Volume 30 - 16 Aprile 2025

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In viaggio: la via della consapevolezza

Autrice

Ricevuto il 18 novembre 2024; accettato il 27 dicembre 2024



Riassunto

Il presente contributo utilizza la metafora del viaggio per mettere in evidenza l'essenza della pratica di consapevolezza (sati-mindfulness). Decidersi per questo viaggio significa abbandonare lo stato in cui sono immersi i nostri giorni, quell'atmosfera tossica di affanno, ricerca di emozioni, intorpidimento e soprattutto paura della vita. Fermarsi e rimanere in silenzio, coltivando l'attenzione a sé e alla vita che accade: questa pratica fa incontrare deserti interiori, miraggi, spaesamenti; conosce la fatica, il tedio, la distrazione. L'incontro fiducioso e perseverante con il maestro interiore ci insegna che vivere in modo diverso è possibile, che ogni vera ricerca ci porta nel luogo dove già ci troviamo, per apprezzarlo con occhi nuovi.


Summary

This contribution uses the metaphor of the journey to highlight the essence of the practice of awareness (mindfulness). Deciding on this journey means abandoning the state in which our days are immersed, that toxic atmosphere of anxiety, search for emotions, numbness and above all fear of life. Stopping and remaining silent, cultivating attention to oneself and to the life that happens: this practice brings together interior deserts, mirages, disorientations; knws fatigue, tedium, distraction. The confident and persevering encounter with the inner master teaches us that living differently is possible, that every true search takes us to the place where we already find ourselves, to appreciate it with new eyes.


“La meta del cammino dell'uomo è il compimento dell'esistenza. C'è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare (…). C'è qualcosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare compimento dell'esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova”
(M.Buber)

La tendenza a viaggiare è una caratteristica dell'uomo fin dalla sua comparsa sulla terra.

Il primo viaggio che ci apprestiamo a fare è quello della nascita. Il neonato si lascia alle spalle la vita che conosce, i rumori familiari, le sensazioni note al suo corpo e alla sua mente. Abbandonando il grembo materno per un altro luogo i confini attorno a lui scompaiono, quell'utero morbido che faceva da culla cede il posto allo spazio aperto e infinito. Si abbandonano le acque e si entra in contatto con il primo respiro.

Alla fine del primo anno di vita il bambino comincia il processo di separazione-individuazione nei confronti della madre (M.Mahler). Bowlby con il concetto di “base sicura” sottolinea che da questo momento della vita e da questo tipo di rapporto con la madre nasce il desiderio di esplorare il mondo. Il bambino emotivamente sicuro, infatti, usa la madre come una base a cui può fare periodicamente ritorno e che non perde mai di vista mentre scopre le novità dell'ambiente circostante. “Con l'impulso alla maturazione di funzioni autonome, come il pensiero e la deambulazione, inizia l'avventura amorosa con il mondo. Il bambino compie il più grande passo verso l'individuazione umana. Cammina liberamente in posizione eretta. Così, il campo visivo cambia; da una posizione completamente nuova scopre notevoli e inaspettate prospettive, soddisfazioni e frustrazioni” (Mahler, 1978).

Con l'adolescenza verrà sperimentata una nuova modalità del processo di separazione-individuazione dal mondo degli adulti significativi. Il bambino lascio lo spazio al futuro adulto. Nuovi bisogni di autonomia e indipendenza si alternano tra di loro in un individuo in formazione che stenta “a riconoscersi e a capirsi” (Senise, 1990). Winnicott definisce l'adolescenza come una “seconda nascita” un altro importante momento di separazione alla ricerca di una propria identità. Nuovi percorsi di conoscenza, crescita e formazione, veri e propri riti di iniziazione che segnano in modo indelebile la vita del giovane dove può correre anche il rischio del disorientamento e della dispersione.

Così andiamo avanti dalla nascita in un viaggio in continua evoluzione.

Il viaggio come metafora della vita è anche una delle più frequenti e antiche in tutte le culture, le letterature, un concetto trattato molto spesso dagli scrittori di ogni epoca.

Citando soltanto alcuni dei grandi classici, pensiamo subito all'Odissea di Omero che, nella vicenda di Ulisse, forse riassume integralmente i significati concreti e simbolici legati al tema del viaggio, che non consiste nel semplice tornare in patria, ma piuttosto nel superamento di mille pericoli, ostacoli, e prove. Il viaggio diventa prova di conoscenza. Itaca è la meta di un viaggio di ritorno, quello che a un certo punto ogni viaggiatore deve intraprendere per tornare all'origine, per rincontrare se stesso.

Anche per Dante il viaggio diventa simbolo della ricerca interiore dell'uomo “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, un appello contro l'imbarbarimento dell'essere umano, e in quanto uomini, a far tesoro della nostra intelligenza e a seguire la strada della virtù (verso 119 del canto XXVI dell'inferno, la prima delle tre cantiche che compongono la Commedia).

Ricordiamoci inoltre l'opera di Ariosto che con il suo poema epico “L'Orlando furioso” offre al lettore un catalogo di meraviglie e di incantesimi attraversato in un viaggio fantasmagorico; Virgilio, che nella narrazione dell'Eneide racconta il viaggio per il Mediterraneo di Enea dalla sua terra alle spiagge della nostra penisola, o a Marco Polo dove nel Milione troviamo il racconto del viaggio nell'altro mondo.

Con il cristianesimo il viaggio diventa davvero la metafora della vita. Su questa terra siamo dei pellegrini in attesa dell'ultimo viaggio verso l'altra vita.

Nella letteratura del novecento quella del viaggio diventa una metafora dello spaesamento e del disorientamento dell'uomo. Viaggi aiutati anche dalla psicoanalisi, la nascente scienza dell'inconscio, che nella “Coscienza di Zeno” di Italo Svevo vede il protagonista, proprio con lo strumento della psicoanalisi, ad affrontare un viaggio. È un viaggio nella memoria. Un flusso continuo di ricordi istituisce un percorso, che porta il protagonista a ricercare il sé definendo infine proprio la vita che secondo lui “...non è né bella né brutta, ma è originale. È un'enorme costruzione priva di scopo, forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e non vi appartiene”.

La letteratura, se la vita è un viaggio, non può esimersi dal raccontarlo. Lo narra in molti modi, e il viaggio dell'essere umano metafora di vita diventa fisico, letterale, allegorico, metaforico, fantastico e simbolico.

Il tema ha poi conosciuto trasformazioni significative all'interno dell'odierna cultura e civiltà di massa: dai viaggi nello spazio attraverso l'invio di sonde in esplorazione di altri mondi, ai viaggi per terra e per mare, secondo rotte ormai consuete come i Balcani e il Mediterraneo dove si scappa da dittature, guerre, povertà, fame, cambiamenti climatici. Dal Nord Africa ma anche dall'intero continente si viaggia verso l'Europa per un futuro diverso e migliore.

Poi ci sono i viaggi della fantascienza, un futuro che è diventato presente per il nostro vivere quotidiano. Il cosiddetto “villaggio globale” ha poi generato i suoi viaggiatori, immersi-dispersi in uno spazio tecnologico-industriale che rischia di esaurire il fascino dell' “altrove”, dell'ignoto.

Ai nostri giorni possiamo ritrovare nel viaggio anche un'esperienza quotidiana che si ripete in continuazione come nel caso dei pendolari, un modo normale di partire e tornare, quasi una consuetudine. Una tale routine che, citando Eugenio Montale nella poesia “Prima del viaggio”, tratta dall'ultima sezione della raccolta Satura (Mondadori 1971), “Un imprevisto è la sola speranza” che possa ravvivare non solo i preparativi, ma anche lo svolgimento dello stesso.

Dal greco metapherein, la parola italiana metafora, è costituita dalla parola meta, che vuol dire “sopra, o oltre” e implica un cambio di stato o di luogo, e dalla parola pherein, che vuol dire “portare o sopportare”. In greco sia antico che moderno, la parola metapherein vuol dire normalmente “trasportare o trasferire”.

Spesso le metafore abbondano nelle nostre vite, ma diamo per scontato che i concetti che ne stanno alla base possono condizionare molto di più di quanto non pensiamo, il modo in cui consideriamo noi stessi e il nostro mondo, e dunque il modo in cui siamo e agiamo. Pertanto prendere in seria considerazione una metafora, portarla alla coscienza, tenerla nelle nostre menti e nei nostri cuori, vuol dire permettere a noi stessi di essere “portati oltre”, verso qualche sottile, eppure profondo cambiamento interiore.

Il linguaggio metaforico ha il potere di smuovere il pensiero: da una posizione descrittiva degli eventi ci si sposta ad una posizione esperienziale, che coinvolge i sensi e le emozioni. Utilizzare il linguaggio metaforico significa creare, comprendere più a fondo se stessi e le proprie possibilità espressive e riprogettarsi grazie alla parola, al linguaggio.

Il viaggio come metafora della vita, in questo contesto, vuole approfondire e descrivere più profondamente l'essenza della pratica di consapevolezza.

Facendo un parallelo con il viaggio di Ulisse, che finemente Hermann Fischer nel suo testo “Tornare a casa. Un commento Zen all'Odissea”, si descrive il viaggio della consapevolezza come un viaggio di ritorno e sottolinea come in diverse tradizioni religiose si ritrova questa metafora: nell'ebraismo l'idea di teshuvah, il tornare alla casa originale in Dio; Gesù lascia il mondo e ritorna con la resurrezione; nel Buddhismo Mahayana prendere rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha vuol dire ritornare alla propria natura originale. Il termine rifugio viene dal latino e letteralmente vuol dire “volare indietro” come un uccello al suo nido.

Come nell'esperienza del déjà vu (non sono già stato qui?), i viaggi di ritorno sono misteriosi e paradossali. Partiamo da casa, e ritorniamo a casa, compiendo un intero giro.

“Ma che senso ha tale viaggio, se dobbiamo partire e tornare al punto di partenza? Questo vagare, difficile e circolare, ha un senso. È vero, torniamo al punto di partenza, e torniamo con nulla che non avessimo già. Tuttavia, allo stesso tempo, c'è una differenza fondamentale: siamo diversi, e diverso e più profondo è il modo in cui apprezziamo ciò che è ed è sempre stata la nostra vita (...).

Non è quello verso qualche luogo nuovo, ma semplicemente quello che ci riporta a casa, alla nostra vera natura innata: tornare a ciò che siamo.” (Fischer p.30-31) Un viaggio paradossale che ci invita a partire e a porci come destinazione finale il momento presente, in fondo l'unico momento dove possiamo vivere davvero.

Ma proprio come viene descritto Ulisse, uomo del ricordo ma anche della dimenticanza, l'essere umano tende a perdersi e a voler dimenticare chi è veramente.

Wilfrid Stinissen teologo svedese (2006) nel suo testo “Eternità nel mio tempo” sottolinea questa caratteristica dell'uomo :“Spesso quando si parla della vita del momento presente mi accorgo che le persone mi ascoltano con un'attenzione insolitamente viva. È un tema a proposito del quale tutti vogliono sentire di più. È un anche un tema 'ecumenico' dove confluiscono tutte le religioni. In tutte le religioni si trova la raccomandazione di vivere nell'adesso. Tutti gli insegnamenti di saggezza concordano sul fatto che questo è un punto fondamentale. Il fatto che l'essere umano si senta bene a vivere il presente sembra essere collegato alla sua sapienza originaria, innata. Questa profonda convinzione però, non ci impedisce di fuggire sistematicamente dal presente”.

Ricorda le parole di Octavio Paz (1990) nel suo discorso durante il conferimento del premio nobel per la letteratura quando ha parlato della 'espulsione dal presentÈ. “Abbiamo perso il presente, sembra che siamo stati cacciati dal paradiso terrestre del presente. Spesso l'unica cosa che ci rimane sono ricordi dolorosi di un passato complesso, fallito e la paura di un futuro ignoto.

Forse il nostro più grande difetto è la nostra assenza, siamo sempre da qualche altra parte rispetto a dove dovremmo essere. Arriviamo in anticipo o in ritardo. Viviamo nella realtà che esisteva un tempo o in quella che verrà (benché spesso non viene come avevamo immaginato). Smarriamo la realtà. La ricerca del presente non è ricerca del paradiso terrestre né dell'eternità senza tempo: è la ricerca della realtà vera dice Octavio Paz. Invece di passeggiare nella realtà vera vaghiamo nella realtà immaginaria e ci stupiamo di non essere allegri! Vivere in una realtà immaginaria non arreca una gioia duratura”.

Anche lo psicologo transpersonale Ken Wilber concorda su questo fatto: “La verità è che il presente è l'unica realtà non ve n'è un'altra. Sembra tuttavia che solo pochi di noi vivono unicamente e completamente il presente. Ci soffermiamo su ieri e sogniamo sempre al domani e ciò ci lega alla tortuosa catena del tempo e al fantasma delle cose non realmente presenti. Disperdiamo le nostre energie in nuvole fantastiche di ricordi e aspettative privando il presente che viviamo della sua fondamentale realtà e lo riduciamo a un presente inconsistente, che dura appena uno due secondi, una pallida ombra del presente eterno. Incapaci di vivere nel presente senza tempo e di godere dei piaceri dell'eternità, ricerchiamo deboli sostituti nelle semplici promesse del tempo sempre sperando che il futuro abbia ciò di cui così miseramente manca il presente. Il nostro presente è dunque limitato da ogni parte inserito tra passato e futuro come un sandwich, limitato, circoscritto, chiuso. Non è un momento aperto, è un momento schiacciato compresso e di conseguenza un momento fuggevole che passa, passa soltanto. Poiché il passato e il futuro quelli sono reali, il momento presente, companatico fra due fette di pane se così possiamo chiamarlo, si riduce soltanto a una fettina sottile così che la nostra realtà diventa molto presto tutto pane e niente companatico”.

È un ritorno necessario e richiede sforzo: un necessario, giocoso, continuo sforzo che costituisce la nostra ricompensa stessa. Pratichiamo non per migliorare la nostra situazione, quanto, piuttosto, per riconoscerla, celebrarla, ed esprimere ciò che realmente siamo e siamo sempre stati. “Sforzo senza desiderio”, scrive Dogen. Spesso i nostri sforzi sono tesi al soddisfacimento e alla glorificazione dell'io, in una rincorsa estenuante della felicità, che però per definizione, è sempre seguita come un'ombra dal dolore e dalla sofferenza. Ecco il richiamo seppur paradossale, ma necessario, di un cambio di prospettiva: si richiede uno sforzo per imparare a vivere senza sforzo. “Vivere in spontanea consapevolezza, avere coscienza di vivere senza sforzo, essere pienamente interessati alla propria vita (…) la vera felicità è spontanea e senza sforzo.” (Maharaj p.78-80)

Il viaggio di ritorno è qualcosa che ognuno deve fare a proprio modo. Può confondere, può essere scomodo, preoccupante e all'inizio semplicemente lo evitiamo, ma non possiamo ignorare questa strana necessità di tornare a noi stessi.

Il filosofo della religione Martin Buber parla di situazione “religiosa” dell'uomo intesa come esistere nella presenza. Afferma che la religione non è una sfera separata della nostra attività o uno speciale evento di santità o qualcosa per la domenica e per la chiesa. La religione è il nostro vivere, la nostra presenza, che costantemente si schiude all'interno del paradosso del ritorno. Buber sostiene che la soluzione del paradosso stia nel viverlo. Non c'è altra risposta se non quella di dare completamente se stessi alla propria vita. “Il cammino dell'uomo è necessariamente un ritorno a se stessi, un andare verso se stessi, e come tale è personale e particolare per ciascuno di noi, perchè ogni vita è unica e irripetibile, perchè in ognuno di noi c'è qualcosa di prezioso che non c'è in nessun altro.” (Buber)

La nostra vita che si svolge attimo per attimo costituisce tale viaggio. Un viaggio necessario, intrinseco nella nostra più vera natura. Esso cambia tutto ma, paradossalmente, lo fa senza cambiare nulla. Il viaggio non ci porta da un posto a un altro. Andiamo e torniamo, tuttavia rimaniamo dove siamo.

A volte incontreremo imprevisti ed enormi cambiamenti, a volte tali enormi cambiamenti sono così sottili e intimi che non possiamo nemmeno essere sicuri che abbiano avuto luogo. E a volte sembra che non succeda nulla per molto tempo, mentre aspettiamo l'ordine di avanzare, come capita di aspettare.

Noi esseri umani non siamo soli col nostro bisogno di viaggiare verso casa. Il sole, la luna e i pianeti viaggiano avanti e indietro, giorno dopo giorno, anno dopo anno. La terra viaggia attraverso le stagioni e poi torna indietro.

Altre creature viventi condividono questo viaggio. Le gru canadesi, per esempio, come tanti altri uccelli, piccoli e grandi, percorrono lunghe e pericolose distanze ogni anno, lasciando casa al fine di tornarci. Alla fine dell'estate volano indietro lungo lo stesso percorso. Così come la balena grigia percorre un viaggio annuale di oltre diecimila chilometri per andare da un polo all'altro e per tornare verso casa.

Una delle grandi ragioni che sta alla base della migrazione degli uccelli e delle balene è che la terra è fuori asse ed è anche il motivo per cui le stagioni cambiano. Gli uccelli volano da nord a sud e le balene nuotano da nord e poi verso sud. È come se il pianeta fosse una boccia piena di biglie, che si inclina una volta di qua e una volta di là, con le biglie che rotolano avanti e indietro.

“La terra è naturalmente fuori asse. Questo è il modo in cui funziona, questa è la sua natura. Anche il cuore umano è fuori asse, e questa è la sua natura, questo è il modo in cui funziona.

Come gli uccelli e le balene, come le stelle, i pianeti, e il mondo fisico, anche noi abbiamo l'irrefrenabile impulso a compiere il viaggio di ritorno. Gli uccelli e le balene semplicemente partono quando è ora. Non hanno problemi a cominciare, non provano né disagio né resistenze. Noi, invece, che possiamo pensare e parlare e dunque immaginare altre possibilità, siamo più inclini a lamentarci, a rimanere delusi, frustrati, a sentirci a disagio e confusi davanti allo sforzo del ritorno. Ma in verità non siamo così diversi dalle stelle o da altri animali. Anche noi dobbiamo ubbidire alla nostra natura. Sebbene possa essere difficile da ammettere, non abbiamo altra scelta. La terra, infatti, gira esattamente come deve. È fuori asse soltanto dal nostro punto di vista. E soffriamo e combattiamo esattamente come dobbiamo, lungo il nostro paradossale, intenso e meraviglioso viaggio.” (Fischer p.37)

Il viaggio della consapevolezza comincia con l'assenza, l'attesa, l'incertezza, la frustrazione. Si parte senza andare da nessuna parte e non promette neppure la guarigione. Tutto ciò, sebbene probabilmente interessante, può risultare una perdita di tempo e magari ci possiamo sentire anche bloccati in questa partenza: uno stato di stallo dove aspettiamo per non andare in nessun luogo.

La pratica meditativa è la pratica dell'attesa. Ma cosa si attende davvero? Niente e tutto. Se si aspettasse qualcosa di concreto, tale speranza non avrebbe valore, giacchè sarebbe stimolata dal desiderio di qualcosa che ci manca. Non dobbiamo cercare il chiarimento per quanto lo desideriamo. L'attesa può essere sgradevole, tutti sappiamo quanto sono in genere noiose e scomode le attese. La maggior parte di noi è troppo impaziente per aspettare. Non riusciamo a stare fermi e ci affrettiamo a fare ulteriori programmi e a pianificare azioni di ogni genere. Ma dove ci conduce veramente tutto ciò se non verso vite che non sono altro che elaborati meccanismi di fuga?

Alle volte siamo disposti ad aspettare, ma non sappiamo come farlo. Non abbiamo strumenti né particolari tecniche. Dunque elaboriamo strategie, pensando intensamente alla nostra successiva mossa chiamando tutto ciò un'attesa, ma in realtà non è una vera attesa. La reale attesa richiede che si abbandonino tutti gli obiettivi e i progetti e che si sia disposti semplicemente a sedere sul bordo dei nostri seggi, come fanno i monaci Zen, consapevoli e svegli, in attesa ma senza aspettare qualcosa in particolare.

La maggior parte di noi trova tutto questo intollerabile, impossibile perchè non vogliamo essere passivi, vogliamo essere attivi, intraprendenti. Fare dell'attesa una virtù, il non far altro che aspettare, non sapendo per cosa e per quanto tempo, ci appare come qualcosa che non ha senso, uno spreco di tempo. Può risultare sgradevole il semplice stare lì con nulla da fare e nulla da guardare, e quindi ci distraiamo con un milione di insignificanti dettagli e attività che ci danno l'illusione che noi si stia facendo qualcosa di importante.

Quando saremo finalmente pronti a fermarci per un po', possiamo entrare nella profonda incertezza della nostra attesa che andrà avanti, senza sapere se e quando finirà.

In realtà la pratica della consapevolezza è pura e semplice fiducia. Ci si siede e cosa si fa? Si ha fiducia. Mentre stiamo seduti, apparentemente inattivi, comprendiamo meglio che il mondo non dipende da noi, e che le cose sono come sono indipendentemente dal nostro intervento.

In questo viaggio non ci sono mappe, il sentiero è misterioso, oscuro. Ci conduce agli angoli più remoti, ai significati più profondi delle nostre vite, agli spazi di mezzo, inconsci, inconoscibili. Normalmente pensiamo di sapere chi siamo e cosa sono le nostre vite senza però renderci conto di quanto il nostro pensiero condiziona la totalità dell'esperienza e come tende, il più delle volte, ad essere scarsamente accurato. “Solitamente si tratta di opinioni personali disinformate, di reazioni e pregiudizi fondati su conoscenze limitate e influenzate innanzitutto da condizionamenti passati. Tuttavia, se non riconosciuto e identificato come pesantemente ipotecato dal passato, il nostro pensiero può impedirci di veder chiaro nel presente. Ci culliamo nell'illusione di sapere che cosa vediamo e percepiamo e distribuiamo giudizi a ruota libera su tutto. Con la pratica di consapevolezza cominciamo gradualmente a familiarizzare con questo schema profondamente radicato e la sua attenta osservazione può condurre a maggiore ricettività e accettazione scevre da giudizi.” (J.K.Zinn)

Col tempo cominciamo a capire che le nostre vite non sono ciò che pensiamo, cominciamo a vedere che qualcos'altro sta accadendo e che il compito non sia tanto quello di dar forma o di controllare le nostre storie affinchè vadano a finire in accordo con le nostre preferenze o con i nostri preconcetti, ma piuttosto il riconoscere che le nostre storie, le immagini visibili delle nostre vite sono storie di copertina, racconti che nascondono dentro di essi altre storie che noi possiamo percepire e assaporare ogni tanto ma mai comprendere completamente.

“Le nostre vite sono piene di storie. La nostra giornata comincia con il dramma delle notizie del mattino e prosegue con le storie e i racconti che udiamo da amici, familiari, colleghi, conoscenti. Le canzoni pop ci intrattengono con storie, così come fanno i film, i siti internet, i giornali. Quasi tutte le nostre istituzioni, dalle imprese alla psicoterapia, dalla scuola al pulpito, mandano il loro messaggio attraverso delle storie. E la notte ci addormentiamo con i racconti narrati dai libri, dalle riviste, o dalla televisione, e anche i sogni cullano le nostre anime con la magia dei racconti (…).

Il creare, elaborare e interpretare storie è una grande occupazione, e in ogni istante ci sono milioni di persone che lavorano alla creazione di nuove storie che noi consumeremo, discuteremo, per le quali ci preoccuperemo, per le quali svilupperemo una fissazione, o che ricorderemo e dimenticheremo (…). Le persone si ricordano e inventano storie, storie sacre, storie profane, parabole, favole. Fin dall'infanzia siamo attratti dalle belle storie e dal loro fascino costante; i bambini hanno sempre detto “raccontamela ancora!” (...) Come i bambini, vogliamo ascoltare ancora ciò che già abbiamo udito, per rassicurarci, perchè ogni storia ha un inizio e una fine, un ordine prevedibile che dà soddisfazione. Le storie riflettono le nostre speranze, i nostri sogni, le nostre paure (…).” (Fischer p.18-19)

Ma le storie possono rappresentare anche un'enorme distrazione. Presi dall'ultima soap opera alla televisione, dai giornali, dalle riviste scandalistiche, o dalla vita dei nostri amici, possiamo evitare di prenderci cura di ciò che è reale, delle nostre esperienze, di ciò che è vero, o delle sfide della nostra vita, o dei reali orrori o delle reali meraviglie del mondo.

La maggior parte delle storie della nostra vita sono parziali. Normalmente non è nostra intenzione essere ingannevoli, ma spesso si rende necessario. Al fine di procedere con le nostre vite, per passare da una situazione all'altra, a un certo punto dobbiamo sostenere una storia: questo è ciò che sono, questo è ciò che voglio, qui è dove voglio andare. Per crescere, entrare nella società, interagire con gli altri, navigare nelle nostre vite, abbiamo bisogno di storie, identità, caratteristiche plausibili, ed elementi narrativi che facciano procederne la trama. Alle volte dichiariamo chi siamo veramente ma nessuno ci crede. Alle volte non diciamo chi siamo perchè non è il momento o il luogo adatto. Se riflettiamo sulle nostre storie vedremo che ce ne sono molte dentro di noi, storie vere, storie dubbie, storie false, e questo è altrettanto valido per ogni persona che incontriamo. Abbiamo bisogno di raccontare la storia più autentica possibile sulla vita che stiamo vivendo ora.

Ma nessuna storia può essere completamente vera. Fin tanto che siamo vivi, le nostre storie saranno sempre dubbie perchè la vita non è ancora finita. Ciò che accadrà in futuro potrebbe cambiare l'intera storia. Tutte le nostre storie sono sempre parziali e provvisorie. C'è sempre un altro lato, un altro angolo, qualcosa di non detto, non scoperto, forse indicibile e introvabile.

Molti secoli fa il Buddha ha notato con convincente acume che il modo in cui veniamo presi dalle storie, anche dalle nostre storie personali, può costituire, e normalmente è così, un meccanismo di fuga dai disastrosi effetti. Immersi con passione nel racconto, ci dimentichiamo chi e cosa siamo realmente e, inconsapevoli dei nostri schemi mentali e di comportamento, andiamo avanti, patendo vite meccaniche e incontrollate, facendo male a noi e agli altri.

Come antidoto contro l'ossessione umana per le storie, il Buddha ha proposto la pratica dell'attenzione momento per momento agli elementi percettivi, emotivi e intellettuali dell'esperienza. Egli una volta disse : “in ciò che è visto lasciate che ci sia solo ciò che è visto; in ciò che è udito ci sia solo ciò che è udito”. In altre parole lasciate andare le storie e prestate attenzione ai fatti reali della vostra vita. Quando prestate attenzione a tali fatti, riteneva il Buddha, senza essere trascinati via dall'eccitante trama della vostra storia, sarete capaci di vedere quale genere di pensieri e azioni conduce alla sofferenza e ai problemi, e quale genere di pensieri e azioni conduce alla felicità. Vedendo chiaramente, sceglierete ciò che conduce alla felicità piuttosto che quello che non lo fa, e la vostra vita, così come la vita di chi vi sta intorno migliorerà.

Un orientamento acritico non significa certamente cessare di sapere come comportarsi responsabilmente nella società o pensare che qualsiasi cosa gli altri facciano sia giusta. Vuol semplicemente dire che possiamo agire con più chiarezza nella vita, essere più equilibrati, efficienti ed etici nelle nostre attività sapendo di essere immersi in una corrente di simpatie e antipatie inconsce che costituiscono uno schermo fra noi, il mondo e la purezza essenziale del nostro essere. Forme mentali di predilezione o avversione possono insediarsi permanentemente in noi alimentando inconsciamente comportamenti di dipendenza in tutti gli aspetti della vita.

Siamo stati condizionati a pensare che siamo noi a dare forma alle nostre vite molto più di quello che succede in realtà, ed è per questo che siamo così spaventati e ci sentiamo indifesi quando sorge qualcosa che non avevamo pianificato, qualcosa al di fuori della linea narrativa della storia della nostra vita.

Nonostante sia evidente a tutti noi (cfr Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici art. num 23 del 10/05/2022), comprendere la caratteristica mutevole dei fenomeni, non rispondiamo a questa circostanza in maniera adeguata continuando a sperare che la realtà si conformi ai nostri desideri e alle nostre aspettative.

Riusciamo ad accogliere solo le “belle” novità, quelle che ci risvegliano entusiasmo e soddisfazione sperimentando l'impermanenza come una frustrazione. È molto importante riflettere con quanta facilità proiettiamo solidità e certezza nella vita. Cerchiamo lavori fissi, matrimoni che ci rassicurino, idee salde e nette, partiti conservatori, riti che ci restituiscano un'impressione di continuità, abitazioni protette, sistemi sanitari ben tutelati, investimenti con il minimo di rischio, vogliamo andare sempre al sicuro. Ed è così che il fiume della nostra vita trova ostacoli sul suo corso, finché un giorno senza preavviso, smette di scorrere. Viviamo sì, ma molto spesso siamo morti, sopravvissuti a noi stessi: c'è bio-logia, ma non bio-grafia. Ci spaventiamo ogni volta che la vita si manifesta in maniera diversa da come l'avevamo “programmata”, diventiamo comprensibilmente preoccupati temendo di non essere in grado di far fronte agli “imprevisti” e quando accadono ne rimaniamo delusi credendo che la realizzazione delle nostre aspettative sia giusta e dovuta.

Se non riusciamo a capire che tutto è incerto, inteso non nel senso negativo e pessimista, ma nel senso che tutto è possibile, rischiamo di venire letteralmente travolti dal mondo immaginario che fabbrichiamo continuamente nella nostra mente e che spesso diventa un terreno su cui si possono sviluppare disturbi psichici come ansia o depressione. La consapevolezza ci educa a partecipare al cambiamento continuo, che chiamiamo “vita”, alla capacità di cogliere ed evidenziare la novità, tutto è sempre nuovo e diverso. Assolutamente niente è adesso uguale a un istante fa. Essere tutt'uno con la vita è l'unica promessa sensata di felicità.

Il viaggio di ritorno non è una passeggiata di salute, richiede il confronto con noi stessi e la maggior parte delle volte non è né piacevole né semplice. Dobbiamo fare spazio a tutti i nostri dinieghi, tutte le nostre passioni, le nostre paure, la nostra ambivalenza. Non c'è modo di proteggerci da noi stessi, di renderci invulnerabili e insensibili a ciò che la vita evocherà in noi. Come possiamo fare esperienza della pienezza della vita senza esitare o ritrarci? Come possiamo aprirci alle forte emozioni che incontriamo lungo il viaggio senza essere ingoiati da esse? Come possiamo superare i disastri senza rovinarci completamente l'esistenza e rimanere a galla?

Il modo con cui ci relazioniamo alla nostra vita emotiva non rappresenta un'aggiunta al viaggio verso casa, qualcosa che rende il viaggio più o meno piacevole, ma è il viaggio stesso.

Le cose che vanno in pezzi sono una specie di prova e anche una specie di guarigione. Noi pensiamo che il punto sia superare la prova o superare il problema, ma la verità è che le cose non si risolvono per davvero. Si riuniscono e poi cadono a pezzi. Poi si riuniscono nuovamente e nuovamente cadono a pezzi. Funziona così. La guarigione arriva quando si lascia lo spazio perché tutto ciò accada: spazio per il dolore, spazio per il sollievo, la sofferenza, la gioia.

Se il mondo ci crolla addosso (Chodron) e siamo sull'orlo di non si sa cosa, la prova che ciascuno di noi deve affrontare consiste nel restare su quell'orlo senza precipitare nel baratro. Il viaggio della consapevolezza non riguarda il paradiso e il raggiungimento finale di un posto meraviglioso. In realtà è proprio quel modo di vedere le cose che ci mantiene infelici: pensare che si possa trovare un piacere durevole ed evitare il dolore, un ciclo senza speranza che gira incessantemente e ci fa soffrire molto. “L' unico vero viaggio di scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell'avere occhi nuovi.” (M.Proust)

Stare con quell'instabilità, stare con un cuore spezzato, con uno stomaco che brontola, con un senso di disperazione e la voglia di rivincita, rimanere con quell'incertezza, imparare a non farsi prendere dal panico, imparare ad afferrare noi stessi, di afferrare noi stessi in modo gentile e compassionevole, questo è il viaggio della pratica di consapevolezza.

Parlando in generale, noi consideriamo il malessere, in tutte le sue forme, come una brutta notizia. Da questa prospettiva invece, i sentimenti come delusione, imbarazzo, irritazione, rancore, rabbia, gelosia e paura, anziché essere brutte notizie sono invece momenti molto chiari che ci insegnano dove ci stiamo trattenendo. Ci insegnano a rincuorarci e ad aver fiducia quando invece preferiamo crollare e tirarci indietro. Sono come dei messaggeri che ci mostrano, con chiarezza esattamente dove siamo bloccati. Questo momento esatto è il maestro perfetto, e buon per noi, è ovunque noi siamo. Non cerchiamo di risolvere un problema, non cerchiamo disperatamente di scacciare il dolore o di diventare persone migliori. In realtà, rinunciamo completamente al controllo e lasciamo perdere concetti e ideali. Si inizia rendendosi conto che qualsiasi cosa succeda non è né l'inizio né la fine. Si tratta sempre della stessa normale esperienza umana che capita alla gente fin dall'inizio dei tempi. Pensieri, emozioni, stati d'animo, ricordi vanno e vengono tutti, e il fondamentale senso del presente è sempre con noi. Nel mezzo della peggiore situazione della peggiore persona al mondo, nel mezzo di tutto il difficile dialogo con noi stessi, vi è sempre uno spazio aperto.

Questo viaggio ha una caratteristica ben distinta: non è prefabbricato, non è segnato. Non esiste di già. La via di cui stiamo parlando è l'evoluzione attimo per attimo della nostra esperienza, l'evoluzione attimo per attimo del mondo dei fenomeni, l'evoluzione attimo per attimo dei nostri pensieri ed emozioni. Si forma attimo per attimo e contemporaneamente svanisce dietro di noi. La via stessa è l'obiettivo. “Il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta. Il senso del viaggiare è il viaggiare stesso e non l'arrivare.” (Tiziano Terzani)

Per dissolvere la nostra resistenza alla vita, (Chodron) dobbiamo guardarla in faccia. Quando siamo scontenti perché la stanza è troppo calda, potremmo fare conoscenza con il calore, sentirne l'ardore e la pesantezza. Quando siamo scontenti perché la stanza è troppo fredda, potremmo fare conoscenza con il freddo e sentirne il gelo e la morsa. Invece di lamentarci della pioggia, potremmo sentirne l'umidità. Invece di preoccuparci del vento che sbatte le finestre, potremmo fare conoscenza col vento e ascoltarne il suono. Abbandonare ogni speranza di un rimedio è un dono che possiamo fare a noi stessi. Non esiste rimedio per il caldo e il freddo. Ci saranno sempre. Il flusso e il riflusso continueranno anche dopo la nostra morte. Come le maree, come il giorno e la notte, è la natura delle cose. Essere in grado di apprezzare, essere in grado di guardare da vicino, essere in grado di aprire la mente, questa è l'essenza di questo viaggio. “E la fine di tutto il nostro esplorare sarà arrivare dove siamo partiti. E conosceremo il luogo per la prima volta.” (S.Eliot)

Dal 2013 conduco gruppi per lo sviluppo della consapevolezza secondo il programma MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) ideato da Jon Kabat Zinn nel 1979. Sono ormai noti i benefici anche in ambito clinico che tale programma, diffuso in tutto il mondo, rivela. Questo percorso rappresenta esattamente un'esortazione a questo viaggio di ritorno, destinazione finale il momento presente.

Spesso molte persone si avvicinano alla pratica meditativa con idee molto precise prevedendo senza rendersene conto una meta stabilita con un'idea di fondo di diventare in questo modo o in quell'altro modo. Si pensa alla pratica come qualcosa da raggiungere, o ancora peggio come uno strumento nella cassetta degli attrezzi per risolvere i nostri problemi. In realtà questa prospettiva rappresenta il primo grande impedimento a stare nel momento presente, la mente fa continuamente calcoli. Vogliamo andare da A a B oppure se siamo davvero ambiziosi vogliamo andare da A a Z. Siamo sempre in transizione spesso siamo sul passato e quindi andiamo da Z ad A in un rimuginare costante su quello che non è andato, quello che abbiamo fatto, quello che avremmo potuto fare meglio, in un cammino a ritroso facendo diventare tutto un rimpianto. Tendiamo a considerare il momento presente un mezzo per ottenere un fine, se nel momento A compio una determinata azione sarò felice nel momento B. Nella pratica di consapevolezza la strada va da A ad A, ogni momento è un mezzo e un fine. Lo scopo del momento A è il momento A. L'insegnamento del budda riguarda il risveglio e la liberazione e questo sembrerebbe un obiettivo, Z. Ma il solo modo di raggiungerlo è quello di essere totalmente dove siamo assolutamente presenti in questo momento.

Nei gruppi ci conosciamo nel presente, lasciamo andare le pretese, le ambizioni, gli obiettivi. Non c'è un da farsi, semmai un esserci. In piena partecipazione con la nostra esperienza, condividiamo uno spazio un tempo in cui ci permettiamo di stare con ciò che siamo e non con ciò che vorremmo o dovremmo essere. È un viaggio di scoperta. Spesso è una scoperta scomoda. Scopriamo che siamo bloccati, che stiamo soffrendo, che ci siamo portati appresso, probabilmente senza saperlo veramente, un gran dolore per lungo tempo. Imparare ad accomodarsi nelle proprie scomodità è al centro di questo cammino. Per quanto inizialmente possa apparire contraddittorio e complicato, piano piano riusciamo a comprendere che questo atto di coraggio è necessario per comprenderci, legittimarci, amarci e liberarci dalla sofferenza. È possibile che per tutta la nostra vita, non abbiamo mai avuto qualcuno con cui parlare, nessuno che ci potesse ascoltare in modo tale da permettere ai nostri sentimenti e alle nostre parole di uscire.

“L'esprimere noi stessi è un compito delicato ed è più ampio di quanto non possa sembrare a un primo sguardo. Parliamo sempre, pronunciando migliaia di parole al giorno, ma quanto del nostro parlare esprime realmente noi stessi? Per esprimere noi stessi dobbiamo, in primo luogo, sentirci profondamente, che è esattamente ciò che abbiamo aspettato tanto a lungo. Poi dobbiamo aspettare l'occasione interiore che ci faccia tirar fuori quello che abbiamo bisogno di dire, che lo trasformi in qualcosa di più di una brillante idea, una speranza, un desiderio, o una mera intuizione personale. E abbiamo bisogno di testimoni, persone che sappiamo ascoltare realmente, in piena empatia e senza paura, e che ci diano il permesso e l'incoraggiamento a parlare. In fine abbiamo bisogno dell'occasione esterna, il momento e la circostanza adatti nelle quali ciò che abbiamo bisogno di dire possa essere espresso, poiché ciò che deve essere detto può essere detto solo al momento giusto e nel posto giusto”. (Fischer p.50)

Passo dopo passo impariamo ad affidarci all'ascolto, all' apertura del cuore dove possiamo sperimentare l'opportunità di esprimerci pienamente. È sempre più chiaro che abbiamo bisogno di fare qualcosa di più che non semplicemente assorbire gli insegnamenti e fare domande che chiarificano. C'è bisogno “di alzarsi in piedi” nell'assemblea e parlare dal cuore.

Spesso sono rimasta colpita da come le persone parlano e si ascoltano con attenzione, da ciò che esprimono con finezza e profondità. L'assistere a queste condivisioni mi ha convinto che tutti noi abbiamo dentro molto da esprimere, ma non lo sappiamo, perchè raramente riceviamo l'invito o si verifica l'opportunità di farlo. L'espressione porta alla guarigione. Ci apre, ci spinge in avanti nelle nostre vite. Non è una questione di esprimere idee o sentimenti, in quanto l'espressione è molto di più di un mero atto cognitivo o emotivo. Tuttavia, il semplice parlare sinceramente e ad alta voce ad altre persone, ci ispira, e ci mette finalmente in condizione di puntare la nostra prua verso il mare aperto e prepararci per il viaggio.


Bibliografia

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