I pazienti ci aiutano a comprendere la loro malattia: dall’esperienza vissuta alle buone pratiche
Autori
(1) Esperti per esperienza
(2) Psichiatra SPT Ferrara
(3) Institute of Psychiatry, Department of Neuroscience and Rehabilitation, University of Ferrara, Italy
(4) Referente DAISMDP di Ferrara rete regionale ESP
(5) Direttore UOC Ovest DAISMDP Ferrara
Ricevuto il 07 agosto 2024; accettato il 31 agosto 2024
Riassunto
Il presente articolo vuole dimostrare come una serie significative testimonianze di un gruppo di pazienti esperti per esperienza di Ferrara, supportati e incoraggiati da alcuni professionisti, possono essere riconvertite in buone pratiche da applicare nei servizi di salute. Alcune di esse sono basate su prove di efficacia, altre sono in cerca di evidenza, altre sono semplicemente molto apprezzate dai pazienti e dai familiari, perché rispondono non tanto ai bisogni clinici (riduzione dei sintomi, aderenza al trattamento), ma ad aspetti relativi al benessere personale e alla qualità di vita. Di seguito, gli approcci virtuosi sperimentati dai cinque pazienti esperti nel percorso di cura e che hanno fatto per loro la differenza, incidendo in modo determinante sulla loro recovery, saranno riconvertiti in specifiche metodologie di intervento che, a parere di scrive, dovrebbero informare la prassi di tutti coloro che lavorano nella Psichiatria di Comunità. Ovviamente, non si ha la presunzione di esaurire in questo articolo tutte le buone pratiche adottate negli ultimi decenni, ma solo di avvalersi della valutazione della qualità percepita da parte di chi riceve i servizi, come conferma di quello che dovrebbe essere un’organizzazione psichiatrica moderna e, soprattutto, rispondente ai bisogni di coloro che ne usufruiscono.
Summary
This article aims to demonstrate how a series of significant testimonies from a group of patients with lived experience of mental illness, supported and encouraged by some professionals, can be converted into good practices, to be applied in mental health services. Some of them are evidence-based, others are in search of evidence, and others are simply highly appreciated by patients and relatives because they respond not so much to clinical needs (reduction of symptoms, treatment adherence) but to aspects related to personal well-being and quality of life. In the following, the virtuous approaches highlighted by the five users in the treatment pathway, and which have made a difference for them, decisively affecting their recovery, will be reconverted into specific intervention methodologies, which, in the opinion of writers, should inform the practice of all those working in Community Psychiatry. There is no presumption to exhaust in this article all the good practices adopted in recent decades, but only to make use of the evaluation of the quality perceived by those who receive services, as a confirmation of what a modern psychiatric organization should be and, above all, responsive to the needs of those who use it.
Testimonianze di pazienti esperti
SONIA
Durante il mio intervento nel Master di II livello anno 2023, ho parlato di come i servizi di salute mentale pubblici fossero prima a me “enti sconosciuti”, ma poi, nel momento di acuzie della malattia, come siano stati invece efficaci ed efficienti nell'aiutarmi nel mio percorso di recovery.
Ho spiegato come inizialmente solo il ricovero in un reparto apposito e la farmacologia corretta mi abbiano permesso di riprendere il filo dei miei pensieri, che si erano disconnessi dal mondo reale, facendomi vedere solo il buio più buio che avessi mai provato.
Successivamente, ho usufruito di una serie di servizi: abitare supportato in un Gruppo Appartamento di una frazione del mio comune di residenza, frequenza in un Centro Diurno con partecipazione ad alcuni gruppi interattivi, come il gruppo giornale il giovedì mattina, per finire con l'inserimento lavorativo, dopo 5 anni dalla richiesta, presso la ditta Scacco Matto del Dott. Wladimir Fezza, che si è rivelato poi il percorso corretto che mi ha restituito dignità e autostima e permesso di essere assunta a tempo indeterminato per lo svolgimento di mansioni amministrativo/contabili.
Durante il mio percorso, le azioni e le caratteristiche che, secondo me, definivano un operatore della salute mentale come efficace ed efficiente erano diverse, a partire dal necessario supporto alla ripresa della capacità diproblem solving che io non avevo più, dall'empatia nel rapportarsi con me come persona, che ha affrontato situazioni personali difficili e le ha superate anche grazie al suo sapere professionale, e da una forte conoscenza del territorio in cui si opera e delle sue caratteristiche socio-demografiche. Insomma, una guida nelle attività del quotidiano, anche le più semplici, che, in momenti di gravi scompensi, risultano assai difficoltose se affrontate da soli, rischiando anche di divenire paralizzanti. Queste sono le sensazioni e le emozioni che mi appartenevano in quel periodo così duro della mia malattia, in cui lo stigma interno era anche superiore allo stigma esterno, per me molto sentito ad ogni modo. Solo piccole azioni di operatori particolarmente illuminati, unitamente alla mia osservazione silenziosa del nuovo mondo che mi stava circondando, mi hanno permesso di vincere tutte le mie resistenze nel definirmi un utente psichiatrica e nel riprendere dal punto in cui tutto si era interrotto, per fare leva sul mio empowerment, fino a far divenire il mio punto di debolezza il mio punto di forza.
Ora le tante sigle, le tante funzioni e i tanti ruoli sono da me compresi e conosciuti. Ma prima era tutto un mondo nuovo, diverso, che non avevo mai sperimentato. Definirei così, in estrema sintesi, il mio percorso con il servizio pubblico, che continua ad assistermi nel mio territorio di residenza con interventi di colloqui individuali periodici presso il Servizio Psichiatrico Territoriale di Portomaggiore.
LAURA
Come il servizio deve presentare i farmaciSono seguita dal Servizio Psichiatrico di Ferrara da 31 anni e il modo di dare la terapia sta cambiando solo da poco. In passato, lo psichiatra prescriveva una terapia farmacologica che non si poteva discutere, anche perché non avevamo neanche le conoscenze per poterlo fare. Inoltre, i farmaci psichiatrici hanno molti effetti collaterali gravi, come l’aumento di peso, l’interruzione del ciclo mestruale, l’aumento dei valori del colesterolo e dei trigliceridi e l’induzione di una esagerata salivazione. Per esperienza personale, l’aumento di peso e la mancanza di mestruazioni mi hanno arrecato molto dolore. Già la malattia ti porta ad avere poca autostima, in più vedersi trasformare fisicamente e non poter essere madre, se si volesse decidere di esserlo, portano a sentirti uno “schifo”. In questi casi, la colpa la dai a te e non ai farmaci, perché gli effetti collaterali non li conosci bene, come un tempo, forse, non li conoscevano bene neanche i medici.
I seguenti due fattori, ossia dare una terapia farmacologica senza una trattativa tra medico e paziente e non fornire una sufficiente informazione degli effetti collaterali, rendono “ingiusto” il trattamento dal punto di vista umano del paziente. A mio parere, lo psichiatra ha il dovere di essere chiaro sui farmaci e il paziente ha il diritto di decidere insieme a lui, valutando i pro e i contro e la terapia farmacologica più indicata. Abbiamo le stesse aspettative dalla vita che hanno tutti, quindi è molto importante per noi vivere il meglio possibile anche fisicamente. Da quattro anni circa, sono in cura da uno psichiatra, che ha un metodo di dare le medicine molto all’avanguardia. Mi aumenta o mi diminuisce la terapia farmacologica e la adatta in base al periodo che sto vivendo. Per esempio, in un momento in cui mi sentivo depressa, ha preso la decisione di calare le dosi un neurolettico, invece di aumentare quelle dell’antidepressivo.
Lo psichiatra riceve un grande aiuto dalla sua equipe. È un gioco di squadra, dove ogniuno raccoglie dati per avere un quadro completo del momento in cui mi trovo. Devo dire che da quando sono seguita da queste varie figure, ho fatto dei grandi passi avanti: da essere ricoverata spessissimo per gravi ricadute psicotiche a riuscire a gestirle da casa. Sono quasi due anni che non ne ho più. E la mia terapia è decisamente calata.
La visita domiciliare
È stato fatto un progetto su di me all’inizio del lockdown. Stavo molto male e, con prepotenza, ho chiesto aiuto, facendo varie richieste per ottenere ciò che, secondo me, mi avrebbe aiutato. Hanno avuto la bravura di ascoltarmi e hanno provato a darmi quello che chiedevo. Devo dire che è servito. Così è nato il mio progetto di recovery, che comprendeva anche una visita domiciliare alla settimana da parte di una mia infermiera di riferimento, per fare insieme il corso di IMR (Illness Management and Recovery). È un manuale che ti insegna a gestire la malattia e poi riprendere in mano la propria vita. Devo dire che mi l’ho trovato molto utile a tal punto che l’ho fatto mio. Adesso mi viene naturale comportarmi come suggerisce il corso.
I suddetti appuntamenti settimanali hanno creato un rapporto costruttivo tra la mia infermiera e me. Anche se si è concluso il corso di IMR, sono continuate le visite settimanali, dove parliamo di come mi sento e, se è un brutto periodo, troviamo insieme le strategie per affrontarlo. Tale rapporto mi è molto utile per gestire i momenti “no” e prolungare quelli buoni; per questo il mio percorso di gestione della malattia è giunto ad un buon livello. Non vado ricoverata da tre anni, quando prima passavo più tempo all’SPDC che a casa.
Per mia esperienza la visita domiciliare è molto utile se inserita in un progetto di recovery, che ha vari obiettivi, ma un unico scopo, ossia quello di aiutarti nel farti riprendere la tua vita. La visita domiciliare crea un contatto costante tra il paziente e l’equipe che si occupa di lui, in modo che questa ultima sia aggiornata sul momento che egli vive, per essere più precisa negli interventi. La figura dell’operatore domiciliare deve essere ben formata, perché non basta una pacca sulla spalla, come purtroppo ancora accade, che ti fa pensare che non è un problema loro e che ti rafforza lo stigma interno. È una figura che diventa il tuo punto fermo: quando sei in difficoltà è la prima persona a cui chiedi aiuto.
L’importanza dei gruppi
Il Servizio Psichiatrico di Ferrara fornisce a noi utenti vari corsi organizzati in gruppi, che hanno il fine di aiutarci ad affrontare al meglio la malattia. Hanno una grande valenza terapeutica, certificata dal fatto che sono usati da tempo, ma hanno anche il pregio di creare un rapporto di comprensione e di vicinanza fra i partecipanti, che spesso si trasforma in autentica amicizia. I miei migliori amici sono colleghi di sventura.
Vi elenco i corsi che ci vengono proposti qui a Ferrara. Si svolgono al centro diurno “Maccacaro” e al servizio territoriale in via Ghiara.
- Gruppo Psicoeducativo
È un gruppo interattivo. Ogni seduta ha un argomento, per esempio lo stress o la depressione, che viene scelto dai partecipanti, e il conduttore, un operatore, instaura una discussione. L’obiettivo del gruppo è valorizzare le capacità presenti negli utenti. - Gruppo Cognitivo
La malattia mentale può portare alla regressione delle capacità cognitive, come l’attenzione e la memoria. In questo gruppo vengono fatti fare degli esercizi, quali la lettura di un brano e la sua ripetizione, un cruciverba o un puzzle, tutti agenti sulle attività cognitive. - Gruppo Mindfulness
Nel gruppo Mindfulness si sviluppa una relazione consapevole tra mente e corpo e si pone maggiore attenzione a ciò che ci circonda. - Gruppo Giornale
È un gruppo interattivo, dove ogni componente sceglie un articolo e lo descrive: Quest’ultimo diventa oggetto di una conversazione di gruppo. - Gruppo IMR (Illness Management & Recovery)
Attraverso la condivisione di moduli, che affrontano vari argomenti, la EBP IMR ha l’obiettivo di guidare l’utente, in modo molto personalizzato, verso la gestione della malattia e la ripresa della propria vita.
Il servizio di Ferrara ritiene che anche lo sport abbia una valenza terapeutica molto importante (mens sana in corpore sano). In questo senso le opzioni sono davvero tante: pallavolo, calcio, ginnastica dolce, camminate di gruppo, Nordic Walking, nuoto e, con il nuovo anno, anche tennis. Io ne pratico molti. Mi hanno aiutato a tenere anche al mio corpo e la cura del proprio corpo aumenta l’autostima. Anche gli sport sono organizzati in gruppi e, non dovendoci applicare cognitivamente come nei corsi, si crea un’aria di leggerezza che ci fa rapportare tra di noi con allegria. Scherziamo e ridiamo, ma se qualcuno non sta bene abbiamo imparato ad ascoltarlo e a dargli la nostra comprensione e anche qualche consiglio. Siamo molto legati e organizziamo in autonomia delle uscite. A volte, andiamo a mangiare la pizza tutti insieme.
Partecipare ai gruppi è sicuramente anche una buona palestra per imparare a rapportarsi con le persone, anche con quelle che non hanno un disturbo psichiatrico.
Vi dico una cosa che mi sta molto a cuore: gli operatori che conducono i corsi e i gruppi sportivi devono sì spronarci a partecipare, ma devono anche capire quando non riusciamo ad essere costanti per la poca voglia o per l’acuirsi del disturbo. Questo si ottiene con un buon dialogo.
Mi è capitato che gli operatori insistessero troppo perché partecipassi alle attività sportive in momenti in cui stavo male. L’ho vissuto come il tacito rimprovero di non avere voglia e volontà. Di conseguenza mi sentivo una brutta persona. È molto importante non farci sentire in colpa per il nostro disturbo, anche se sforzarsi a partecipare aiuta ad evitare e superare le ricadute.
Da un paio d’anni nel Servizio Territoriale si tiene un gruppo che aiuta ad affrontare al meglio lo stigma sociale ed individuale. È stato ideato da uno psicologo americano di nome Patrick Corrigan, che soffre di un disturbo bipolare. Il manuale originale è stato tradotto e adattato da due psichiatre che prestano il loro lavoro a Ferrara. È l’unico servizio in Italia che affronta lo stigma con questo valido metodo. Ho partecipato al gruppo stigma l’anno scorso e adesso faccio la co-conduttrice dello stesso. Credo molto in questo corso, mi ha aiutato a contrastare il mio stigma interno: era il mio nemico più grande. L’ultima lezione del manuale offre un metodo per scrivere la propria storia, che puoi decidere di leggere pubblicamente, ma anche no. Ognuno è libero di fare quello che lo fa stare meglio. Io l’ho letta al gruppo, quindi a persone che mi potevano capire. Mi ha aiutato tantissimo, è stato uno sfogo. La commozione dei partecipanti mi ha fatto piangere e mi ha fatto avere pietà di me. E ascoltando le storie degli altri, ho imparato che molti hanno vite difficili e non mi sono più sentita sola. Da quando ho letto pubblicamente la mia vita, non sento più il bisogno di essere accettata e compresa e si sono attenuati i sensi di colpa. Il motivo del mio disturbo è una vita costellata di traumi, che mi hanno messo in difficoltà. La mia malattia non dipende dal fatto che sono una cattiva persona.
L’importanza del progetto
Il mio progetto è nato durante la pandemia. Non si poteva uscire di casa e stavo malissimo per la morte di mio padre, che era il mio punto fermo. Tentavo spesso il suicidio.
Ero reduce da un trasloco. Mio fratello aveva fretta di vendere la casa dei nostri genitori, dove abitavo. Mi sono ritrovata a dover vivere da sola e i dirigenti del Servizio Psichiatrico volevano ricoverarmi in lunga degenza alla residenza di San Bartolo. Per fortuna ho conosciuto il mio attuale compagno prima della scomparsa di mio padre. Mi è sempre stato vicino seppur con tanta fatica e non ha smesso di essere presente anche nei momenti di piena crisi. Mi dice che intravvedeva chi ero ed era convinto che potevo stare molto meglio. Un alieno! E’ venuto ad abitare con me, ma nelle ora in cui lavorava ed ero in casa da sola stavo malissimo e andavo al Servizio Territoriale ad urlare aiuto. Mi ero fatta un’idea di quello di cui avevo bisogno e lo chiedevo con forza. Hanno voluto provare ad ascoltarmi e così si sono messi ad imbastire un progetto su misura per me.
Prima di tutto, visto che non riuscivo a stare in casa da sola, mi hanno fornito una badante che stava con me quattro ore al giorno. La mia infermiera di riferimento, nella visita domiciliare settimanale, mi teneva il corso di IMR. Tali misure sono state fondamentali in quel periodo tanto difficile e mi hanno aiutato ad affrontare i momenti di profonda crisi, dove pensavo al suicidio. Le visite domiciliari sono continuate anche dopo la fine del corso. Ora parliamo di come sto e troviamo insieme delle strategie per affrontare i periodi bui, anche perché con la mia infermiera mi sento telefonicamente tutti i giorni. Ha evitato che mi sentissi sola e ha fatto in modo che ci fosse qualcuno che mi accompagnava, giorno dopo giorno, nel mio percorso di recovery. Vedevo una mano tesa in fondo al tunnel. Anche l’operatrice del centro diurno Maccacaro è stata ed è importante, sostenendo la mia partecipazione ai vari gruppi sportivi. Lo sport mi aiuta ad uscire di casa, a stare in compagnia e a prendermi cura di me. Nel tempo ho visto i risultati, sia fisici che mentali, di tale attività.
Un’altra figura di grande supporto è l’amministratore di sostegno, che mi è servito per sconfiggere il mio disturbo di shopping compulsivo. L’avvocato ha lavorato in armonia con lo psichiatra e la mia infermiera e ha adottato nei miei confronti un atteggiamento di fiducia, cosa mi ha portato a riconoscere e ad accettare il suo ruolo. Anche la figura dello psicologo mi è utile per dare un posto ai miei traumi e per volermi più bene.
In ultimo c’è lo psichiatra, che si occupa di me dal punto di vista farmacologico. Nei colloqui si informa di come sto per adattare la terapia al momento che sto attraversando. Una volta al mese facciamo una riunione di verifica dove siamo tutti presenti, alla quale partecipa anche mio fratello, che, dopo aver fatto parte del gruppo per i famigliari, ha aumentato la sua comprensione nei miei confronti e vuole essere presente nella mia vita in misura maggiore che nel passato.
Il progetto è stato fondamentale per me. Mi sono sentita sostenuta e accompagnata nel mio percorso di recovery, che mi ha portato a stare sempre meglio. Da una vita dolorosa ho raggiunto un equilibrio emotivo, che mi fa pensare che posso stare bene.
La psichiatria di Ferrara è cambiata da qualche anno. È un servizio che ti considera protagonista. Ti ascolta e cerca di capire di che cosa hai bisogno, per intervenire con un progetto personalizzato e il più adeguato possibile.
Tempo fa curavano i momenti acuti con i ricoveri in ospedale e si faceva riabilitazione con attività, come il cucito o la corniceria, che non avevano una valenza scientifica. I gruppi che si fanno oggi sono più mirati alla ripresa in mano della nostra vita.
L’importanza del trauma
È importante che ci siano riconosciuti i traumi, perché, se taciuti, ti portano ad avere dei forti sensi di colpa e ti senti una persona completamente sbagliata. È qui che si deve intervenire anche con una psicoterapia. Ho avuto grandi traumi nell’infanzia che sono restati nell’inconscio. In età adulta, verso i 40 anni, spingevano per venire allo scoperto attraverso flashback, che mi facevano stare molto male. Nel tempo, essi erano più lunghi, finchè verso i 52 anni, la verità è venuta alla luce e ho dovuto fare un grande lavoro di accettazione. I traumi sono stati la causa della mia malattia. Prima il mio stare male non mi era chiaro: la depressione, le tantissime crisi psicotiche e i continui ricoveri erano riportati ad una base genetica. Prendendo coscienza del perché stavo così male, pian pianino negli anni, con l’aiuto dei professionisti e con un grande impegno personale, sono riuscita a stare meglio. Ho fatto ordine nella mente e adesso so che un giorno potrò stare bene.
Per accettare ciò che mi è successo nella vita, mi è servito molto il lavoro fatto nel gruppo stigma. Ho scritto la mia storia e l’ho letta ai partecipanti. Mi sono sentita liberata da un grosso macigno. Adesso sono pronta a parlarne anche pubblicamente. Ho fatto un percorso faticosissimo, ma molto efficace, che mi ha portato a stare sempre meglio e che vorrei condividere soprattutto con i miei pari.
CLAUDIA
Il mio nome è Claudia ho 67 anni ed ho una malattia mentale chiamata disturbo bipolare.
Fino all’insorgere della malattia ero una ragazza che frequentava quasi tutti i coetanei del paese ed ero una persona allegra, felice e socievole. Vorrei fare notare che, per noi amici, il piccolo paese di Cona (prov. di Ferrara) rappresentava (senza tutti i mezzi di comunicazione di oggi) la nostra “Home Town”, città natale e città di appartenenza. La malattia è comparsa durate il secondo anno di Università; frequentavo il corso di laurea in Scienze Naturali e al mattino seguivo le lezioni, il pomeriggio i laboratori e alla sera studiavo per l’esame di matematica, l’ultimo rimasto da superare del primo anno. Mi ammalai manifestando eccessi di rabbia, seguiti da periodi di depressione, ma all’epoca (era la fine degli anni Settanta) ero vittima del classico “esaurimento nervoso”. Per me, avevo consumato le pile, cioè non disponevo più dell’energia fisica e mentale per mantenere un ritmo così alto.
I miei genitori non erano preparati alla mia malattia, erano disorientati e quasi incapaci di aiutarmi. Per i genitori accettare che un figlio sia malato, o fisicamente o con un problema psichiatrico, è comunque un grande dolore. Hanno quasi la stessa necessità del congiunto di accettare la malattia e sperano sempre che sia un problema passeggero e che possa magari sparire da solo. Quindi devono svolgere due compiti molto gravosi: aiutare il paziente ed aiutare se stessi. Per questo, nei decenni si è sviluppata pian piano una rete di collaborazione tra psichiatri, psicologi, assistenti sociali ed infermieri, che collaborano in modo armonico anche con i familiari, con l’obiettivo comune del benessere del malato. Se i familiari si riunissero in gruppi di autoaiuto e condividessero un problema comune, potrebbero sentirsi meno soli ed anche per loro diminuirebbe il livello di stress e di difficoltà i cui si trovano. Inoltre, in tali gruppi, potrebbero essere informati e aiutati contemporaneamente al malato e portare la loro esperienza di convivenza con lui, l’effettiva testimonianza del loro disagio e tutte le avversità che affrontano ogni giorno. Sono quindi testimoni diretti e, quindi, molto preziosi. Bisogna anche tener presente, secondo me, che i familiari possono essere una concausa della malattia mentale dei figli, dei coniugi o dei fratelli, e che potrebbero influenzare notevolmente, inconsciamente o consciamente, l’insorgenza della malattia psichiatrica.
I miei genitori non erano preparati alla mia malattia, erano disorientati e quasi incapaci di aiutarmi.
L’impatto della malattia nelle famiglie può comunque essere devastante e l’esordio della malattia può essere quasi improvviso. Anche se ci sono avvisaglie, si stenta a riconoscerle. In seguito, subentrano sensi di colpa, impotenza e illusione di risolvere tutto in famiglia per il senso di vergogna. I pazienti sentono su di loro il peso delle reazioni dei familiari e le capiscono anche direi. D’altronde, se loro stessi fanno fatica, sia all’esordio che negli anni successivi, ad accettare il loro stato di persone affette da malattia psichiatrica, perché mai dovrebbero accettarlo facilmente i familiari? Se poi, paralizzati dalla paura della malattia, i familiari cercano nella loro ignoranza (senza offesa) di risolvere in famiglia il problema, sperando nell’effetto miracoloso di qualche visita da uno specialista o di qualche farmaco, avranno solo sfiorato la punta dell’iceberg senza successo. Pertanto, rivolgersi agli operatori è la scelta una scelta più assennata, anche se la più dolorosa.
Tornando alla mia storia, la mia malattia è durata la prima volta qualche mese. Poi ho ripreso l’Università abbastanza facilmente, avevo una buona memoria e quindi superai altri esami. Dopo un anno, la malattia è ricomparsa e ho dovuto sospendere ancora per 5/6 mesi gli studi. Alcuni problemi che ho dovuto affrontare sono stati lo scetticismo di coloro che mi conoscevano nella cosiddetta “vita precedente” ed anche un po’ i commenti della gente di paese, che diceva “poverina assomiglia proprio alla madre”. Vorrei spendere qualche osservazione sul modo di educare i figli da parte di mia madre e della parentela. Per mio fratello, quindi il figlio maschio, le attenzioni e gli incoraggiamenti, per una realizzazione scolastica e sociale, erano persino troppi; cioè, per lui il tifo della madre, della nonna e degli zii era quasi spropositato. Per me, gli incoraggiamenti per una realizzazione sociale, lavorativa o scolastica erano quasi nulli. Un piccolo aiuto morale l’ho avuto da mio padre, mentre il sostegno più incisivo l’ho ricevuto dal mio fidanzato, diventato poi mio marito. Mi sono comunque laureata nel 1982 in Scienze Naturali con il voto di 103/110. Mi sono sposata ed ho avuto due figli. Ho fatto la casalinga e la madre, lavori molto impegnativi e per niente retribuiti. Malgrado ciò, io avrei dovuto essere una persona fortunata, in quanto potevo gestire il mio tempo. In realtà, per almeno 15 anni o più, ciò non è corrisposto al vero, perché non avevo tempo libero da dedicare a me stessa. Le casalinghe, per chi non lo sapesse, sono quella gran massa di persone, che contribuiscono, in larga misura con il loro lavoro certosino e quotidiano, a controllare l’Entropia dell’ambiente (entropia = disordine), in senso fisico del termine, tanto che diversi anni fa, l’On. Nino Cristofori (ferrarese), molto vicino ad Andreotti, aveva proposto una pensione minima per le casalinghe, che, guarda caso, è rimasta solo una proposta.
Facendo un breve bilancio sulla mia vita mi sarebbe piaciuto avere svolto il lavoro di ricercatrice all’istituto di Zoologia dell’Università di Ferrara, sogno che, però, non si è avverato. Ho fatto altre cose, forse anche più impegnative, come crescere nel bene e nel male due figli e prendermi cura della famiglia.
Parlare di stigma autoindotto significa per me affrontare il tema dell’accettazione della malattia mentale, che ci viene diagnosticata in base ai nostri comportamenti ed al nostro modo di vivere. Che io sappia, non esiste una teoria scientifica, convalidata da accertamenti diagnostici (esami del sangue, risonanze, ecografie, etc), che ci dimostri chiaramente da cosa siamo affetti. Non abbiamo riscontri oggettivi o tecnologie avanzate per fare una diagnosi psichiatrica.
La cura della patologia psichiatrica ha una storia abbastanza recente. È solo da pochi decenni che i malati vengono assistiti da psichiatri, psicologi, infermieri e assistenti, in sintonia tra loro. Prima di ciò, i pazienti psichiatrici erano relegati in strutture isolate e separate dalla così detta società normale. Erano ghettizzati marchiati e quasi lasciati al loro destino; si riteneva che non fossero adatti a nessun tipo di vita sociale o comunitaria. Ma anche tutt’ora, si pensa che i malati mentali siano persone violente, da evitare, pericolose per se stessi e per gli altri e che non siano in grado di lavorare, studiare, farsi una famiglia o che abbiano un quoziente intellettivo inferiore alla media e che debbano per forza essere protetti e compatiti. Tutti questi luoghi comuni e preconcetti, associati alla condizione di segregazione, durata per secoli e solo da poco risolta, fa sì che il malato mentale soffra di uno stigma autoindotto quasi senza soluzione. Accettare la malattia non vuol dire rassegnarsi, ma esserne consapevoli, essere disposti a curarla e tollerarla come una qualsiasi altra malattia, a dispetto di come è stata considerata e trattata nei secoli precedenti.
Il programma Coming Out Proud, che tradotto significa rivelarsi agli altri in modo fiero e orgoglioso, è stato sviluppato da Patrick W. Corrigan, anche lui malato, e da alcuni suoi collaboratori per tentare di affrontare il problema del self stigma nella malattia mentale. Questo programma si è ispirato all’esperienza della comunità LGBTQ, che ha utilizzato il Coming Out per annunciare pubblicamente e senza vergogna il proprio orientamento sessuale.Nel programma Coming Out Proud vengono affrontati tre temi fondamentali:
- La valutazione dei costi e dei benefici del Coming Out
- I diversi livelli della rivelazione
- Il modo di raccontare la nostra storia
Partecipare ad un gruppo di persone, che condividono la stessa condizione, può fare sperimentare un minore livello di stress ed un aumento di autostima, nonché far percepire la malattia mentale come qualcosa per cui non sentirsi terribilmente imbarazzati. In questo senso, per coloro i quali vivono la malattia mentale come un aspetto centrale di ogni giorno, ciò potrebbe promuovere anche senso di autenticità, che può diventare orgoglio e generare maggiore fiducia in sé stessi e maggiore benessere.
Rapporto con gli specialisti
A volte è difficile parlare con lo psichiatra perché so che ha il potere di incidere "negativamente" sulla mia vita, anche se per il mio bene. Io poi non ho difficoltà ad aprirmi su temi delicati con uno specialista, ma, mettendomi io ad un livello di inferiorità, faccio fatica a mostrare normali emozioni negative nei suoi confronti.
Questo anche perché ho paura di compromettere il rapporto con una delle poche persone che riesce ad aiutarmi/ascoltarmi in un momento così di difficoltà. Sarebbe importante parlare anche della relazione medico-paziente e suggerirsi miglioramenti a vicenda, anche perché l'utente, il più delle volte, è travolto dalla gestione della sua routine/normalità e non gli viene in mente di pensare lucidamente a come ci si potrebbe capire meglio.
È importantissimo anche parlare dell'accettazione della malattia senza che l’utente pensi di “essere solamente i sintomi” e discutere anche del senso di colpa, che spesso lo accompagna in questo cammino.
Importanza dei gruppi e dell’esperienza nel gruppo stigma
Il gruppo stigma mi ha aiutato molto nella lotta contro il mio autostigma. Questo è stato un problema insorto fin da subito, nella misura in cui facevo fatica ad andare alla mia prima visita psichiatrica e ad accettare un aiuto maggiore. Avevo paura anche della diagnosi, che poi, invece, si è rivelata una liberazione e non una condanna. Infatti, avere avuto la conferma da uno specialista di stare passando un momento molto critico è stato liberatorio, dato che mi ha sollevato dal dover spendere sempre energie per svalorizzare/minimizzare questa mia difficoltà. Oltre allo sforzo di affrontare un momento così difficile, avevo anche tanta paura di stare meglio, perché mi sentivo un tutt'uno con il dolore che provavo da così tanto tempo.
L’esperienza di stare in gruppo con dei pari è stata molto importante e mi ha fatto sentire meno solo; infatti, era un momento di confronto privo di giudizio. Dopo questa “avventura” positiva, ho voluto sperimentarmi nel ruolo di conduttore/facilitatore, proprio consentire ad altre persone di vivere questa bella sensazione che il percorso con i pari mi aveva lasciato (per il gruppo stigma questo è possibile). Aiutare gli altri mi ha aiutato molto e così ho avuto il netto sentore che la mia esperienza poteva anche essere utile a qualcuno, facendomi allontanare dall’idea di aver sprecato parte della mia vita.
Come dovrebbe essere un bravo operatore
Un bravo operatore deve saper comunicare bene e ascoltare le necessità del paziente. Questo perché a volte, nei momenti di difficoltà, è necessario che lui prenda delle decisioni al posto nostro e che ce le spieghi in modo empatico. Infatti, nei primi anni, io non riuscivo a prendere in mano la mia situazione, ma delegavo completamente ad altri (anche se dicendolo esplicitamente, sbagliando) la gestione della mia malattia.
È un ruolo complicato, dove si deve mostrare sicurezza, ma anche umanità, e saper cambiare le proprie opinioni. Un modo di operare che ho molto apprezzato è il lavoro in equipe, perché ci si sente in una squadra dove ognuno ha il suo ruolo e si combatte per un obiettivo comune. Oltre a gestire l'utente, è importante includere nel processo di cura anche la famiglia e rispondere alle sue legittime preoccupazioni. Quando il servizio si è mosso in questi termini, sono stato alleggerito, perché la malattia mentale cambia l'intero nucleo familiare e, a mio parere, spesso il congiunto malato si sente responsabile tale “scombussolamento” e si ritiene un ulteriore peso.
Il rapporto con i farmaci
Il mio rapporto con i farmaci è stato sempre un po' particolare. Come per la prima volta in cui sono ricorso allo psichiatra, ho vissuto l'inizio della terapia farmacologica come un obbligo/imposizione dall' alto che non potevo discutere. Questo perché mi sentivo oggettivamente meglio (anche se molto disorientato) e spesso al sicuro. Piano piano, però, il mio scopo è cambiato e sono passato dall’avere l'obbiettivo di sopravvivere, dato il momento di grande difficoltà, a cercare di stare meglio, facendo un passo alla volta e creando mete più alla mia portata (ma via a via aumentando la "difficoltà") e che, gradualmente, mi facessero acquisire quella "normalità" che da tempo non provavo. Ultimamente, avendo fatto progressi, sto cercando di avere un rapporto più sano/maturo con i farmaci e con la gestione anche degli effetti collaterali, in base alle necessità che cambiano nel momento i cui mi sento meglio. Un aspetto difficile è proprio quello di valutare i pro e contro della terapia, perché la paura di stare di nuovo male è sempre presente (anche se in maniera più lieve e controllata) e, quindi, si ha qualche remora a “buttarsi per acquisire più indipendenza” o anche a ""rischiare"" un peggioramento, riducendo il dosaggio dei farmaci per alleviare gli effetti collaterali, contando su un periodo positivo. Tutto questo penso sia normale, come anche il fatto che, una volta acquisita maggiore consapevolezza si riescono ad “assaporare” meglio anche i piccoli traguardi raggiunti e a gioire delle mimme conquiste.
ALICE
con una diagnosi di anoressia restrittiva, ma poiché un servizio per DCA per minori nella mia città non c’era, mi trovai costretta ad alternare le mie cure tra il servizio DCA Bologna, quello di Ferrara e la Neuropsichiatria di Ferrara. Ricevevo continue indicazioni, che andavano a contraddire le informazioni avute in precedenza dagli altri operatori e che, invece di guidarmi verso comportamenti funzionali, generavano in me un continuo senso di confusione e smarrimento, portandomi verso un peggioramento delle mie condizioni psicofisiche.Una volta diventata maggiorenne, sono stata spostata al servizio di salute mentale dedicato agli adulti, dove il disturbo alimentare non era quasi minimamente tenuto in considerazione e dove si sospettava che potessi avere un disturbo differente. Poiché non mi fu chiesto se preferissi intraprendere un percorso piuttosto che un altro, mi sentii per l’ennesima volta obbligata a lasciarmi comandare, provando un conseguente senso di perdita di controllo che cercai fortemente di compensare in modo disfunzionale. In seguito a un ricovero, arrivò anche la conferma, attraverso la diagnosi, che avevo un disturbo del cluster b, che però mi fu comunicato in modo inadeguato e che, per oltre un anno, fu chiamato “disturbo della personalità di tipo borderline”. Questa mancanza di informazione corretta sui miei effettivi disturbi mi portò ad una difficoltà nel comprenderli e nell'accettarli.
I miei livelli d’ansia dopo un paio d’anni aumentarono, poiché nessuno mi aveva reso consapevole che la mia vita sarebbe stata resa difficile dal passaggio delle cure in un altro settore della salute mentale o che questa doppia diagnosi mi avrebbe quasi automaticamente escluso dalla possibilità di accedere a strutture specifiche per il suo trattamento, dato che la comorbilità non veniva affrontata in modo integrato, ma come due malattie separate.
Avrei preferito un confronto aperto, perché, anche se sul momento avrei potuto reagire in modo brusco, invece di ostinarmi nella ricerca di cure, che in Italia risultano spesso inaccessibili, avrei avuto almeno la possibilità di elaborare prima come sarebbe cambiata la mia vita e di mettermi il cuore in pace sul fatto che molti curanti considerino i DCA sintomi di disturbi della personalità, invece che disturbi a sé stanti che possono coesistere e che meritano un trattamento adeguato per consentirne la guarigione.
Analisi delle testimonianze
Dalle testimonianze riportate è possibile estrapolare una serie di buone pratiche applicate nei servizi di salute mentale italiani dalla chiusura degli ospedali psichiatrici ad oggi: alcune di esse sono basate su prove di efficacia, altre sono in cerca di evidenza, altre sono semplicemente molto apprezzate dai pazienti e dai familiari, perché rispondono non tanto ai bisogni clinici (riduzione dei sintomi, aderenza al trattamento, etc.), quanto ad aspetti relativi al benessere personale e alla qualità di vita. Alla descrizione degli approcci virtuosi sperimentati dai cinque pazienti “esperti”, che hanno fatto per loro la differenza, incidendo anche in modo determinante sulla loro recovery, segue la loro riconversione in specifiche metodologie di intervento, che, a parere degli scriventi, dovrebbero informare la prassi di tutti coloro che lavorano nella Psichiatria di Comunità. Ovviamente, non si ha la presunzione di esaurire in questo articolo tutte le buone pratiche adottate negli ultimi decenni, ma solo di avvalersi della valutazione della qualità percepita da parte di chi riceve i servizi, come conferma di quello che dovrebbe essere un’organizzazione psichiatrica moderna, rispondente ai bisogni di coloro che ne usufruiscono. Si è cercato non alterare più di tanto il linguaggio e le espressioni utilizzati dai pazienti, al fine di non soffocare la spontaneità e l’immediatezza delle loro testimonianze.
Per dare maggiore ordine al lavoro, la direzione che i pazienti “esperti” ci spingono a seguire è stata articolata in quattro principali macroaree di interesse:
- Setting di cura, dove viene ridefinita la vision e la mission del setting ospedaliero, utilizzato nelle fasi di acuzie psicopatologica, del setting dell’appartamento supportato, confrontato con il contesto delle residenze h24, e del setting domiciliare, come luogo di ripresa in mano della propria vita, anche attraverso l’erogazione di supporti dei professionali.
- Trattamenti e le modalità di intervento, con un focus iniziale sull’approccio centrato sulla persona, per poi sottolineare l’importanza del progetto terapeutico e degli interventi/trattamenti che esso include, tra i quali le attività riabilitative, differenziate dalle attività di intrattenimento, il Problem Solving Training, l’Illness Management and Recovery, la Psicoeducazione, i gruppi di automutuo aiuto per pazienti e familiari e gli interventi psicofarmacologici;
- Altri significativi coinvolti nel processo di recovery, con particolare riferimento sia alle principali figure professionali sia ai supporti naturali. Sono analizzate le attitudini personali che favoriscono la ripresa della persona e alcune abilità/attitudini cruciali degli operatori, quali l’empatia e la capacità di coaching. Segue una breve disamina sull’importanza dell’operatore referente, del rapporto con lo psichiatra, dell’amministratore di sostegno e delle figure professionali che lavorano in equipe, senza dimenticare la famiglia, nodo cruciale che sperimenta e condivide con il proprio caro gioie e dolori, successi e ricadute, tipici del travagliato percorso di ripresa.
- Dimensioni collegate all’identità e al senso di sé, impattate dai problemi di salute mentale e influenti sul il processo di recovery: la definizione di obiettivi personali significativi e raggiungibili, il percorso di accettazione della malattia in seguito alla formulazione della diagnosi, che spesso suscita sentimenti di colpa e di vergogna per essere un “paziente psichiatrico”, la rilevanza dello stigma interno e degli eventi traumatici e l’importanza che ha per i pazienti il coinvolgimento della propria famiglia nel loro trattamento.
Setting di cura
Il ricovero “contenitivo” e “riorganizzatore”
La testimonianza di Sonia ci porta a ridefinire il ricovero in reparto psichiatrico come “contenitivo” e “riorganizzatore”, e non solo come “estintore dell’incendio psicopatologico”. Se, infatti, lo scompenso acuto porta alla percezione caotica e frantumata della propria esistenza, dove il rischio maggiore è quello di perdere di vista la traiettoria del percorso iniziato e le mete stabilite, diventa più che mai importante mantenere viva nel paziente la prospettiva futura, riconducendolo a vivere l’episodio critico non unicamente come un peggioramento della malattia, ma anche come un passaggio che non comporta la perdita delle attese stabilite, ma piuttosto un loro riadattamento ad alcune modificazioni del programma di cura.
In questo senso, orientare alla recovery e all’evidenza un setting di ricovero significa superare il mandato attribuito tradizionalmente ai reparti psichiatrici che consistente nel:
- Controllare le persone
- Tutelare, sostituendosi ad esse nelle decisioni per evitare esposizioni ad errori o a comportamenti rischiosi
- Limitare l’autonomia fino al miglioramento clinico
- Non chiedere esplicitamente il loro parere sugli interventi da attuare
- Non coinvolgere i pazienti e i familiari nella cura
- Adottare regole uguali per tutti
- Avere un approccio di trattamento quasi esclusivamente basato sui farmaci
Tale mandato è in contraddizione con tutte le più recenti acquisizioni scientifiche, nonché fortemente demotivante per i professionisti, dati anche i limiti dei trattamenti farmacologici, i quali, se utilizzati come unica strategia di cura, non aiutano i pazienti nel:
- Acquisire consapevolezza delle motivazioni connesse all’insorgenza della crisi
- Migliorare le capacità di interazione con l’ambiente di vita
- Sviluppare una progettualità per la propria vita dopo la dimissione
Il ricovero non dovrebbe essere inteso come un episodio a sé stante, ma come una fase del percorso terapeutico, così come il trattamento della fase critica in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi E Cura) non dovrebbe favorire solo la riduzione della sofferenza personale e la remissione sintomatologica, ma piuttosto mettere il paziente nella condizione di recuperare la propria autodeterminazione, attraverso l’attuazione di interventi flessibili e personalizzati, rispettosi dei specifici bisogni e il più possibile lontani da modelli coercitivi. Questo perché una degenza ospedaliera non deve essere vissuta come un fallimento, né come una battuta di arresto, ma come una “eventualità” nella vita delle persone affette da malattie mentali; pertanto, non deve rappresentare la fine delle speranze o la rinuncia alla possibilità di ripresa.
È importante che l’équipe del SPDC consideri il paziente sempre come soggetto attivo nel suo percorso di cura, anche se temporaneamente collocato in un posto letto, e cerchi di instaurare con lui un rapporto di partnership, che non lo infantilizzi, non lo svilisca (“prendi le goccine” o dare del “tu” in modo indistinto e senza concordarlo) e non lo invalidi nelle piccole scelte e negli atti quotidiani. Inoltre, poiché la crisi è un momento transitorio nel percorso di trattamento, durante la degenza andrebbero individuati i fattori di stress scatenanti e andrebbe normalizzata/elaborata l’esperienza traumatica indotta dal ricovero, ancor di più se quest’ultimo è obbligatorio.
Concludendo, la stabilizzazione sintomatologica non è più l’unico scopo di un ricovero psichiatrico: il recupero di un minimo di autodeterminazione, la consapevolezza dei fattori scatenanti la ricaduta, la responsabilità dei propri comportamenti, il mantenimento delle abilità acquisite e l’apprendimento di nuove, la ripresa di una prospettiva e l’incoraggiamento a perseguire gli obiettivi personali sono aspetti altrettanto importanti anche nella fase di maggiore regressione e disorganizzazione, quale quella dello scompenso acuto.
Il modello dell’appartamento supportato e la recovery
È ancora Sonia che sottolinea l’efficacia del modello dell’appartamento supportato per la recovery delle persone con problemi di salute mentale. Gli appartamenti supportati fanno parte del modello riabilitativo degli Ambienti Supportati, i quali hanno le seguenti caratteristiche (Farkas, 1990; Drake, 2001):
- Sono collocati all’interno della comunità (scuole, posti di lavoro, abitazioni normali) e i ruoli che vi si svolgono devono essere rispondenti alle regole sociali correnti;
- I pazienti sono accolti non per pietà o per paternalismo, ma per il ruolo che hanno deciso di svolgervi e che è a loro richiesto;
- Sono erogati supporti flessibili e continui nell’ambiente reale per periodi non inferiori a 18 mesi;
- Il monitoraggio della performance del paziente ha un ruolo centrale;
- I pazienti sono incoraggiati a frequentare i gruppi di supporto per la risoluzione delle problematiche incontrate;
- La collocazione nell’ambiente si attua in tempi relativamente brevi e gli interventi di supporto e di insegnamento delle abilità sono attuati solo successivamente alla collocazione lavorativa, abitativa o scolastica;
- Il modello degli ambienti supportati non costringe ad evolvere gradualmente secondo un continuum dove devono aumentare il proprio livello di funzionamento per accedere ad un altro ambiente;
- La collocazione rispecchia le preferenze della persona.
Per i pazienti, gli appartamenti supportati rappresentano una residenzialità maggiormente orientata alla recovery, dal momento che sono “normali” abitazioni collocate in contesti urbani, dove il supporto degli operatori è funzionale all’acquisizione e all’esercizio delle abilità di vita quotidiana e di convivenza. Rappresentano, quindi, un setting ideale per favorire sia il bisogno di strutturare in termini di normalità le giornate sia le esperienze di successo relazionali, importati per motivare il paziente al successivo passaggio in una propria abitazione.
Nella tabella che segue si evincono le caratteristiche chiave dell’appartamento supportato, confrontandole con quelle di una residenza h24. Appare chiaro, sin da subito, che il setting dell’appartamento supportato è vincente per le sue potenzialità di favorire processi di recovery.
L’importanza delle visite domiciliari (VD)
L’importanza delle visite domiciliari per il percorso di recovery è uno dei temi sottolineati da Laura. È indubbio che le visite a domicilio svolgono un ruolo cruciale per il raggiungimento del benessere della persona, in quanto:
- Favoriscono l’offerta di un’assistenza personalizzata nel proprio ambiente, che può essere più consona al benessere dei pazienti, perché offerta nel luogo di vita.
- Migliorano la partecipazione e l'impegno dei pazienti al trattamento, perché la prossimità e la proattività riducono le resistenze al cambiamento.
- Permettono di identificare i segnali precoci di una possibile ricaduta. In tal senso, i cambiamenti nelle abitudini del sonno o dell’alimentazione, l'incapacità di concentrarsi o il ritiro da attività precedentemente praticate possono essere rilevati e affrontati prontamente.
- Consentono di fronteggiare tempestivamente i problemi, minimizzando le tensioni generate dalle le situazioni critiche e, così, evitando anche le ospedalizzazioni.
In sintesi, le visite a casa dei pazienti sono una componente preziosa della Psichiatria di Comunità, poiché permettono di garantire un supporto individualizzato efficace, attraverso il raggiungimento del paziente nel suo luogo di vita e grazie alla tempestività dell’intervento.
Trattamenti e modalità di intervento
Assistenza centrata sulla persona
In tutte le testimonianze dei pazienti esperti viene riaffermata l’importanza di un’assistenza centrata sulla persona, approccio che dà priorità alle esigenze, alle preferenze e alle esperienze di coloro che ricevono servizi sanitari. Nella tabella che segue sono elencate le sue principali caratteristiche.
È opportuno ricordare che l’assistenza centrata sulla persona non si limita ai contesti clinici, ma si estende anche nei luoghi di vita dei pazienti. Concentrandosi sulla persona, che esiste dietro la malattia, essa mira a migliorare il benessere generale e la soddisfazione per i servizi sanitari.
L’importanza di un progetto terapeutico individualizzato
È prevalentemente Laura a porre l’accento sulla necessità che ogni paziente abbia un progetto terapeutico individualizzato, anche se tracce di tale tema si ritrovano in tutte le testimonianze riportate. Il piano di trattamento individualizzato si fonda sulle informazioni ricavate dalla valutazione del funzionamento sociale, dalla storia psichiatrica e dalla biografia personale. Tali informazioni devono essere tradotte in obiettivi di cura funzionali al raggiungimento dell’obiettivo personale, in base alle preferenze della persona. Pertanto, i piani di trattamento sono peculiari per ogni individuo e costruiti per orientare l’offerta dei servizi in base alle sue esigenze specifiche; inoltre, descrivono in dettaglio gli interventi da fornire, chi si occuperà di fornirli e per quanto tempo fornirli.
Nella tabella che segue è riprodotto un esempio di piano di trattamento integrato (nota 1).
Sebbene lo sviluppo di piani di trattamento sembri semplice, gli operatori a volte hanno difficoltà sia a sviluppare progetti specifici per la persona, che tengano conto dei suoi obiettivi, sia a pensare alla storia dei pazienti in termini di esperienza vissuta della malattia mentale, piuttosto che solo di sintomi o di disfunzioni comportamentali. Poiché sono tanti i soggetti che lavorano con un solo paziente, i piani di trattamento richiedono intesa e accordo tra tutti i membri dell’équipe. Se uno di essi non è in sintonia con i suoi contenuti, bisogna ridiscuterli all’interno del gruppo curante e superare le disarmonie, affinché tutti coloro che interagiscono con il paziente lo facciano in modo omogeneo e coerente. Quindi la cooperazione tra gli operatori è un altro principio di base della pratica psichiatrica comunitaria e, per attuarla, è necessario che il team si riunisca regolarmente ed esamini sistematicamente i pazienti inclusi nel programma, assicurandosi che i progetti vengano messi in atto e che vengano rivisti periodicamente. È evidente come tale approccio sia molto diverso da quello usuale e quanto possa essere minato dall'aumento dei carichi di lavoro o dalla carenza di risorse.
Inoltre, si sottolinea che la revisione periodica del progetto terapeutico con il paziente psichiatrico e con i suoi familiari è un’attività cruciale nel campo della salute mentale. Essa viene effettuata dall’équipe interdisciplinare, che riesamina regolarmente i piani di trattamento individuali, per assicurarsi che siano adeguati alle esigenze del paziente. Questo processo aiuta a monitorare i progressi e ad apportare eventuali modifiche al percorso di cura, stando attenti a coinvolgere tutte le figure sanitarie e sociali, compresi anche i terapeuti privati di fiducia del paziente e della sua famiglia. In sintesi, la revisione periodica del progetto terapeutico è fondamentale per garantire un trattamento efficace e personalizzato, coinvolge un’ampia gamma di professionisti della salute mentale e contribuisce a mantenere l’aderenza al progetto terapeutico e a valutare i risultati nel lungo termine.
Le attività riabilitative e di intrattenimento: differenze e funzioni
Quando nel 1995 fu pubblicato il libro di Benedetto Saraceno “La fine dell'intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica” ci fu una vera a propria “scossa di terremoto” in un settore che, dall’epoca della chiusura degli Ospedali Psichiatrici, si era “seduto e impigrito”, accontentandosi di offrire pratiche general generiche, afinalistiche e non supportate da alcuna metodologia accreditata (Saraceno, 1995). In questo saggio, Saraceno ha esplorato l’idea che la psichiatria spesso tratti i pazienti come “bambini da intrattenere”, somministrando trattamenti in modo casuale e senza alcuna valutazione adeguata. Nel testo, infatti, egli afferma come “La Riabilitazione, grazie ai suoi scopi e ai suoi strumenti, costituisce un evidenziatore particolarmente illuminante della principale caratteristica della psichiatria, ossia quella di essere un ‘intrattenimento del malato” e per di più “Ciò che colpisce in psichiatria non è l’impotenza ma l’assenza di critica dell’impotenza”.
Quindi, la riabilitazione psicosociale ha l’ambizione di rompere questo indeterminato, indistinto e fumoso “fare” dei servizi, cercando di individuare strade quotidiane per migliorare la vita dei pazienti psichiatrici e restituire loro i diritti formali e sostanziali. Per tale ragione, le attività riabilitative sono fondamentali per il recupero e il miglioramento delle funzioni fisiche, cognitive o emotive di una persona che ha subito un trauma o che è affetta da una patologia, dato che sono mirate a favorire la riacquisizione delle abilità perdute o compromesse. Anche questo è un tema piuttosto trasversale a tutte e cinque le testimonianze dei nostri pazienti esperti.
D’altra parte, anche le attività di intrattenimento, se non confuse con quelle riabilitative, possono aver un loro valore, poiché finalizzate al divertimento, al coinvolgimento sociale e al benessere psicologico e, quindi, utili per alleviare lo stress, migliorare l’umore e promuovere la socializzazione. Alcuni esempi di attività di intrattenimento includono la musica, la danza, il teatro e la pet therapy.
Le attività riabilitative si distinguono dalle attività di intrattenimento perché implicano i presupposti elencati nella tabella che segue.
Efficacia dei gruppi terapeutici per il recupero del senso di sé e per l’apprendimento di abilità
Sonia, Laura e Claudia, in più punti delle loro testimonianze, ribadiscono quanto il setting gruppale sia efficace per il recupero del senso di sé e per l’apprendimento di abilità. E, in effetti, da molti decenni ormai, le pratiche gruppali, ad orientamento sia psicoterapico che riabilitativo, rappresentano una delle principali tipologie di trattamento che un sistema di servizi di salute mentale può offrire. Esse favoriscono la costruzione della soggettività e consentono di affrontare collettivamente le conseguenze dirette (sintomi, disfunzioni cognitive, emotive e comportamentali) e indirette (self-stigma, isolamento sociale, desocializzazione, demoralizzazione) della malattia mentale. L’adozione del gruppo nell’ambito della salute mentale nasce da lontano e si ispira ai principi relazionali delle esperienze comunitarie, avviate nel Regno Unito negli anni ‘60, denominate Comunità Terapeutiche.
L'espressione “Comunità Terapeutica”, che Thomas Main utilizzò per la prima volta nel 1946, andava a descrivere il lavoro degli psichiatri britannici di Northfield (Inghilterra) e fu ufficializzata nel 1953 dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in uno studio sulle istituzioni psichiatriche, in cui si suggeriva l'opportunità di trasformare gli ospedali psichiatrici, appunto, in "Comunità Terapeutiche".
Il principio alla base di tale modello è che così come specifici fattori ambientali possono essere elementi scatenanti l’insorgere della malattia, altrettanti specifici fattori ambientali, ovviamente diversi dai primi, potrebbero, invece, favorire la ripresa della salute mentale.
La prima Comunità Terapeutica fu creata nel 1952, in Inghilterra, dallo psichiatra Maxwell Jones (1987), con l'obiettivo di responsabilizzare maggiormente i pazienti, facendoli partecipare nella gestione dell'istituzione in cui erano ospitati. L'idea era quella di trasformare una rigida organizzazione gerarchica, in cui i rapporti erano di tipo “verticale”, in una organizzazione “orizzontale”, caratterizzata da una relazione paritaria fra gli ospiti e gli operatori. Nell’esperienza della Comunità Terapeutica di Maxwell Jones, il sociologo Robert Rapoport (1960) individuò quattro principi costitutivi:
- Democrazia (democratisation)
- Permissività (permissiveness)
- Sentimento comunitario (communalism)
- Confronto con la realtà (reality confrontation).
Successivamente, il modello della Comunità Terapeutica, inteso come “luogo di sperimentazione sociale”, dove i percorsi di cura si attuano attraverso la costruzione di relazioni tra i membri del gruppo, si diffuse in Sud America, in Europa e negli Stati Uniti, arricchendosi di nuove proposte, come quella argentina di Badaracco (1990), quella francese di Racamier (1982) e Sassolas (2010) e quella americana di Mosher e Burti (1989), tutte volte alla costruzione di un modo diverso di concepire la cura psichiatrica. Pur se a volte oggetto di controversie, esse sono sopravvissute per anni e hanno “esportato” la loro metodologia di lavoro fondata su due capisaldi:
- il paziente conserva, comunque, una sua parte sana con cui combatte la malattia;
- la risoluzione del problema del paziente non spetta solo a lui, ma anche al gruppo, considerato un setting per migliorare la capacità di problem solving.
Il gruppo è lo strumento di intervento preferito nella Riabilitazione Psichiatrica per vari motivi:
- Offre un ambiente di supporto, dove i pazienti possono condividere le loro esperienze, apprendere comportamenti attraverso l’osservazione reciproca e darsi un riscontro prezioso, che può essere di aiuto a capire meglio sé stessi;
- È meno costoso per i servizi, in quanto con un solo intervento si risponde ai bisogni di diversi pazienti;
- Favorisce lo sviluppo delle abilità sociali, spesso compromesse;
- romuove la recovery, nella misura in cui stimola un processo di cambiamento delle attitudini, dei valori, dei sentimenti, degli obiettivi e dei ruoli dei pazienti.
Lo strumento del gruppo può essere utilizzato in combinazione con altre forme di trattamento, per fornire un approccio integrato ed olistico per la cura della salute mentale.
Nella tabella che segue sono sintetizzate le principali funzioni di un trattamento di gruppo nella Riabilitazione Psichiatrica.
Meritano una trattazione a parte i fattori specifici di efficacia di un setting gruppale, individuati da Irvin D. Yalom e Molyn Leszcz (2002) nel loro libro Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, testo che ha segnato in maniera decisiva la psichiatria contemporanea, e che rappresenta, ad oggi, la trattazione più esaustiva degli elementi dell’efficacia dei gruppi terapeutici, attraverso la definizione di undici “fattori terapeutici primari".
Tali elementi sono riportati in modo sintetico nella tabella che segue.
La difficoltà di risoluzione dei problemi come fattore di stress e l’importanza del Problem Solving Training
Le tecniche di problem solving hanno guadagnato un ruolo centrale nel campo dei disturbi d’ansia, dei disturbi depressivi e dei disturbi dello spettro schizofrenico. Sviluppare le abilità necessarie per rispondere efficacemente a tutto ciò che rappresenta un elemento di stress, come possono essere, per esempio, i conflitti interpersonali, e per superare gli ostacoli al raggiungimento dei propri obiettivi è considerato un elemento chiave di tutti i trattamenti psicosociali.
La maggior parte dei pazienti, a prescindere dalla diagnosi, presenta deficit neurocognitivi, che riducono le capacità di concettualizzazione, le funzioni esecutive e la flessibilità del pensiero, interferendo con l’utilizzazione delle abilità di coping e con l’acquisizione di nuove abilità e determinando, così, l’atrofizzarsi del repertorio sociale e la riduzione della capacità di affrontare gli agenti stressanti. Tali deficit persistono nonostante la terapia farmacologica e ostacolano in modo importante sia il funzionamento sociale che l’apprendimento mediato dalle attività riabilitative.
Allenare gli utenti con il Problem Solving Training (PST) rappresenta una modalità alternativa per mitigare i suddetti limiti, imparando anche a utilizzare una serie di strategie compensatorie. L’individuazione degli obiettivi personali, la descrizione passo dopo passo del processo di soluzione dei problemi, il continuo richiamo al suo utilizzo nel contesto della vita quotidiana possono migliorare il funzionamento sociale dei pazienti e aumentare la possibilità di raggiungere traguardi individuali significativi. Infatti, il Problem Solving Training è un intervento mediatore del funzionamento sociale, in quanto stimola l’attivazione di processi neurocognitivi e di elaborazione dell’informazione, insieme a competenze che facilitano la percezione delle situazioni sociali.
Un intervento strutturato come questo può interrompere il circolo vizioso tra la mancanza di sufficiente repertorio di abilità sociali e la vulnerabilità e può favorire l’acquisizione di strategie adeguate a rispondere ai bisogni personali e utilizzabili in aree problematiche della routine giornaliera. La sua importanza viene riaffermata ci chiarezza nelle testimonianze di Laura e di Sonia.
Offerta della pratica Illness Management & Recovery (IMR) a domicilio
Nella testimonianza di Laura viene ribadita l’importanza di un training riabilitativo specifico, offerto anche a domicilio: la pratica EB Illness Management & Recovery (IMR), letteralmente “Gestione della malattia e Recovery”.
La gestione della malattia gioca un ruolo cruciale nel mantenimento della salute mentale e del benessere. Essa comporta lo sviluppo di competenze da parte dei pazienti, necessarie per prendersi cura di loro stessi e per raggiungere un maggior controllo sulla propria malattia. A tal fine, la pratica EB Illness Management & Recovery rientra tra i training di Illness Self Management, i quali oltre fornire informazioni preziose sulla propria condizione di salute mentale, aiutano le persone ad adottare comportamenti funzionali e salutari, in quanto:
- Forniscono informazioni sul disturbo psichiatrico e sulle opzioni di trattamento
- Allenano a individuare e gestire i segni premonitori di ricaduta
- Forniscono strumenti per aumentare la capacità di gestire i sintomi
- Migliorano le capacità assertive per la ricerca di sostegno da parte dei servizi di salute mentale.
I training sono generalmente concepiti e/o impartiti da persone che hanno vissuto esperienze di malattia mentale, possono essere svolti in presenza o online e possono essere offerti in un format gruppale o individuale, quest’ultimo somministrato anche a domicilio, come riporta Laura nella sua testimonianza.
L’IMR, nello specifico, è articolato in diversi moduli, ognuno focalizzato sui temi seguenti:
- Gestire la propria malattia (sintomi e farmaci).
- Individuare i propri obiettivi di recovery.
- Prendere decisioni informate rispetto il proprio trattamento, dopo aver acquisito le conoscenze e le abilità necessarie.
- Identificare i segnali precoci di ricaduta.
- Individuare strategie efficaci di coping per la gestione dello stress.
- Accedere a gruppi locali di sostegno tra pari.
- Creare un piano d'azione per la prevenzione delle ricadute
- Individuare orientamenti preliminari in merito a future decisioni di trattamento.
In generale gli interventi di Illness Self Management possono essere considerati come strumenti essenziali per mantenere la salute sia fisica che mentale. Anche piccoli gesti di cura personale possono avere un impatto significativo sul benessere generale dei nostri pazienti.
L’importanza della psicoeducazione
Il termine psicoeducazione indica una metodologia introdotta nel campo delle scienze della salute mentale negli anni Ottanta, che punta a rendere consapevole la persona portatrice di un disturbo psichico, e i membri della sua famiglia, sulla natura della patologia di cui è sofferente e sui mezzi per poterla fronteggiare. L’intervento psicoeducativo ha, quindi, la funzione di dotare il paziente e le famiglie di una serie di conoscenze che permettano loro di:
- Incrementare la comprensione della malattia
- Facilitare alcuni cambiamenti nelle attitudini e nei comportamenti
- Ottimizzare le strategie per affrontare il disturbo
Il punto di vista dei pazienti sui farmaci
Il trattamento psicoeducativo migliora la qualità assistenziale percepita dai pazienti e, quindi, favorisce l’alleanza terapeutica e l’aumento della capacità di cercare aiuto soprattutto ella prima fase della malattia, quando l’ideazione suicidaria, la suscettibilità e l’autoreferenzialità possono essere più accentuate.
La psicoeducazione rifugge dal vecchio paradigma dell’approccio psicologico o psichiatrico, eccessivamente basato sull’ispirazione o sul carisma del terapeuta, e si distanzia dal modello di una relazione tra un medico “sanatore” e un paziente “passivo”, per potenziare un’adeguata alleanza di lavoro, incentrata sulla collaborazione, sull’informazione e sulla fiducia. È stato evidenziato che la “non comprensione” del problema di cui si è affetti aggrava il decorso della malattia, dal momento che al malessere causato dai sintomi si aggiunge il malessere derivante dal non sentirsi capito dagli altri, dal non capire cosa sta accadendo e dal non capire cosa bisogna aspettarsi, con la conseguenza che il paziente si sente “assolutamente indifeso di fronte ai suoi stati d‘animo”.
Nella tabella che segue sono sintetizzati i principali benefici dell’intervento psicoeducativo.
L’informazione dettagliata al paziente circa la malattia di cui soffre costituisce un atto imprescindibile nella relazione medico-paziente, soprattutto per alcune patologie come l’asma, il diabete o l’ipertensione, dato che alcuni comportamenti come la dieta, le abitudini di vita, l’atteggiamento nei confronti della sintomatologia possono essere decisivi per il decorso della malattia. Se risulta assurdo impostare un trattamento ad un paziente diabetico senza prima psicoeducarlo, ugualmente si ritiene fuori luogo trattare un disturbo psichiatrico senza la psicoeducazione.
Il miglioramento immediato di alcuni pazienti, successivamente alla loro inclusione nel percorso psicoeducativo, non deriva solo dalla semplice comprensione di alcuni concetti sulla malattia, sulla gestione dei sintomi o sull’aderenza terapeutica, ma anche dal sentirsi più sicuri nei confronti di determinati fattori stressanti, di prestare più attenzione alle dimensioni da monitorare (emozioni, umore, credenze, etc.) e di sentirsi più in grado di governare la loro malattia. La testimonianza di Alice è molto significativa a questo riguardo.
Gruppi di auto mutuo aiuto: l’importanza di aiutare il paziente e i suoi familiari
La deistituzionalizzazione dell'assistenza psichiatrica nei Paesi ad alto reddito ha aumentato il numero di persone assistite nel proprio luogo di vita. In Italia, si stima che il 15% di coloro che si occupano come caregiver di persone con malattia mentale trascorre con loro dalle 9 alle 32 ore di contatto a settimana e il 43% più di 32 ore a settimana. Molti non possono avere un’occupazione o devono assentarsi dal lavoro per prestare un’assistenza che, non essendo retribuita, fa risparmiare al Servizio Sanitario Nazionale il costo di un'analoga assistenza retribuita.
La maggior parte degli interventi offerti dai servizi psichiatrici e sociali sono incentrati sulla persona problematica e, anche quando essi sono diretti alla sua famiglia, il numero di incontri è basso o diradato nel tempo e il personale in genere non considera come "parte integrante del proprio lavoro" occuparsi in modo sistematico dei caregiver. Anche se è ormai assodato che la capacità di questi ultimi di gestire un congiunto con una malattia mentale può avere un impatto notevolmente significativo sulla sua guarigione, se ne parla poco nelle riunioni di equipe, se non in termini di narrazione che sfiora il pettegolezzo, e interventi nei loro confronti sono visti come secondari o opzionali dai professionisti dei servizi.
È ormai assodato che i tassi di ricaduta delle persone affette da malattia mentale possono essere sostanzialmente ridotti quasi del 50% attraverso trattamenti familiari, un effetto che diminuisce nel tempo, ma che può essere ancora clinicamente significativo a distanza di anni. Ciò rinforza l'idea che coloro che si prendono cura di una persona affetta da una grave malattia mentale trarrebbero molto beneficio da interventi incentrati sui propri bisogni, come componente non opzionale dell'offerta di cura. Purtroppo, queste evidenze sono in netto contrasto con l'esperienza spesso negativa che i caregiver hanno dei servizi, la quale, insieme alla gravosità dei loro carichi soggettivi e oggettivi, ha spinto da tempo le famiglie ad organizzarsi autonomamente, al fine di creare uno spazio con altri che hanno affrontato sfide simili per condividere esperienze, ricevere convalide, apprendere strategie di coping, ridurre i sentimenti di isolamento, aumentare la resilienza, sviluppare un senso di appartenenza e alimentare la speranza. Utilizzare tale approccio, se fa constatare alle famiglie che non sono sole nel loro cammino, richiede, però, loro un costante sforzo proattivo e il superamento di posizioni a volte passivo-aggressive (Yesufu-Udechuku et al., 2015).
Uno degli strumenti più, efficaci in tal senso, è “il supporto di famiglie ad altre famiglie”, la cui promozione è considerata un indicatore importante di un sistema sanitario ottimale. La pratica di offrire supporto, psicoeducazione e SST a famiglie da parte di familiari esperti è derivata dal modello promosso da Family to Family Support Network, un'organizzazione statunitense no-profit, che collabora con i servizi territoriali, gli ospedali e le istituzioni comunitarie per dare una risposta a tutte le famiglie che possono avere bisogno di sostegno nei loro percorsi all’interno delle organizzazioni sanitarie. Il modello è stato creato da Rebecca Vahle nel 2015, la quale, fin dall’inizio, si è occupata di "famiglie con bisogni speciali", come quelle segnate dalla violenza domestica, dalla violenza sessuale, dalla malattia mentale e dall’uso di sostanze (Hoffman et al., 2007).
In tutte le testimonianze dei pazienti esperti, tranne che in quella di Alice, viene sottolineato quanto sia determinante per la loro recovery che i familiari abbiano la possibilità di essere aiutati da gruppi di auto mutuo aiuto, specificamente creati per sostenere la funzione di care-giver.
La terapia psicofarmacologica è ancora uno dei principali aspetti del trattamento della malattia mentale, anche nei servizi più orientati alla recovery, dove dovrebbe affiancarsi ad altri interventi, quali i programmi per lo sviluppo delle abilità e i programmi in ambienti supportati, che forniscono opportunità e sostegno per l’esercizio dei ruoli sociali. Nonostante rappresentino un importante aiuto per il contenimento dei sintomi positivi, dell’angoscia, dell’agitazione o per la prevenzione delle ricadute, i farmaci possono avere, però, importanti effetti collaterali e non essere sempre efficaci.
Inoltre, l’aderenza alla terapia farmacologica è spesso un obiettivo da raggiungere. Secondo una recente meta-analisi (Semahegn et al., 2020), infatti, circa la metà delle persone con disturbi mentali gravi a cui vengono prescritti farmaci psicotropi non aderisce al trattamento. I fattori che influenzano tale fenomeno possono essere di varia natura e possono dipendere dalla malattia, dal farmaco stesso, dai comportamenti o dalle attitudini individuali o dalla mancanza di supporto sociale.
Ma anche i fattori dipendenti dal sistema di cura sono risultati di cruciali rispetto all’aderenza al trattamento. Tra questi, ne sono emersi due di particolare importanza: la carenza di interventi psicoeducativi specifici e di qualità diretti sia ai pazienti che ai loro familiari o caregiver e gli aspetti relativi alla relazione tra il paziente e il personale, quali: comportamenti giudicanti o scortesi, organizzazione rigida degli appuntamenti, diffidenza, atteggiamenti negativi degli operatori, scarsa capacità dei terapeuti di spiegare e di ottimizzare le prescrizioni, mancanza di flessibilità e di facilitazioni rispetto alla gestione di terapie complesse, alla tollerabilità e all’efficacia dei farmaci, carenza di personale e scarsa soddisfazione rispetto al servizio da parte degli utenti.
È, pertanto, fondamentale integrare i trattamenti farmacologici con altre strategie psicosociali per implementare la motivazione e il coinvolgimento attivo dei pazienti nel loro percorso di cura (Carozza, 2014). In questo senso, da tempo i programmi riabilitativi si concentrano anche sull’importanza di un approccio collaborativo e di condivisione delle decisioni relative alla gestione della farmacoterapia. Il modulo “Gestione dei farmaci” dell’Illness Management and Recovery (IMR), ad esempio, non solo si focalizza sull’importanza della psicoeducazione e della conoscenza della corretta autosomministrazione e valutazione della terapia, ma mira anche a fornire all’utente le abilità comunicative per poter discutere in modo efficace della terapia farmacologica col proprio terapeuta (Liberman, 2012).
Nell’analizzare la distanza che persiste tra la prospettiva dei professionisti dei servizi di salute mentale e quella degli utenti, è utile ricordare, ancora una volta, che possono essere identificate diverse tipologie di recovery: in particolare ricordiamo le definizioni di recovery clinica e di recovery personale. Con la prima si intende il processo che porta al miglioramento o alla completa remissione dei sintomi; è questa l’idea di recovery che ritroviamo ancora in modo preponderante nella prospettiva dei professionisti della salute mentale e che, se associata ad una visione prevalentemente biomedica della malattia mentale, conduce conseguentemente ad una concezione di trattamento basato quasi esclusivamente sulla prescrizione di farmaci. Con recovery personale si intende, invece, il percorso che la persona con esperienza di malattia mentale compie, dirigendolo lei stessa, verso l’autodeterminazione, verso la costruzione di un ruolo sociale riconosciuto e apprezzato e, quindi, verso la realizzazione di una vita soddisfacente e significativa. È bene tenere in mente che, sebbene queste due versioni di recovery possano essere interconnesse, le persone possono sperimentare anche una delle due senza l’altra. I trattamenti farmacologici possono favorire la recovery personale, ma possono anche ostacolarla, specialmente nei casi in cui i farmaci costituiscono l’unica risposta o quella predominante e se tale risposta è associata a pratiche coercitive (Slade et al., 2014).
Il lavoro del servizio di salute mentale non dovrebbe consistere nel far prendere le medicine a tutti i costi, ma nel favorire la recovery personale. Ciò potrebbe includere o meno l’assunzione di psicofarmaci che, quindi, costituiscono solo uno dei possibili aiuti per la recovery. In ultima analisi, gli operatori dei servizi dovrebbero utilizzare le conoscenze che hanno per aiutare il paziente a fare la scelta migliore, riconoscendo il ruolo centrale della sua responsabilità personale, promuovendone la resilienza, lasciandogli il controllo, per quanto più possibile, sui farmaci che assume, sostenendolo a sperimentare se è indeciso, ma anche se vuole interrompere il trattamento, identificando, però, in questo caso, fonti di supporto alternative (Slade et al, 2013).
Nelle testimonianze di Laura e di Andrea si riscontrano molti dei concetti riportati sopra, con particolare riferimento al processo decisionale condiviso tra paziente e psichiatra, alla possibilità di esprimere a quest’ultimo dubbi, timori e preoccupazioni e al fronteggiamento degli effetti collaterali.
Altri significativi coinvolti nel processo di Recovery
Attitudini favorenti il processo di guarigione
I servizi di salute mentale orientati alla recovery sono progettati per sostenere le persone con problemi di salute mentale nel loro percorso di guarigione e, per questo, necessitano che il personale che vi opera al suo interno possegga determinate abilità e attitudini. Tali elementi, riportati molto chiaramente nelle testimonianze di Laura, Sonia e Andrea, sono elencati nella seguente tabella.
Operatori empatici
Analoga enfasi è attribuita dai pazienti esperti alle caratteristiche empatiche degli operatori. Le professioni in ambito sanitario sono caratterizzate, più di altre, da un costante coinvolgimento interpersonale e da un contatto con la sofferenza umana. La partecipazione emotiva è inevitabile e, se da un lato essa può arrecare soddisfazione e senso di efficacia personale, dall’altro è anche fonte di forte stress e di rischio di burnout (Morelli e Poli, 2020).
Un elemento chiave per la buona riuscita del trattamento del paziente è l’empatia manifestata dalla figura curante, che aumenta l’alleanza del paziente e la sua fiducia nella terapia, migliora la prognosi di malattia e riduce il numero di azioni legali nei confronti dei professionisti (Decety, 2014; Fülöp, 2011). Sono state date diverse definizioni di empatia in un contesto interpersonale, tra le quali quella di Carl Rogers è forse la più nota: "percepire il quadro di riferimento interno di un'altra persona con accuratezza e con le componenti emotive che ne derivano, come se si fosse l'altra persona, ma senza mai perdere la condizione di "come se".
L’evoluzione scientifica rischia però di portare verso una medicina sempre più distaccata dal paziente, col rischio di tornare ad un approccio medico centrato esclusivamente sulla malattia; sarebbe necessario invece recuperare una prospettiva più umanistica e individualizzata del soggetto portatore di sofferenza, che abbia come oggetto di attenzione la persona nella sua interezza (Giordano, 2021). L’essere ascoltato e il potersi esprimere con parole proprie e in termini di emozioni e sentimenti incrementa la soddisfazione del paziente rispetto alle interazioni con i terapeuti, aumenta la percezione delle competenze di questi ultimi e favorisce l’aderenza ai trattamenti (Buckman, 1992). Dopo il momento dell’ascolto, però viene il momento delle parole, quelle che comunicano empatia e accettazione. I termini, a volte troppo duri, inumani e violenti dei professionisti della salute in generale, lacerano individui già afflitti dalla malattia, per cui sarebbe importante e necessario scegliere modalità comunicative che “curano” e non feriscono e che consolano e accolgono, anche quando non possono più offrire una soluzione alla malattia (Giordano, 2021).
Tuttavia, l’empatia, pur essendo un punto di forza, può talvolta diventare rischiosa, specie quando si ha a che fare con le situazioni più emotivamente angoscianti, come la malattia stessa, la morte e il dolore. La crisi sanitaria legata all’emergenza Covid-19 ha messo in luce proprio questo rischio. La rapidità di diffusione dell’epidemia, la scarsità di risorse e di luoghi di cura attrezzati, la gestione di turni stressanti, la carenza di personale ed il continuo confronto con situazioni di estrema sofferenza hanno aumentato in maniera esponenziale i rischi dello sviluppo di sindromi da burnout da parte del personale sanitario (Morelli e Poli, 2020).
L’approccio ideale per le figure sanitarie dovrebbe, quindi, essere quello di un’empatia clinica, che include la capacità di distinguere il sé dall’altro, in maniera tale da non provare le sue stesse emozioni e sofferenze, pur comprendendole e validandole, come sosteneva Carl Rogers. Questo proteggerebbe nel lungo termine il professionista da “esaurimento” e depersonalizzazione e aiuterebbe a prevenire il burnout (Ekman, 2015; Juszkiewicz, 2015).
Ma non basta solo essere “empatici”. Bisogna anche essere competenti ed emotivamente maturi, dato che gli operatori, a volte, devono anche prendere decisioni al posto dei pazienti, ascoltare le necessità, mostrare sicurezza, possedere attitudini favorenti il processo di guarigione e, in ultima analisi, offrire un’assistenza centrata sulla persona. “La competenza professionale” è un aspetto critico della pratica di salute mentale: i pazienti ci ricordano che dobbiamo continuamente sforzarci di migliorare le nostre conoscenze e le nostre abilità. Mantenere e sviluppare la competenza è un imperativo etico, poiché aumenta la probabilità di soddisfare le esigenze di chi utilizza i nostri servizi e di rispettare i minimi standard professionali di qualità.
Operatori “coach”
ll coaching (o affiancamento e guida) è una metodologia di sviluppo personale, nella quale una persona (detta coach) supporta un allievo (detto coachee) nel raggiungimento di uno specifico obiettivo personale, professionale o sportivo. Grazie all'intuizione di Whitmore dagli anni Novanta la figura di un “allenatore” di potenzialità umane compare nelle aziende. Inizialmente, le figure destinatarie di un tale intervento furono i manager che, per sviluppare e migliorare le loro capacità umane e professionali, si affidarono a consiglieri di fiducia, chiamati “coach”. Fino ad allora, questa pratica era vista come una moda nel campo dei direttori di azienda, ma era praticamente sconosciuta alle altre professioni.
Un coach fornisce il suo supporto verso l’acquisizione di un più alto grado di consapevolezza, responsabilità, scelta, fiducia. Questo processo avviene all’interno di una relazione facilitante con il discente, il quale viene allenato a migliorare le prestazioni professionali e personali, mediante la valorizzazione e il potenziamento delle sue risorse, delle sue capacità e delle sue competenze. Riassumendo, il coaching si basa su:
- Una relazione facilitante: collaborazione tra coach e coachee.
- Lo sviluppo del potenziale: individuazione e utilizzo delle risorse personali.
- La gestione delle interferenze: consapevolezza e trasformazione di ostacoli interni ed esterni.
- Lo sviluppo della consapevolezza e della responsabilità: crescita personale e capacità di scelta.
- Obiettivi e piani d’azione: trasformazione di bisogni in obiettivi concreti.
- Un monitoraggio dei risultati: valutazione dei risultati attraverso feedback.
Il metodo offre all’“allenato” strumenti che gli permettono sia di identificare i suoi obiettivi che di rafforzare la propria efficacia e le proprie prestazioni. Presupposto di partenza è che ogni persona possiede delle potenzialità latenti; l'obiettivo del coach è di scoprirle e insegnare come utilizzarle al meglio. La parola "coach" evoca quella di allenatore. Nel caso del life coaching, ad esempio, il coach allena la persona a sviluppare il suo potenziale latente, al fine di vivere con più soddisfazione la sua esistenza, di darsi obiettivi concreti allineati ai propri valori personali e di raggiungerli, mantenendo la motivazione. Il lavoro del coach spesso ha l’obiettivo di cambiare le abitudini poco funzionali e i comportamenti che ostacolano l'individuo nel raggiungimento del benessere.
A ben riflettere, c’è un filo rosso che collega il lavoro dei coach con il lavoro che gli operatori della salute mentale che svolgono con i pazienti nel processo di Riabilitazione Psichiatrica. Infatti, quando l’operatore motiva i pazienti al cambiamento, li aiuta a definire l’obiettivo personale o li allena nelle abilità sociali egli è un vero e proprio coach e con esso condivide alcune caratteristiche (tabella 9).
Il suggerimento ad essere operatori “coach” si ritrova elle testimonianze di Laura, Sonia e Andrea, soprattutto come “allenatore” alla risoluzione dei problemi di vita quotidiana.
Funzione dell’operatore referente.
Ugualmente stressato dai pazienti esperti è il ruolo cruciale dell’operatore referente nel supportare le persone con malattie mentali nello sviluppo dei loro obiettivi di recovery. Egli funge da rete di sicurezza per i pazienti più vulnerabili, con problemi di uso di sostanze e con altre avversità, valuta le loro esigenze specifiche, identifica i loro punti di forza e di debolezza, rinforzando i primi per sviluppare un atteggiamento più sano, elabora piani in base alle esigenze individuali, comprese le strategie di gestione delle crisi, mette in contatto i pazienti con le risorse necessarie, sostiene coloro che non possono navigare autonomamente nel sistema di salute mentale, crea fiducia attraverso interazioni significative e incoraggia l’inclusione sociale.
In sintesi, la funzione dell’operatore referente potrebbe essere intesa come “salvavita”, poiché consente a molti pazienti di raggiungere il benessere, l'autosufficienza e una qualità di vita positiva.
Rapporto con lo psichiatra: soggezione e paura di comprometterlo se si esprimono sentimenti negativi
È Andrea sottolineare con forza quanto la relazione tra il paziente e il suo psichiatra sia cruciale per un'efficace cura della salute mentale. Nella tabella che segue sono riportate alcune barriere comuni che possono rendere tale relazione così distante, impersonale e asimmetrica da scoraggiare la condivisione di opinioni e di stati affettivi da parte del paziente.
L’amministratore di sostegno
La funzione dell’Amministratore di sostegno nel processo di crescita e di recovery dei pazienti viene evidenziata da Laura.
L’amministrazione di sostegno è un istituto giuridico, introdotto dalla legge italiana del 2004, finalizzato a proteggere quelle persone che, a causa di patologie o di condizioni specifiche, non sono in grado di gestire autonomamente i propri beni. In particolare, riguarda anche situazioni in cui il paziente rifiuta le cure prescritte, a causa della mancanza di consapevolezza di aver bisogno di supporto e di terapia.
Anche se negli ultimi quarant’anni i trattamenti farmacologici e psicosociali hanno migliorato la qualità della vita dei pazienti affetti da disturbi mentali, nei casi più gravi, tuttavia, come la schizofrenia, il disturbo bipolare o la demenza, il rifiuto delle cure può portare a incapacità di provvedere a vari aspetti della cura di sé. In tali situazioni, l’Amministratore di Sostegno (AdS) offre una forma di tutela più agile rispetto all’interdizione e all’inabilitazione, con minori limitazioni dei diritti civili, e agisce per conto del beneficiario nel suo esclusivo interesse, decidendo “con” lui, ricostruendo la sua volontà o inferendola dall’insieme degli aspetti della sua personalità.
Questo è particolarmente importante quando si tratta di acconsentire a interventi sanitari specifici o a terapie farmacologiche, per i quali può prestare il consenso al posto del paziente, tenendo, però, sempre presente l’interesse del beneficiario e cercando sempre di bilanciare la protezione del paziente e il rispetto dei suoi diritti.
Importanza del lavoro di équipe
Fino alla metà del secolo scorso, nella maggior parte dei paesi era dominante un approccio monoprofessionale alla salute mentale, dato che gli psichiatri avevano il compito di “curare” le persone con problemi di salute mentale in un ambiente protetto di tipo custodialistico. Con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici, molti altri professionisti, tra cui psicologi, infermieri, medici generici, terapisti della riabilitazione, educatori e assistenti sociali, sono diventati partner paritari nell’offerta di assistenza psichiatrica. Sebbene tale tendenza sia più evidente nei paesi ad alto reddito, essa si sta diffondendo anche nei paesi più poveri.
Nei servizi di salute mentale, il lavoro di team si riferisce agli sforzi integrati di diversi operatori che lavorano insieme e in sinergia, andando oltre gli approcci “multidisciplinari”, che si limitano semplicemente ad “assemblare” diversi saperi tra loro. L’obiettivo è migliorare la qualità del servizio e impedire che i pazienti "cadano tra le lacune" della rete assistenziale.
I vantaggi del lavoro interdisciplinare sono quelli di essere più efficienti della pratica monoprofessionale, di prevenire le discontinuità del trattamento, di promuovere una pratica inclusiva e di conseguire risultati migliori per i pazienti. Tale tema è toccato in tutte le testimonianze dei nostri pazienti esperti, i quali affermano quanto sia stato importante per loro percepire intesa e cooperazione tra le diverse figure professionali con le quali hanno interagito e quanto questo stile di lavoro sia essenziale per un'assistenza olistica e centrata sulla persona.
Impatto della malattia del congiunto sui suoi familiari
Sono Andrea e Claudia, prevalentemente, a sottolineare quanto la malattia mentale non solo ha un impatto sugli individui che la sperimentano, ma colpisce anche le loro figure significative. È indubbio che le sfide comportate dal prendersi cura di una persona cara con una patologia psichiatrica possono avere effetti disastrosi sulle famiglie, sul piano sia emotivo che pratico.
Emotivamente i familiari possono provare sentimenti di colpa, vergogna, paura, frustrazione o impotenza rabbia e tristezza: la difficoltà nel comprendere e accettare i cambiamenti nei comportamenti e nel funzionamento dei loro cari e di tollerare il dolore causato dall’assistere alla loro lotta quotidiana nei confronti della malattia può generare alti livelli di stress, che si manifestano con ansia, depressione de sintomi somatici. Sul piano pratico le famiglie devono rapportarsi a sistemi sanitari complessi, organizzare gli appuntamenti, gestire i farmaci e fornire supporto e assistenza continui. Gli effetti cumulativi di queste battaglie possono mettere a dura prova le relazioni intrafamiliari, rendendole disfunzionali, con una ricaduta negativa sul benessere anche dei singoli membri della famiglia.
Stress, depressione, ansia e frustrazioni di tutto il nucleo familiare sono comuni quando la malattia è in fase acuta e per alcuni possono continuare anche per molti anni. I pazienti percepiscono anche che i loro familiari stanno subendo un trauma dovuto al problema che li affligge e sentono che le reazioni emotive negative dei congiunti alla loro malattia possono anche peggiorarla.
Anche se l'esperienza di ogni famiglia è unica, ci sono alcune modalità comuni con cui la malattia mentale colpisce le famiglie, le più rilevanti sono state riportate e descritte nella tabella che segue.
Altre due condizioni possono essere molto traumatizzanti per le famiglie: la dipendenza patologica dalle sostanze e lo stigma.
Le famiglie dei pazienti con dipendenza patologica a sono ad alto rischio di problemi psichici e fisici, in quanto, in virtù della peculiarità del problema, sperimentano pesanti sensi di colpa e di complicità e intenso disagio emotivo nel momento in cui consentono comportamenti correlati alle sostanze di abuso. Sostenere una persona cara che ha una dipendenza, e contemporaneamente mantenere il proprio benessere mentale, può essere molto impegnativo. In questo caso, attraverso interventi come la psicoeducazione, sedute di terapia familiare e partecipazione a gruppi multifamiliari, le famiglie possono affrontare le complessità della dipendenza e, allo stesso tempo, favorire il raggiungimento di esiti positivi da parte del loro congiunto (Yesufu-Udechuku et al., 2015).
Vivere con la malattia mentale comporta affrontare anche sfide come quelle dello stigma, della discriminazione e della difficoltà ad accedere a adeguati servizi sanitari e di supporto. I pazienti e le loro famiglie spesso si sentono isolati e affaticati ulteriormente da dover fronteggiare i pregiudizi e gli stereotipi sociali. Ma tutto ciò ha profonde ripercussioni sul percorso di recovery dei congiunti. Infatti, lo stigma associato a problemi di salute mentale che si sviluppa nelle famiglie, derivante da credenze culturali, mancanza di comprensione o paura del giudizio da parte degli altri, può avere un profondo impatto sugli esiti del trattamento, sull'impegno terapeutico del congiunto e sulla sua recovery, soprattutto impendendo di cercare aiuto. Pertanto, ridurre la stigmatizzazione intrafamiliare è fondamentale per creare un ambiente di supporto e di accettazione che incoraggi il ricorso ai servizi.
Conoscenza oggettiva del problema, dialogo aperto e atteggiamento empatico sono tre delle principali strategie efficaci per abbattere tale barriera e per aiutare il congiunto malato ad affrontare il giudizio e la mancanza di comprensione dei suoi familiari, atteggiamenti che potenziano i suoi timori di rivelare i propri problemi di salute mentale prima di tutto ai propri cari.
Dimensioni collegate all’identità e al senso di sé, impattate dai problemi di salute mentale e influenti sul il processo di recovery
L’importanza dell’obiettivo personale
Il processo di definizione degli obiettivi personali è un indicatore di qualità dei servizi di Psichiatria di Comunità. I pazienti esperti che abbiamo convolto ci ricordano che avere una prospettiva di vita, partecipare ad attività significative e coltivare connessioni umane – in altre parole perseguire obiettivi piccoli o grandi – è una componente fondamentale nel processo di guarigione.
I disturbi psichiatrici rendono a volte difficile per le persone con problemi di salute mentale individuare accuratamente i loro veri obiettivi e riconoscere i loro desideri più profondi, dei quali possono non essere consapevoli o che non vogliono rivelare, perché considerati troppo audaci e ambiziosi o perché sollecitano senso di colpa o di vergogna, se vengono espressi apertamente. Pertanto, la valutazione degli obiettivi di un paziente deve metter in conto anche una buona dose di ambivalenza, come desiderare di sposarsi e allo stesso tempo sentirsi costretto all'idea di farlo, o di oscillazione, come essere più motivati da un altro obiettivo, scoprendo che il desiderio di sposarsi era, in quel particolare momento della vita, solo un modo per soddisfare le aspettative dei genitori. Gli obiettivi personali di un paziente possono essere altamente specifici e concreti (ad esempio, sposarsi) o più generali e astratti (ad esempio, individuare le proprie preferenze e non essere dominati dal senso di colpa).
In termini pragmatici, l’operatore dovrebbe inquadrare i traguardi di un paziente nel modo seguente: “Il paziente vuole/desidera” “sentirsi a proprio agio nel dire ‘no’ agli altri”, “essere in grado di cercare un lavoro migliore”, “provare un maggior senso di fiducia in sé stesso o di autostima”. Le mete da prendere in considerazione sono quelli che la persona vuole raggiungere e il ruolo del l’operatore è quello di dedurli e formularli, utilizzando un linguaggio semplice e poco teorico, come nei seguenti esempi:“Vuoi sentirti libero di fare le cose a modo tuo”, invece di “Sei spinto da un desiderio esplorativo”; oppure “Speri che qualcuno si prenda cura di te quando ti senti solo e spaventato”, invece di “Sei tendente dall'attaccamento”.
In seguito, è riportata una disamina di due dei principali ostacoli che i pazienti devono fronteggiare per poter raggiungere il loro obiettivo personale: credenze personali e traumi.
Convinzioni o schemi patogeni impediscono di perseguire o raggiungere obiettivi di sviluppo adeguati. Spesso queste credenze sono inconsce e costituiscono un ostacolo, perché convincono il paziente che si verificheranno determinate conseguenze indesiderate per sé o per le sue persone care, se egli persegue o raggiunge un determinato traguardo: per esempio, credere che andare bene a scuola potrebbe far sentire una sorella umiliata, oppure credere che avere degli amici potrebbe far sentire la propria madre abbandonata. Un’opinione diventa una barriera se, in qualche modo, influenza i pensieri, i sentimenti o i comportamenti del paziente, a causa delle conseguenze negative che egli prevede quando cerca di realizzare i propri scopi. Per esempio, l’idea “Se avrò successo, nella vita farò meglio di mia sorella” è una barriera solo se inibisce il soggetto dal conseguire un obiettivo o gli causa sofferenza quando cerca di perseguirlo. Una convinzione patogena può agire come un ostacolo in più di un'area. Per esempio, credere che la propria indipendenza danneggi gli altri potrebbe inibire la vita sociale, con la conseguenza di evitare di fare una vacanza, ma anche la vita lavorativa, portando ad abbandonare gli obiettivi di carriera.
Le credenze e gli schemi patogeni, in genere, derivano da traumi e da esperienze relazionali avverse, che in sé possono non essere iatrogeni, ma che lo diventano se portano allo sviluppo di una barriera n ei confronti proprio sviluppo. Ad esempio, “Essere spesso ricoverato in ospedale da bambino mi ha portato a intraprendere la carriera medica” non è una descrizione corretta di un trauma, diversamente da: “Poiché da bambino mi ammalavo spesso, ho pensato che la mia salute sarebbe sempre stata un problema e così ho intrapreso la carriera di medico, piuttosto che coltivare la mia vera passione per le arti dello spettacolo”. Allo stesso modo, anche eventi o esperienze, che in genere potrebbero essere considerati positivi o addirittura benefici, possono costituire un trauma, se portano alla nascita di una barriera cognitiva, come nel seguente esempio: “Era il figlio preferito e questo lo portò a pensare di doversi ridimensionare nei risultati scolastici per pareggiare i conti con i suoi fratelli, che si sentivano umiliati dai suoi successi”.
Accettazione della malattia
Ai pazienti viene richiesto di accettare una malattia che viene diagnosticata in base all’osservazione del comportamento e del modo di vivere e alla descrizione orale dei sintomi. Non esiste una teoria scientifica della patologia psichiatrica convalidata da accertamenti diagnostici (es: esami del sangue, risonanze, ecografie, etc), che dimostri oggettivamente di cosa i pazienti sono affetti. Ma accettare una malattia, passaggio chiave per cominciare a guarire, implica prima aver compreso quello di cui si è affetti, cosa non facile per quanto riguarda il disturbo psichiatrico e, in seguito, riconoscere dei limiti e le perdite ad esso associati. Ma “accettazione” non significa rassegnazione, piuttosto potrebbe essere intesa come riuscire ad affrontare le sfide post dalla convivenza con una malattia mentale. A questo proposito, le considerazioni di Andrea e di Claudia sono molto illuminanti.
Pertanto, l'accettazione non è un risultato semplice che c'è o non c'è, ma un processo dinamico che coinvolge diversi fattori che si sviluppano nel tempo e che richiedono il passaggio da uno stato passivo di negazione ad una posizione attiva di self- agency.
Come si arriva ad accettare la malattia mentale? Ecco alcuni contributi di chi ha vissuto in prima persona una condizione psichiatrica:
- Sviluppare una consapevolezza del problema di salute mentale e sfidare le credenze distorte ad esso correlate. Il processo di accettazione di una malattia mentale include l’esercizio di alcune funzioni cognitive: la comprensione che esiste un problema di salute mentale, la volontà di ridurre i sintomi che possono intralciare la chiarezza del pensiero e di ciò che sta accadendo, la presa d’atto dei meccanismi di negazione del problema e la sfida alle credenze negative associate alla malattia mentale (puoi vivere una vita di significato e perseguire i tuoi obiettivi anche con un problema di salute mentale).
- Affidarsi ad un nuovo positivo di sé. La ricerca ha dimostrato che l'accettazione è anche un processo di sviluppo dell'identità che comporta contrastare lo Stigma per consentire ad un nuovo senso di sé di emergere. Si può ancora essere un fantastico lavoratore, genitore, amico o membro della comunità anche con un problema di salute mentale, il quale non definisce una persona, né diventa centrale per la propria identità, anche se deve essere integrato come parte di ciò che si è.
- Impegnarsi in attività che facilitano l'accettazione, di natura sia terapeutica che sociale, strutturando la settimana in modo da guardare al futuro e da evitare che il problema di salute mentale prenda il sopravvento.
- Coltivare relazioni che promuovono l'accettazione, come quelle di supporto, soprattutto quando il problema di salute mentale non viene accettato, a causa delle proprie convinzioni stigmatizzanti, o quando viene ignorato o, semplicemente, quando si è impreparati a farci i conti. In questi casi, amici, familiari o altre figure significative, essendo loro stessi consapevoli della presenza di una malattia mentale, possono aiutare il paziente a riconoscerla e a gestirla, offrendo un ascolto non giudicante, accompagnamento in caso di appuntamenti importanti o incoraggiamento generale. L'accettazione può essere favorita solo da relazioni con persone che non negano l’esistenza del problema.
- Non evitare esperienze emotive che promuovono l'accettazione. La ricerca mostra che il processo di accettazione è un'esperienza emotiva e, pertanto, bisogna fare spazio al dolore e superare la vergogna. Ma può anche generare serenità e portare ad un maggiore senso di pace.
Da quanto descritto si evince che il processo di accettazione, pur svolgendosi all'interno dell'individuo, si esternalizza anche al suo esterno, nella misura in cui intacca lo stigma e l’emarginazione sociale. Pertanto, esso non può e non dovrebbe essere affrontato e gestito in solitudine.
Infine, poiché la cultura forgia la stessa esperienza di malattia mentale e, quindi, lo stesso processo di recovery, anche il percorso di accettazione varia da un contesto culturale all'altro ed è influenzato dalle abitudini e dalle norme di quella specifica comunità di appartenenza.
In sintesi, l'accettazione non è una sconfitta; è un trampolino di lancio verso il recupero della self agency e la costruzione di una vita significativa, nonostante le sfide poste dal disturbo psichiatrico. Per alcuni può rappresentare anche qualcosa di più: il passaggio dalla malattia sentita come vergogna alla malattia vissuta con orgoglio.
Colpa e vergogna per la malattia
Convivere con una malattia mentale è molto difficile perché, oltre a impattare nella dimensione dei pensieri, del comportamento, delle relazioni, dell’umore, del sonno, delle convinzioni su se stessi, dell’autostima e oltre a ridurre il livello di energia e a rendere le giornate piene di ostacoli, provoca anche un travolgente senso di colpa e di vergogna. Tale tema emerge chiaramente nelle testimonianze di Claudia e di Andrea.
Quasi tutti i pazienti lottano con la colpa e la vergogna di avere una malattia mentale e di provare sentimenti scomodi o non sintonici con quelli degli altri, sentendosi a disagio per non essere "normali”, ma percependosi come se fossero "rotti" o "danneggiati" per sempre. Si giudicano in modo impietoso da soli, confrontando continuamente la loro vita con la vita degli altri, che considerano un successo.
La vergogna è un'emozione spesso caratterizzata da una rappresentazione negativa del sé, come ritenersi inferiori o carenti (Dolezal, 2015), molto vulnerabili al giudizio sociale e persino inutili (Jaeb, 2022; Lazare, 1987) ed è associata a processi psicologici disadattivi, quali bassa autostima, constante disagio e appiattimento emotivo (Jaeb, 2022; Velotti et al., 2017). La vergogna è spesso preceduta dalla "consapevolezza improvvisa un sé deficitario o di un obiettivo non raggiunto" (Lazare, 1987), che suscita un’angosciante preoccupazione su come si è percepiti e giudicati dagli altri, sia reali che immaginari (Dolezal, 2015).
Oltre a quelle sociali, anche le interazioni cliniche sono piene di opportunità per indurre colpa e vergogna. Un rapporto dove c’è un’asimmetria di potere, la paura del giudizio da parte di un professionista sanitario e l'avere il proprio corpo e la propria malattia in mostra possono facilmente generare vergogna e colpa in un paziente (Dolezal, 2022). Lo Stigma e gli esiti di un trauma possono anch’essi contribuire alla nascita della vergogna e della colpa nelle interazioni cliniche (Jaeb, 2022). Nello specifico, le diagnosi psichiatriche possono essere intrinsecamente stigmatizzanti, contribuendo a comportamenti discriminatori nei confronti dei pazienti e aumentando il loro senso di vergogna e di colpa (Northrop, 2017), o all'anticipazione di tali sentimenti, anche se essi interagiscono con altre persone non giudicanti (Dolezal, 2022).
La vergogna e la colpa nelle interazioni cliniche possono avere profonde conseguenze negative sul rapporto medico-paziente. Nel loro lavoro pionieristico sulla vergogna, Kaufman et al. (1974) hanno affermato che tali sentimenti possono danneggiare la fiducia nelle relazioni e che qualsiasi comunicazione o azione del professionista che le suscita può minare e il legame terapeutico. Inoltre, la vergogna e la colpa possono portare i pazienti a essere passivi e a smettere di impegnarsi nel loro percorso di cura, con la conseguenza di un fallimento del trattamento. Nei casi più estremi, i pazienti possono evitare del tutto di incontrare i terapeuti e abbandonare il setting (Hutchinson e Dhairyawan, 2017; Jaeb, 2022; Mensinger et al, 2018).
Una delle principali strategie per ridurre il senso di vergogna e di colpa dei pazienti è incoraggiarli ad aprirsi e a condividere informazioni che potrebbero essere celate sotto la spinta dei suddetti sentimenti, come, per esempio, la non aderenza ai farmaci o la violenza nella coppia (Stenson et al., 2005). Nello studio di Barfod et al. (2006), è stato utilizzato il termine "de-shame" per descrivere gli approcci che facilitano la “disclosure” dei pazienti sui motivi per i quali non seguono il regime di farmaci prescritti. L'intento generale era quello di creare uno spazio dove essi potessero permettersi di essere onesti e di avere fiducia nel medico, tanto da non vergognarsi o sentirsi in colpa per “trasgredire” le indicazioni cliniche.
Sono stati anche studiati approcci di comunicazione specifici, da utilizzare quando si affrontano argomenti che potrebbero evocare vergogna e colpa, evitando, per esempio, di umiliare i pazienti per il loro peso corporeo ma dando priorità alla costruzione di un buon rapporto con loro e solo in un secondo tempo fornendo informazioni nutrizionali, stando ben attenti a individuare il momento terapeutico opportuno per farlo.
Nelle stesse ricerche, è stato anche evidenziato che gli operatori sanitari considerano i pazienti irresponsabili e poco intelligenti se non prendendo i farmaci come ordinato, se non si aprono su un eventuale abuso di alcol o se lo minimizzano, perché se ne vergognano (Abraham et al., 2017). Tali studi, però, non hanno incluso le prospettive dei pazienti, rendendo poco chiaro se le affermazioni degli operatori sui loro sentimenti fossero corrette. Ad esempio, nel lavoro di Incollingo et al. (2020), è stato rilevato che il 15,8% dei partecipanti si sentiva "svergognato" dagli operatori per l’eccesso di peso. Nelle ricerche che hanno esaminato l’opinione dei pazienti, questi ultimi hanno descritto come la vergogna li inducesse a nascondere le informazioni ai professionisti, a sentirsi inferiori e non compresi dagli operatori per le loro preoccupazioni. Fredriksson e Lindstrom (2002) hanno sottolineato che la vergogna e la colpa portano le persone con malattia mentale a nascondere le sofferenze legate alla loro esistenza, alla loro patologia o alla scarsa attenzione da parte di altri, ma che i due sentimenti si manifestano in tutta la loro intensità quando la facciata si rompe e quando il loro dolore si rivela.
Una situazione che sollecita colpa e vergogna è quando i professionisti non affrontano le paure dei pazienti nei confronti dei colloqui clinici o quando banalizzano le loro apprensioni deliranti, erodendo la loro autostima (Pollard et al., 2015). Ad esempio, un paziente ha riferito di sentirsi malissimo dopo che un'infermiera ha archiviato la sua esperienza affermando "cavolo, sei stato via con le fate per molto tempo" (Pollard et al., 2015). Altri studi hanno rilevato che i pazienti provano vergogna e colpa quando gli operatori non si occupano della loro sofferenza, non tengono conto della loro percezione dei sintomi o li trattano con superiorità, considerandoli “minus habens” per avere una malattia mentale (Stenberg et al., 2012; Fredriksson e Lindstrom, 2002).
Influenza dello stigma interno sulla recovery
Uno dei temi maggiormente sentiti nella maggioranza delle testimonianze dei pazienti esperti è quello dello stigma, con particolare riferimento al self-stigma e alla sua influenza sul processo di recovery. Le persone affette da malattie mentali gravi devono affrontare molteplici difficoltà nella loro vita a causa dei sintomi e delle disabilità associate al loro disturbo. Oltre a ciò, devono fare i conti anche con le reazioni della società alla loro condizione, conseguenti allo stigma della malattia mentale, che spesso sono causa di una sofferenza e di uno stress persino maggiore della malattia stessa.
Lo stigma può impattare sulla vita delle persone a vari livelli. Può determinare esclusione e discriminazione, può ridurre le opportunità, interferendo col raggiungimento degli obiettivi di vita, può aumentare lo stress, peggiorando i sintomi della malattia o generandone di nuovi, può portare all’evitamento sociale e può ostacolare l’accesso alle cure, riducendo le possibilità di ripresa e guarigione. Per questi motivi la lotta allo stigma è divenuta una priorità chiave a livello internazionale, tanto da essere inserita nell’agenda della salute pubblica dell’OMS (Thornicroft et al, 2022).
Il self-stigma (o stigma interno o stigma autoindotto) si verifica quando una persona con malattia mentale è consapevole degli stereotipi della società e li fa propri, applicandoli a sé stessa. Esso comprende una serie di step che vanno dall'approvazione di questi stereotipi su di sé (ad esempio, "sono pericoloso"), al pregiudizio (ad esempio, "ho paura di me stesso"), fino alla conseguente autodiscriminazione (ad esempio, l'isolamento autoimposto). L’internalizzazione degli stereotipi, per di più, peggiora il decorso della malattia a causa della negativa esperienza interiorizzata: spesso danneggia l’autostima, il senso di autoefficacia e la speranza, pregiudicando il conseguimento degli obiettivi di vita, causando quell’effetto chiamato “why try”, (perché provare?) che si verifica quando il soggetto rinuncia a perseguire i propri obiettivi e desideri, presupponendo di non avere le abilità necessarie o di non essere all’altezza (Corrigan, 2016). La diminuzione dell'autostima porta, quindi, nelle persone alla sensazione di essere meno degni di opportunità; tale sensazione si ripercuote nei pensieri, "Perché dovrei cercare un lavoro come contabile? Non merito una posizione così importante. I miei difetti non dovrebbero permettermi di accettare questo tipo di lavoro da qualcuno che è più meritevole", comuni quando si cerca l'ottenimento di un lavoro competitivo, oppure “Perché dovrei provare a vivere da solo? Non sono in grado di essere indipendente. Non ho le capacità per gestire la mia casa”, se si fa riferimento ad una soluzione abitativa autonoma.
Recenti ricerche (Dubreucq et al., 2021) hanno confermato una correlazione negativa tra self-stigma e supporto sociale, speranza, empowerment, ricerca di aiuto e adesione ai trattamenti (maggiore è il self-stigma, minore è l’attivazione/propensione della persona); al contrario la partecipazione a programmi riabilitativi e l’essere supportati da servizi gestiti da utenti è favorisce una riduzione dello stigma interno. Il rapporto tra self-stigma e diversi esiti di recovery personale, funzionale e clinica, suggerisce fortemente che gli interventi riabilitativi ed un approccio orientato alla recovery possono indirettamente ridurre lo stigma interno, così come i programmi che affrontano e contrastano lo stigma interno possono indirettamente favorire migliori esiti nei percorsi di cura.
Alla luce di ciò, i servizi di salute mentale, che vogliono perseguire una vision e una mission orientate alla riabilitazione e alla recovery, non possono non occuparsi anche del problema dello stigma (Carozza, 2021). Inoltre, un ulteriore ragione per cui i servizi di salute mentale dovrebbero occuparsi di stigma, è data dal fatto che anche al loro interno si possono verificare fenomeni di stigmatizzazione attraverso comportamenti ed atteggiamenti che gli operatori stessi possono mettere in atto quotidianamente e che riflettono, spesso, gli stessi stereotipi e pregiudizi negativi sulla malattia mentale della popolazione generale. Si parla in questo caso di “stigma iatrogeno” (Pingani et al.,2021). Alcuni esempi di attitudini stigmatizzanti sono: pessimismo, paternalismo, infantilizzazione, mancanza di rispetto, mancanza di speranza e basse aspettative. Tali atteggiamenti possono risultare in uno scarso coinvolgimento delle persone con malattia mentale nei trattamenti e nell’ostacolarle a fare scelte o ad assumersi la responsabilità, riducendo così il loro livello di empowerment (Mimosa et al., 2020).
Il servizio di salute mentale di Ferrara, per fronteggiare tale problema, ha avviato l’implementazione del programma “Comig Out Proud – Per eliminare lo stigma della malattia mentale”, con l’obiettivo sia di offrire agli utenti un importante strumento per fronteggiare il self-stigma sia di favorire un cambiamento culturale del Dipartimento di Salute Mentale.
Uno degli elementi cruciali emersi dai resoconti dei partecipanti al programma è stato il valore aggiunto dell’esperienza di confronto e di condivisione col gruppo dei pari. Tale aspetto è confermato anche dalla letteratura, la quale ci dice che gli interventi gestiti da pari risultano, infatti, tra i più efficaci nel ridurre il self-stigma e lo stress correlato, in quanto permetterebbero di aumentare la propensione alla ricerca di aiuto, migliorando gli esiti di recovery, incrementando l’empowerment e il senso di autoefficacia (Magalhaes et al., 2015; Sun et al., 2022).
A questo proposito, c'è un paradosso nell'autostigma: sebbene alcune persone affette da malattia mentale interiorizzino il self-stigma e ne subiscono i danni in termini di autostima, autoefficacia e obiettivi persi, altre persone, invece, sembrano ignare dei suoi effetti e non ne soffrono. Tuttavia, spesso emerge un terzo gruppo particolarmente interessante: quello di coloro che sembrano indignarsi giustamente per l'ingiustizia dello stigma. È questo terzo gruppo che potrebbe suggerire un antidoto all'auto-stigma: il ricorso all'empowerment personale, che è, in un certo senso, il rovescio della medaglia dello stigma, e implica potere, controllo, attivismo, giusta indignazione e ottimismo.
Le indagini hanno dimostrato che l'empowerment è associato a un'elevata autostima, a una migliore qualità della vita, a un maggiore sostegno sociale e a una maggiore soddisfazione nei confronti dei trattamenti. Utilizzare e incrementare l'empowerment è quindi il modo più efficace per ridurre il self-stigma.
L’importanza del trauma
Scrive Laura: “E’ importante che ci siano riconosciuti i traumi, perché se tenuti taciuti ti portano ad avere dei forti sensi di colpa, ti senti una persona completamente sbagliata”. Ed è così. La ricerca ha costantemente rilevato che le persone che si rivolgono ai servizi di salute mentale hanno sperimentato eventi traumatici nell'infanzia o nell'età adulta con una frequenza maggiore rispetto alla popolazione generale. I loro effetti negativi sono cumulativi: maggiore è il numero di esperienze traumatiche a cui una persona è stata esposta, maggiore è l'impatto sulla salute mentale e fisica (Shevlin et al., 2008) e maggiore sarà la probabilità di tentare il suicidio, di praticare l'autolesionismo, di avere ricoveri ospedalieri più lunghi e di assumere dosaggi più elevati di farmaci (Read et al., 2007; Mauritz et al., 2013).
Un trauma infantile modella anche la nostra neurobiologia: come ci dimostra la ricerca neuroscientifica, l’impatto sul cervello del trauma consistente in cambiamenti dei sistemi sensoriali, del volume della materia grigia, dell'architettura neurale e dei circuiti neurali (Read et al., 2014). L'esperienza di un trauma infantile complesso crea un “modello” attraverso il quale vengono elaborati gli input futuri; infatti, le risposte neurali possono essere riattivate da stress apparentemente minori (Van der Kolk, 2005). Ciò significa che i sopravvissuti al trauma sono “programmati” a rispondere in modo specifico in situazioni in cui si percepisce una minaccia, perché hanno caratteristiche simili a quelle di eventi traumatici passati.
Il trauma è costoso sia in termini umani che economici. I costi economici includono quelli derivanti dalla perdita del lavoro, dal mantenere un ruolo lavorativo, ma in modo disfunzionale, dalla riduzione della produttività e dal ricorso ai di servizi di salute mentale e di altro tipo (McCrone et al., 2008). Ma il vero impatto è sulle persone e sulla società. Il trauma non colpisce solo gli individui nel presente, ma influenza le generazioni a livello sociale, psicologico e, secondo recenti evidenze, anche epigenetico (Yehuda et al., 2016).
Gli approcci sul trauma nell'ambito dell'assistenza psichiatrica si basano su una letteratura abbastanza ampia, ma solo un piccolo numero di studi ha esplorato la loro efficacia, che, laddove è stata misurata, si è manifestata con una riduzione dei sintomi e dell'uso della contenzione, oltre a miglioramenti nelle capacità di coping, nella salute fisica, nel mantenimento del trattamento e nella durata più breve delle degenze (Sweeney et al.,2016). I sopravvissuti al trauma traggono beneficio, oltre dal miglioramento dell'autoregolazione emotiva, anche dallo sviluppo di relazioni sane, che possono essere state carenti durante l'infanzia, rendendo “difettoso” quel processo di attaccamento sicuro al proprio caregiver primario. Attraverso tali relazioni, i sopravvissuti al trauma possono imparare a sentirsi al sicuro, a fidarsi degli altri, ad apprendere nuovi modi di rapportarsi con le persone e a sviluppare l'autocompassione (Van der Kolk, 2014).
Cos'è il trauma?
Sia il DSM-5 che il ICD-11 hanno riportato l'attenzione clinica sulla definizione del trauma e dei suoi effetti. Nel DSM-5, il trauma e le condizioni di salute mentale correlate sono scatenati da eventi esterni, come l’esposizione a morte reale o minacciata, a lesioni gravi o a violenza sessuale, attraverso l'esperienza diretta o come testimoni dell'evento/i (American Psychiatric Association, 2013). L'ICD-11, invece, considera il disturbo post-traumatico da stress complesso (CPTSD) (Karatzias et al., 2018), per la cui diagnosi devono essere presenti, oltre a tutti i criteri diagnostici per il PTSD, difficoltà nella regolazione degli affetti, bassa autostima e alterazione nelle modalità di attaccamento alle relazioni.
In generale si può definire il trauma composto da tre fattori: l'evento traumatico, che non deve necessariamente essere un evento che minaccia la vita, ma rientrano anche circostanze che minano l’integrità psicologica/sociale; il modo in cui l'evento viene vissuto dalla persona (il contesto intra- e interpersonale) e i suoi effetti. Nella tabella che segue sono esplicitati i tre fattori del trauma.
In particolare, i traumi sociali hanno un ruolo importante nella patogenesi delle malattie mentali, aspetto trascurato dal DSM-5 e dall'ICD-11. Ad esempio, la povertà è stata descritta come “la causa delle cause” del disturbo mentale (Read, 2010). È stato, inoltre, rilevato che le persone di colore hanno contemporaneamente maggiori probabilità di subire traumi (Hatch e Dohrenwend, 2007), sono sovrarappresentate nel sistema di salute mentale e ricevono trattamenti coercitivi in misura maggiore della media (Morgan, 2004; Mohan, 2006).
La ri-traumatizzazione
L'attuale sistema di salute mentale tende a considerare i comportamenti disfunzionali come sintomi di malattie mentali, piuttosto che come adattamenti di fronte a traumi passati o attuali. Di conseguenza, le risposte tradizionali alle persone che versano in condizioni di estremo disagio possono essere poco utili e persino (ri)traumatizzanti. La (ri)traumatizzazione - che significa diventare di nuovo traumatizzati - si verifica quando qualcosa in un'esperienza presente ricorda un trauma passato, vissuto quindi dal soggetto come l'incapacità di fuggire da una minaccia, percepita o reale, o di scongiurarla. Forme evidenti di (ri)traumatizzazione sono l'isolamento, la contenzione, la medicazione forzata, le perquisizioni corporali, l'osservazione continua e i comportamenti stigmatizzanti.
Nello specifico, l'osservazione costante di un paziente in un reparto psichiatrico e la sensazione di paralisi della volontà che ne deriva, scatenano sentimenti associati ai ricordi di intrusioni indesiderate e di mancanza di privacy, vissute nell'infanzia. Esistono prove empiriche del fatto che i pazienti spesso sperimentano eventi traumatici durante un ricovero psichiatrico (isolamento, contenzione, aggressione fisica, ecc.) e che questi eventi siano dannosi sia per coloro che li vivono in prima persona sia per coloro che ne sono testimoni (Freuh et al., 2005; Cusack et al., 2018). Ciò evidenzia la mancanza di comprensione del trauma e di formazione su approcci alternativi per rispondere al disagio, nonché il riconoscimento del ruolo della coercizione nel perpetuare la condizione avversa e nel legittimare un rapporto di potere. L'uso di pratiche di controllo può, ovviamente, essere traumatizzante anche per il personale che le mette in atto o che ne è testimone, a ulteriore sostegno della necessità di adottare metodi alternativi e meno traumatizzanti.
Forme meno evidenti di (ri)traumatizzazione includono l'uso di relazioni che replicano il potere e rendono le persone impotenti, ignorando le loro esperienze, i loro punti di vista e le loro preferenze. Ci possono anche essere modi di offrire le cure o di comunicare, che possono riattivare un trauma, facendo riemergere memorie legate ad un tradimento, ad una violazione dei confini, all'oggettivazione, alla vulnerabilità o alla mancanza di agency sperimentati nel trauma originario (Butler et al., 2011).
Sottile (ri)traumatizzazione: interazioni disumanizzanti nei reparti psichiatrici
Nei reparti di degenza psichiatrica la (ri)traumatizzazione si verifica attraverso relazioni di “potere” che si basano su contenzioni fisiche o chimiche e sulla segregazione. Le ricerche hanno rilevato che l'uso della contenzione fisica aumenta il rischio di lesioni per il personale e per gli utenti e il rischio di morte per gli utenti (Mind, 2013). Gli operatori possono invece adottare e sviluppare tecniche alternative come la de-escalation, le direttive anticipate per la pianificazione delle crisi, l'identificazione dei fattori di rischio, l'ascolto attivo e la mediazione (O'Hagan et al., 2008). Molti studi rilevano che l'implementazione di semplici interventi, che migliorano le relazioni tra personale e pazienti, porta a una riduzione dell'uso del controllo e della contenzione (Bowers, 2015). Gli operatori possono ridimensionare comportamenti come l'aggressività eterolesiva, considerando quali fattori scatenanti legati al trauma, compreso il proprio atteggiamento, potrebbero contribuire alla loro emergenza. Rispondere ad una condotta disfunzionale difensiva in modo aperto e calmo, piuttosto che sfidarla in modo simmetrico, può potenzialmente detendere il livello di eccitazione attraverso un processo di co-regolazione. Comprendere, moderare e gestire le paure e i fattori scatenanti le risposte aggressive è una componente essenziale della pratica informata sui traumi.
Oltre all'uso della segregazione e della contenzione, le relazioni di “potere” si manifestano anche in modi meno manifesti. In ogni caso, sia che siano eclatanti sia che siano più criptiche, le esperienze degli utenti, caratterizzate dall'impotenza e dalla coercizione, possono impedire loro di cercare aiuto e di coinvolgersi nel trattamento (Norvoll e Pedersen, 2016). Diventare informati sul trauma, significa riflettere su eventuali modelli di relazione, che possono compromettere l'autonomia e il senso di sé di una persona, che innescano meccanismi di fuga, lotta o congelamento e che privano della possibilità di creare i sistemi di supporto di cui si ha bisogno. Per esempio, i pazienti ricoverati sono spesso ignorati dal personale dei reparti di degenza, atteggiamento che provoca frustrazione e rabbia evitabili (Sweeney et al., 2014).
È innegabile che alla base delle alleanze terapeutiche positive ci sono le qualità umane del personale e la loro capacità di trasformarle in abilità relazionali. Tutti i pazienti apprezzano operatori che dimostrano gentilezza, calore, empatia, onestà, affidabilità, rassicurazione, cordialità, disponibilità, calma e umorismo (Sweeney et al., 2014). Gli stessi utenti dichiarano di aver instaurato relazioni migliori con i membri del personale che hanno comunicato loro benignità e hanno dimostrato interesse e impegno nei loro confronti. Questi “talenti” qualità creano fiducia, connessione e speranza e sono alla base delle pratiche informate ai traumi. Il personale dovrebbe essere sostenuto, incoraggiato, riconosciuto e valutato in virtù ad esse e non solo dei titoli posseduti.
Trauma vicario
Il trauma vicario si riferisce all'effetto che ha sugli operatori occuparsi delle persone traumatizzate e comprende la fatica comportata dall’essere “compassionevoli”, il controtransfert e il burnout (Schauben e Frazier, 1995). Ma le organizzazioni non formate sul trauma possono esse stesse causare un “trauma vicario” nel personale. Ad esempio, utilizzare la segregazione e la contenzione per gestire il disturbo psichiatrico non è solo dannoso per chi lo vive in prima persona. Il fatto che medici imparano a fare affidamento sul potere, piuttosto che sulla loro capacità relazionale di costruire relazioni collaborative con i pazienti, in particolare quando le organizzazioni non formate sui traumi attribuiscono un'alta priorità alla gestione del rischio, può avere pesanti effetti negativi su di loro, trasformando l’idea di sé da “sono una persona compassionevole e premurosa che è qui per aiutare gli altri” a “spero di superare un altro giorno”. Inoltre, l'uso del potere per gestire comportamenti estremi può indurre i pazienti a temere il personale e a diffidarne, con la conseguenza che tale assenza di coinvolgimento aumenta la frustrazione e l’insoddisfazione degli operatori, che si affidano ancora di più al potere e al controllo. Sandra Bloom nel 2006 ha descritto questi fenomeni come “processi paralleli”.
Cosa sono gli approcci informati al trauma e perché ne abbiamo bisogno?
Gli approcci informati al trauma, sviluppati inizialmente in Nord America, stanno ricevendo una crescente attenzione a livello globale e si basano sul riconoscimento e sulla comprensione dell’evento dirompente e dei suoi effetti. Ciò comporta un radicale cambiamento di paradigma, che non si basa più sulla domanda “Cosa c'è di sbagliato in te?” ma su chiedere “Cosa ti è successo?”. Piuttosto che essere un servizio specifico, gli approcci informati al trauma sono un processo di cambiamento organizzativo, volto a creare ambienti e relazioni che promuovano la recovery e prevengano la (ri)traumatizzazione.
Viene dato rilievo ai modi in cui il trauma può influenzare le emozioni e, quindi, il comportamento, portando allo sviluppo di strategie disadattive di coping, che possono essere eccessive, pericolose o dannose, se non vengono colte come sue conseguenze. La comprensione delle diverse forme di trauma (traumi comunitari, sociali, culturali e storici, come il razzismo, la povertà, il colonialismo, la disabilità, l'omofobia e il sessismo) richiede operatori sensibili al contesto e alle condizioni di vita delle persone, competenti dal punto di vista culturale e di genere e con una mentalità aperta, laica e pronta a considerare tutte le prospettive.
Prevenzione del trauma nel sistema di salute mentale
Le pratiche informate al trauma si basano sull’assunto che interventi di coercizione e di controllo nei servizi di salute mentale possono portare alla (ri)traumatizzazione e al trauma vicario. Pertanto, dovrebbero essere adottate misure per eliminare e/o attenuare le fonti di coercizione e di esercizio della forza, nonché i relativi fattori scatenanti. Nella tabella che segue sono riportati i principi delle pratiche informate al trauma.
I principi dell'approccio informato al trauma si sovrappongono ai principi che ispirano le altre buone pratiche. Ad esempio, i valori di collaborazione, di empowerment, di scelta informata e di controllo sono gli stessi del processo decisionale condiviso (Elwyn et al., 2012) e della prassi del coinvolgimento degli utenti nella pianificazione delle cure (Grundy et al., 2016). L’importanza delle competenze culturali e di genere è ormai fuori discussione (Schouler-Ocak et al, 2015; Against Violence and Abuse, 2017).
Ostacoli all’adozione di approcci informati al trauma nei servizi di salute mentale
Esistono barriere sistemiche ed ostacoli, che possono impedire ai singoli operatori di impegnarsi pienamente in relazioni che agiscono sulla dimensione traumatica, tali aspetti sono riportati nella tabella che segue.
Comprendere gli adattamenti disadattivi al trauma
Molti dei comportamenti mostrati dai sopravvissuti a un trauma possono sembrare pericolosi o bizzarri se non vengono visti con la “lente del trauma”. Questo accade quando si considera l'individuo come il problema, trascurando il mondo in cui l'individuo vive, e quando le azioni che si intraprendono per adattarsi o sopravvivere sono private di significato (Filson, 2016).
Presupponendo che gli utenti possano aver subito un trauma e partendo dal presupposto che alcuni comportamenti estremi possono essere adattamenti a eventi devastanti passati, piuttosto che sintomi di una malattia mentale, gli operatori possono comprendere meglio come un sopravvissuto affronta il momento presente. Spesso, infatti, molte delle condotte problematiche di una persona possono essere il miglior tentativo per affrontare e comunicare il proprio dolore e per connettersi ad esso (Filson, 2013).
Anche l'assunzione di rischi o il comportamento autodistruttivo (ad esempio, l'uso di sostanze illecite, l'autolesionismo estremo) possono essere un modo inconscio di contenere la sofferenza interna, di negare la vergogna e la bassa autostima, di regolare le emozioni, di lottare, di fuggire o congelarsi (Baker et al., 2013). Alla luce di quanto affermato, piuttosto che etichettare i pazienti, che mostrano comportamenti difficili, come “manipolatori” o “in cerca di attenzione”, gli operatori possono cercare di comprendere il disagio, le paure sottostanti e la difficoltà ad esprimerli e connettersi con loro in modo empatico, invece che giudicante.
Le ricerche indicano che l'aver subito un trauma nell'infanzia ha un effetto importante sul neurosviluppo, attivando facilmente risposte emotive e comportamentali intense anche alle minime minacce e compromettendo sia la capacità di calmarsi sia la capacità integrativa (Van der Kolk, 2003). Un'angoscia di questo tipo non può essere gestita facilmente attraverso il linguaggio, che spesso ha dimostrato la sua impotenza nel fermare l'abuso, in particolare quando il “no” viene ignorato e la violazione non viene interrotta. Ancora una volta, i comportamenti eccessivi possono essere l'unico mezzo che un sopravvissuto al trauma ha per esprimere o comunicare l'estrema angoscia che sta vivendo (Filson, 2013).
A volte l'eziologia del disturbo è meno importante di come l’operatore risponde al disagio, nel senso che la sua azione può sia aumentare lo stato soggettivo di difficoltà e di allarme sia avere effetti del tutto opposti, favorendo il ritorno all'omeostasi emotiva e fisiologica. Tuttavia, riconoscere il dolore emotivo e psicologico sottostante e lavorare con la persona perché sviluppi le abilità per gestirlo, eliminarlo o persino trasformarlo richiede la disponibilità a adottare un modello olistico della malattia mentale, che metta al centro il ruolo causale del trauma e la gravità del suo impatto. Ciò comporta il passaggio da una concezione biomedica della salute mentale a un modello biopsicosociale.
Aspettativa universale del trauma: superare le relazioni di “potere-sopravvivenza”
Blanch e colleghi (2012) hanno individuato le caratteristiche che devono avere le relazioni tra operatori informati al trauma e sopravvissuti al trauma. Tali aspetti sono:
- Assenza di giudizio morale, empatia, rispetto e comunicazione onesta e diretta.
- Consapevolezza dei pregiudizi razziali o culturali e creazione di uno spazio in cui le persone possano esplorare e definire la propria identità culturale.
- Adozione di una “lente di genere”, per creare ambienti più sicuri e sviluppare supporti che rispondano ai bisogni e alle storie di donne e uomini.
- Utilizzazione di linguaggio che riflette le esperienze umane piuttosto che quello clinico, per consentire alle persone di esplorare la totalità delle loro vite.
- Superamento della modalità paternalistica di relazione, a favore della mutualità e della condivisione del potere.
Essere informati al trauma significa riconoscere che alcuni modi di “aiutare” possono rafforzare l'impotenza e la vergogna, erodendo ulteriormente il senso di sé la capacità di dirigere la propria vita, mantenendo le persone in ruoli di dipendenza, suscitando rabbia e frustrazione o provocando risposte di lotta, fuga e/o congelamento (Blanch et al., 2012). Purtroppo, non sempre gli operatori sono consapevoli degli effetti delle dinamiche di potere all'interno delle quali lavorano e della predominanza di approcci depotenzianti.
Riflessioni conclusive
Diventare informati al trauma non significa spuntare un elenco di azioni ma implica un cambiamento ideologico e culturale dei servizi, che porta gli operatori da fare il passaggio, già sopra citato, dal pensare “Cosa c'è di sbagliato in te?” al considerare “Cosa ti è successo?”. Introducendo i principi dell’approccio al trauma, il personale della salute mentale cerca di: riconoscere i tassi di trauma, compresi quelli sociali e dello sviluppo, tra le persone che si rivolgono ai servizi di salute mentale; fare indagini sensibili sull'abuso sessuale e indirizzare le persone verso un supporto appropriato; garantire la competenza culturale e di genere; adottare modelli basati sui punti di forza, che vedano l'utente del servizio come esperto della propria vita e come capace di apprendere le capacità necessarie per sopravvivere; connettersi in modi che riconoscano il dolore alla base del disagio e dei comportamenti estremi; riconoscere e affrontare gli squilibri di potere che ostacolano la reciprocità, la collaborazione e la scelta, e di conseguenza impediscono ai sopravvissuti di impegnarsi con i servizi (Elliot et al., 2005).
Gli approcci informati al trauma stanno chiaramente iniziando a entrare nella pratica della salute mentale e stanno influenzando anche i servizi per i senzatetto, i servizi per l'infanzia e la famiglia, i servizi di giustizia penale per minori e adulti e i servizi per la violenza domestica. Un esempio è rappresentato da One Small Thing, un'associazione inglese che si occupa di donne nel sistema di giustizia penale, per sviluppare una pratica informata al trauma. Il nome dell'associazione riflette il valore di piccole attenzioni - come la compassione, la comprensione e il rispetto - e il loro potere di fare la differenza.
L’importanza per i pazienti del coinvolgimento dei loro familiari da parte dei servizi per il benessere psicologico dei pazienti
È Claudia che ribadisce, in più punti della sua testimonianza, quanto possa essere grave l’impatto della malattia mentale di un congiunto sui suoi familiari, quanto le loro reazioni emotive negative possono peggiorarla e quanto, invece, il loro benessere psicologico influisca positivamente anche sul benessere psicologico di chi ha il problema. Per questo, il trattamento di una persona che vive con una malattia mentale richiede un approccio completo, che include la partecipazione attiva della sua famiglia, la quale, però, ha spesso limitate opportunità di offrire informazioni, poco potere di influenzare le decisioni e può sentirsi sola nel trattamento del proprio congiunto. Gli operatori, a loro volta, si rendono conto di essere male equipaggiati, non supportati o di non avere il tempo per intraprendere tale lavoro. Tutto questo anche se è ampiamente riconosciuto che per migliorare i servizi e aumentare l’efficacia dei trattamenti è necessario utilizzare, oltre le esperienze personali dei pazienti, anche quelle di tutte le figure per loro significative.
L'importanza del suddetto principio è sempre più riconosciuta in tutto il mondo (Dhanda e Narayan, 2007; Sunkel, 2011): ci sono ampie prove di efficacia che la collaborazione dei caregiver e delle famiglie con i servizi non è solo utile per i risultati a breve termine, ma può anche portare a miglioramenti duraturi nella salute mentale, nel funzionamento e nella qualità della vita di coloro che hanno disturbi mentali.
Purtroppo, le famiglie sono, spesso, state escluse dai percorsi di cura dei loro cari e poca attenzione è stata prestata ai loro ruoli di supporto e alla loro esperienza “vissuta”. La chiusura degli OP, avviata in molti paesi durante la seconda metà del ventesimo secolo, tuttavia, ha determinato il rientro di molte persone con le malattie mentali nel proprio contesto di vita, “obbligando” i familiari ad aiutare i pazienti a mitigare l'impatto della malattia mentale. Contestualmente, è avvenuto un profondo cambiamento culturale nella comprensione del ruolo delle famiglie nell’insorgenza della malattia mentale, non più ritenute responsabili del problema, nella misura in cui il manifestarsi di un disturbo psichiatrico è stato attribuito ad una combinazione di fattori biopsicosociali.
Attualmente, c'è un crescente interesse nei confronti dei movimenti che sostengono l'empowerment delle famiglie delle persone con un problema di salute mentale, il cui coinvolgimento sta diventando un principio guida nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Australia e in molti altri paesi. Esso è sostenuto da evidenza scientifica e da esperienza clinica: la nascita di gruppi di famiglie e la loro partecipazione attiva nella pianificazione e nella valutazione dei sistemi sanitari favoriscono servizi più accessibili e miglioramenti della qualità dei trattamenti (World Health Organization, 2001; (Katantoka, 2007; Royal Australian and New Zealand College of Psychiatrists, 2014; Royal College of Psychiatrists, 2009).
Dunque, la collaborazione tra i professionisti della salute mentale e le famiglie può essere di grande utilità per i propri cari con malattia mentale. Nella tabella che segue, sono riportati i principali benefici di tale alleanza.
Ogni situazione è unica e la collaborazione dovrebbe essere adattata alle esigenze specifiche dell'individuo e della sua famiglia. Anche qui, la comunicazione aperta, l'empatia e il rispetto reciproco sono la chiave per un’intesa di successo tra chi cura e chi assiste.
Note
Nota 1: Per piano di trattamento “integrato” si intende un percorso di cura, dove sono utilizzati anche trattamenti psicosociali, oltre a quelli farmacologici, dove sono coinvolte diverse professionalità e dove partecipano anche figure non sanitarie (familiari, amici, partner, datori di lavoro, etc..)
Nota 2: Precontemplazione: il cambiamento del comportamento non viene considerato. Si è ignari di potenziali problemi. 2) Contemplazione: la persona sta cominciando a riconoscere che il suo comportamento è problematico e inizia a valutare i pro e i contro di continuare ad adottarlo o di cambiarlo. 3) Autorivalutazione: la persona si convince che gli svantaggi di continuare a adottare quel comportamento sono maggiori di quelli di cambiarlo. 4) Azione: la persona inizia a cambiare il comportamento. 5) Mantenimento: la persona riesce a mantenere il comportamento cambiato.
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