta. Il nuovo riconoscimento nell’ambito dell’interazione clinica, l’attivazione distale della famiglia per la messa in atto di strategie protettive e terapeutiche, fra le altre cose, hanno permesso a B. di riprendere il suo percorso, facendo rientrare quella perplessità di fronte al mondo più sopra descritta.

Seguendo questa logica interpretativa e interattiva con l’altro, l’etnopsichiatria preconizza l’incontro con tutta una serie di tipologie di bambini e adolescenti rispetto ai quali si pone la necessità di affilare gli strumenti diagnostici e terapeutici, oltre che educativi (24). La clinica transculturale, in effetti, incontra le divergenze già previste dalle coerenze culturali, ma anche tutta una serie di singolarità del tutto impreviste: allontanamenti e scostamenti individuali da quelle coerenze culturali e punti di crisi dei sistemi familiari prodottisi in conseguenza di specifici processi interni a quegli individui e a quelle famiglie, ovvero per una pluralità di fattori esterni (migrazioni, conversioni, trasformazione delle concezioni culturali, disorganizzazione o collasso dei sistemi familiari e sociali per effetto di processi economici o politico-militari, ecc.).


Note

Nota 1: Per un approfondimento del concetto di lingua matrice in alternativa a quello di lingua madre si veda il saggio di Casadei, Festi e Inglese (4) in cui la proposta è stata avanzata per la prima volta.

Nota 2: Una particolare istituzione dell’impero Ottomano è quella denominata devşirme, parola turca traducibile come “la Raccolta” e che in sostanza indica il “tributo dei bambini” (14). Si tratta di una pratica di estrazione forzosa di bambini, che si svolgeva ogni quattro o cinque anni nei villaggi cristiani dei Balcani dal Quattrocento fino al Seicento e che aveva lo scopo di rifornire di manovalanza l’esercito e l’apparato di governo ottomani. Inizialmente bambini di dieci o dodici anni e col tempo giovani di diciassette o diciotto venivano prelevati a forza e traumaticamente dalle loro famiglie e mandati in Turchia definitivamente per entrare a servizio del sultano. Diventavano, di fatto, schiavi del sultano che aveva un diritto di vita e di morte su di loro, ma si trattava di una condizione non infamante e che a volte poteva condurre a grandi carriere. La maggior parte di loro veniva mandata per alcuni anni a lavorare presso famiglie contadine dell’Anatolia, mentre una parte – formata da coloro che venivano ritenuti più forti e/o intelligenti – rimaneva a servizio nel palazzo imperiale dove il sultano aveva modo di osservarli nella crescita e di conoscerli personalmente. Coloro che erano maturati nella campagna anatolica veniva poi inseriti come giannizzeri (il corpo militare del sultano). Quelli cresciuti a palazzo diventavano normalmente cavalleggeri della guardia del sultano, ma coloro che si dimostravano più meritevoli e degni di fiducia accedevano alle più alte cariche (comandante dei giannizzeri, oppure della flotta o anche membri del governo – visir – e persino primi ministri – gran visir). Per gran parte della sua storia l’impero Ottomano, che rappresentò per secoli la minaccia musulmana per l’Europa cristiana, fu governato e comandato da persone che provenivano da villaggi cristiani. Ormai divenuto un centro di potere e privilegio capace di opporsi al volere dei sultani e anche un peso economico gravoso non più funzionale e adeguato ai contesti di guerra e agli sviluppi coevi della tecnologia e dell’organizzazione militare avvenuti in Europa, il corpo dei giannizzeri fu sciolto dal sultano Mahmud II il 15 giugno del 1826 con una mossa che portò allo sterminio di molti membri della milizia e di quasi tutti i loro capi (15). La comparazione con alcuni fenomeni migratori attuali deve ovviamente tenere conto anche di una decisiva differenza. Nel caso dei giannizzeri, i figli delle famiglie cristiane dei Balcani venivano estratti a forza e immessi in un percorso acculturativo funzionale al potere imperiale allogeno. Al contrario, nel caso odierno della migrazione di minori, sono questi ultimi che si consegnano a società allogene dove vengono messi in atto processi acculturativi, ovvero sono le loro stesse famiglie che li inviano.

Nota 3: Con il termine microbes vengono definite le bande infanto-giovanili che hanno terrorizzato la popolazione di alcuni quartieri di Abidjan – in particolare quello di Abobo – a partire dal 2012. Il fenomeno sociale è durato in modo intensivo fino almeno al 2017, ma ancora oggi non è sparito e in forme meno organizzate sono presenti bande che continuano a operare in alcune zone della capitale economica ivoriana. Si tratta di bande che presentano alcune caratteristiche precipue relativamente a: la composizione (giovani di entrambi i sessi dai 10 ai 20 anni che in genere provengono dalla stessa zona e che pertanto sono cresciuti insieme sviluppando un forte senso di unione e appartenenza reciproca, anche in forza di un processo di espulsione o di marginalizzazione dal tessuto familiare e sociale: spesso sono orfani o figli di nuclei monoparentali – per lo più materni – che non hanno potuto frequentare la scuola o ne sono stati allontanati. Queste bande per altro sembra abbiano avuto origine con i bambini soldato arruolati dalle milizie ribelli contro l’esercito regolare, nella guerra che ha interessato il paese fra il 2010 e il 2011); il modus operandi (in gruppi da 4 a 20 membri assaltano una strada con armi bianche – coltelli, machete, ecc. – e sotto effetto di sostanze, colpendo con estrema e fatale violenza chi si para dinnanzi o non riesce a fuggire e prendendo i soldi e le merci che riescono ad arraffare per poi fuggire via rapidamente); i processi di riproduzione sociale (nuovi giovanissimi membri vengono inseriti nel gruppo, attraverso un processo di affiliazione che prevede quasi invariabilmente l’acquisizione di oggetti magico-religiosi di protezione e attacco – gris-gris – la partecipazione e il compimento di azioni criminali e, più in generale – l’apprendimento di un gergo intragruppo) (17; 18; 19).


Bibliografia

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3) Zorzetto S. Il posto dei bambini. Divagazioni etnopsichiatriche sui dilemmi relativi ai figli nel contatto fra culture. In Zorzetto S (a cura di). Richiedenti asilo e rifugiati fra clinica e territorio. Il Progetto SPRINT – Sistema di protezione interdisciplinare per la salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati. Paderno Dugnano (MI): Edizioni Colibrì; 2019: 235-247

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13) Inglese S. EXODOS. Psicopatologia geoclinica e Salute mentale globale. In Mamone M, Zorzetto S (a cura di). Comunità dialoganti e sistemi clinici inclusivi. Esperienze di etnopsichiatria con il progetto FAMI SPRINT 2 della Regione Toscana. Milano: Edizioni Colibrì; 2025: 23-38

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18) Akindès F. Understanding Côte d’Ivoire’s “Microbes”: the political economy of a youth gang. In Salahub JE, Gottsbacher M, de Boer J (edited). Social Theory of Urban Violence in the Global South. Toward Safe and Inclusive Cities. Londono and New York: Routledge; 2018: 161-181

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21) Rabain J. L’enfant nit ku bon au sevrage: histoire de Thilao. In Nathan T et collectif. L’enfant ancêtre. Paris: La Pensée Sauvage; 2000: 93-113

22) Nathan T, Hounkpatin L. La guérison Yoruba. Paris: Editions Odile Jacob; 1998

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24) Inglese I. L’infanzia sospesa tra almeno due mondi. Un contributo etnopsichiatrico alla psicopedagogia transculturale. In Atti XV Convegno Nazionale “Le culture dell’infanzia”. Azzano San Paolo: Edizioni Junior; 2006: 99-111