Primo Editoriale
La rivoluzione gentile
Autori
Siamo precipitati in un’epoca triste, gravida di insicurezza e di incertezza del futuro, dove la reazione immunitaria più evidente è data dalla insistenza sul tema della dimensione securitaria e dall’incremento, a tutti i livelli, compreso all’interno delle istituzioni, della cifra di aggressività nelle relazioni interpersonali.
A rischio sono i valori fondamentali, la libertà, la democrazia, i diritti.
Potremmo considerare questo momento storico-politico quale precondizione clinica di malessere mentale, per tutti ed anche per noi che abbiamo scelto di occuparci di salute mentale nei Servizi e nelle istituzioni pubbliche.
I “guaritori feriti” che cercano di resistere alla crisi in atto hanno bisogno di esperire ed infondere speranza per poter curare (Antonio Scurati sostiene che il contrario della paura è la speranza), di ritrovare gentilezza nelle relazioni tra curanti e nella relazione di cura, di stabilire una dimensione umanamente autentica, di dare senso a ciò che accade nel divenire clinico ed assistenziale del lavoro quotidiano, di avere la fiducia nel tempo e nella durata di un progetto, di un percorso, della vita collettiva delle nostre istituzioni.
Come trasmettere e declinare il valore della Cura, dell’etica di una sanità pubblica, di una salute mentale di comunità, nell’attuale spaesamento?
Forse la gentilezza è una di quelle parole luminose e numinose che possono aiutare ad orientare il cammino.
Per questo abbiamo deciso di accogliere nella Rivista come secondo editoriale l’articolo di Stefania Borghetti.
In questo numero Raffaele Barone e Giuseppe Cardamone propongono un lavoro che esplora tematiche quali integrazione socio-sanitaria, cooperazione sociale e benessere mentale di comunità. Gli autori sottolineano come in relazione a molteplici fattori quali pandemia, migrazioni internazionali, cambiamenti climatici, sia di fatto attualmente in crisi lo stesso patto sociale che sta alla base dello stato-nazionale fondato su principi democratici e liberali, e come in relazione a questo, sia necessario agire un cambiamento dei Servizi socio-sanitari e in particolare dei Servizi di salute mentale. La necessaria trasformazione dei Servizi non può prescindere dai cambiamenti dell’organizzazione sociale e dal ruolo del Terzo Settore. Inoltre è inevitabile il confronto con il mutarsi delle problematiche e delle situazioni di disagio, quali l’incremento dei disturbi gravi di personalità, la gestione degli utenti con misure di sicurezza, le crisi delle relazioni in adolescenza e le crisi intrafamiliari, l’uso acritico dei social media, l’uso massivo di alcol e sostanze stupefacenti, l’accentuarsi dei comportamenti violenti. Come sostengono gli autori, nei processi di individuazione sono centrali l’interdipendenza con gli altri e la intersoggettività; in linea con questo concetto, l’emergere psicopatologico è espressione di un campo relazionale e mentale che coinvolge la famiglia, il contesto in cui la persona vive e ha vissuto, le esperienze accumulate, sia direttamente sia attraverso le tracce genetiche ed epigenetiche. Di fatto è quindi essenziale considerare che nei diversi contesti, l’esito degli interventi terapeutici non è determinato solo dai fattori individuali, bensì si correla necessariamente anche alle risorse familiari, socioculturali e comunitarie. In questo senso gli interventi terapeutici devono necessariamente tener conto e porre in relazione la dimensione personale biologica e psichica, le relazioni correlate al proprio contesto di appartenenza e la dimensione culturale. Come sostengono gli autori occorre quindi uno sguardo che consideri gli eventi e i contesti di vita, la storia individuale e quella collettiva, i valori individuali e le visioni culturali di riferimento e che valorizzi l’expertise degli utenti e dei loro familiari.
Paola Carozza considera la centralità della recovery come obiettivo da perseguire e parallelamente esplora le motivazioni che rendono difficile di fatto conseguire tale obiettivo. L’autrice tratta quindi temi caldi e spesso divisivi, esplorando sia le difficoltà di agire un cambiamento di approccio, sia gli ostacoli che limitano di fatto la realizzazione di una metodologia di intervento finalizzata alla recovery. In particolare l’autrice considera quali possibili ostacoli: il conflitto tra gestione del rischio e autodeterminazione; il peso della responsabilità professionale; le difficoltà correlate alla gestione delle risorse; il prevalere di un paradigma orientato alla malattia; le problematiche legate al ruolo e alla gestione del “potere” nella relazione terapeutica; l’impossibilità di garantire a tutti i Livelli Essenziali di Assistenza.
Nel lavoro, si sottolinea inoltre che la ricerca sulle pratiche orientate alla recovery, nata essenzialmente nei contesti della psichiatria di comunità, rimane ancora un campo marginale e sottofinanziato, dove, i limiti nell’implementazione sono correlati anche alla difficoltà di definire in modo univoco il concetto di recovery e ciò che caratterizza in modo specifico una pratica orientata alla recovery o meglio i gradi di orientamento alla recovery delle diverse pratiche. In particolare, anche in relazione all’eterogeneità tra i diversi percorsi, si va da un’accezione di recovery come “guarigione”, o piuttosto di recovery come capacità di minimizzare l’impatto della malattia, o ancora per i pazienti affetti da disturbi mentali gravi, di recovery come possibilità di riacquisire i diritti civili, tra cui il diritto all'autodeterminazione e all'inclusione nella comunità. In questa ultima accezione, la sfida principale è quella di riuscire a garantire anche alle persone con disturbi mentali gravi, le facilitazioni ambientali ed i sostegni necessari per partecipare pienamente alla comunità, ma anche promuovere la self agency come capacità di auto dirigersi che implica per il paziente anche una maggiore responsabilità delle proprie azioni.
Salvatore Inglese disegna la seconda mappa tematica di un'Etnopsichiatria generale delle depressioni vitali. La prima mappa tematica, pubblicata su un precedente numero di questa rivista, esplorava la fenomenologia dei disturbi dell’umore in vari contesti socioculturali, rintracciandone le manifestazioni peculiari lungo un asse che collegava epoche remote (mitiche e storiche) al mondo contemporaneo. In questo lavoro l’autore propone una riflessione su “coppie antagoniste”, ovvero: a) Esogeno/Endogeno; b) Oggettuale/An-Oggettuale; c) Psichico/Somatico che sono al centro di interpretazioni concettuali spesso contrapposte relative alle depressioni; mentre, sostiene l’autore, tali binomi risultano essere più propriamente complementari e copresenti nella determinazione di uno specifico fenomeno psicopatologico. In questo contesto, l’autore pone in discussione il concetto di endogeno come entità organica inaccessibile, priva di causa apparente, che sfugge quindi a qualsiasi influenza del mondo esterno; esplora inoltre la perdita dell’oggetto significativo come fattore psicopatogenetico posta in antagonismo con una prospettiva invariante tra le diverse culture, vitalistica e umorale della fenomenologia depressiva.
Ottone Baccaredda Boy, Giulio D’Anna, Francesca Arganini, Michela Picchetti, Eleonora Rosati, Ferdinando Galassi, Valdo Ricca, Pasquale Palumbo e Giuseppe Cardamone propongono un report sullo stato dell’arte relativo alle crisi parossistiche non epilettiche (PNES) che pur avendo notevole rilevanza clinica, si associano ad evidenti difficoltà nel trovare riscontri diagnostici esaustivi. In questo contesto, gli autori partendo da un excursus storico relativo all’inquadramento di tali fenomeni e da dati di incidenza epidemiologica, propongono alcuni elementi e criteri da considerare per favorirne la comprensione, l’inquadramento diagnostico ed un appropriato intervento farmacologico e/o psicoterapeutico. Le peculiari caratteristiche delle PNES implicano di fatto necessariamente una collaborazione a vari livelli tra psichiatri e neurologi. Gli autori considerano quindi anche i possibili meccanismi patofisiologici delle PNES, sia neurobiologici che psicologici, sottolineando in termini di vulnerabilità, anche la possibile associazione con una storia traumatica e con peculiari assetti personologici; questi ultimi in particolare, potrebbero contribuire in qualche modo a determinare traiettorie diverse delle PNES, in termini di fenomenica (ansia, psicosi, epilessia e dissociazione).
Bernardo Firenzuoli, Andrea Fagiolini, Simone Pardossi, Pietro Carmellini, Elisa Mariantoni, Beatrice Rescalli, Alessandro Cuomo propongono una revisione non sistematica della letteratura ed un caso clinico reale, ponendosi come obiettivo quello di approfondire l’efficacia della clozapina in pazienti con disturbi gravi e refrattari. Gli autori considerano che per le sue specifiche peculiarità farmacodinamiche, la clozapina rappresenta un’opzione terapeutica ancora unica per situazioni complesse come la schizofrenia resistente, efficace anche nella riduzione dei comportamenti aggressivi e del rischio suicidario. La clozapina inoltre risulta essere utile anche per un disturbo particolarmente invalidante in termini funzionali, quale il disturbo borderline di personalità (BPD), in presenza o meno di comorbidità con la schizofrenia, specialmente nei casi di BPD caratterizzati da disregolazione emotiva e comportamenti impulsivi. Quest’ultima situazione viene descritta attraverso il caso clinico di una giovane paziente nella quale si sovrappongono sintomi del BPD e sintomi dello spettro schizofrenico, che ha presentato un significativo miglioramento dopo trattamento con clozapina. Gli autori, a sostegno di tale approccio, analizzano quindi le sovrapposizioni cliniche e neurobiologiche tra schizofrenia e disturbo borderline di personalità, disturbi che condividono tra l’altro comuni vulnerabilità correlate ad alterazioni della plasticità cerebrale ed a fattori epigenetici, con conseguenti implicazioni innovative per la pratica clinica.
Giuseppe Corlito considera l’importanza del lavoro con i gruppi in salute mentale, considerando in particolare il progressivo incremento epidemiologico dei disturbi psichici e la scarsità di risorse dei Servizi di Salute Mentale. In questo contesto l’autore sottolinea la necessità di strutturare, per tutte le figure professionali, percorsi di formazione relativi alle tecniche gruppali. Viene quindi ripercorsa l’applicazione delle terapie gruppali in termini storici, considerando i diversi contesti dove nel tempo è stata evidenziata maggiore efficacia. L’autore considera poi le caratteristiche dei gruppi (in relazione a dimensioni, gruppalità aperta o chiusa, finalità, valenza psicoterapeutica o psicoeducazionale) e definisce alcuni aspetti finalizzati alla formazione dei gruppi, quali il “contenuto” di un gruppo, le caratteristiche della conduzione, i tempi e le fasi.
Salvatore Marzolo, Raffaele Barone, Catello Paolo La Marca, Gabriele Moi, Alessia Ravasini, Antonia Restori, Matteo Rossi, Antonella Squarcia e Angela Volpe propongono un modello formativo innovativo per i servizi di salute mentale, che ispirandosi al movimento e alla trasformazione correlati alla metafora della carovana, realizzano un percorso di apprendimento basato su dialogo, azione e inclusività, dove centrali sono le pratiche democratiche, orientate al superamento della solitudine e della rigidità istituzionale. In questo contesto vengono esplorate pratiche come l’open dialogue, il time out, i dialoghi anticipatori e l’intervisione dialogica. Ogni tappa della "carovana" – da Caltagirone a Parma – ha permesso di arricchire il modello con esperienze territoriali diverse, evidenziando inoltre l'importanza di un approccio intergenerazionale e interculturale e la necessità di un'aggregazione politica e sociale capace di trasformare vulnerabilità e crisi in strumenti di innovazione e coesione. In questo contesto l’invito è a trasformare le equipe cliniche in “luoghi di cura reciproca” attraverso pratiche dialogiche e relazionali, dove “tutti sono curanti e curati”, quale base per nuove forme di interdipendenza nei servizi e nelle comunità.
Claudia Alberti, Sonia Biavati, Alice Guidicini, Laura Mangione, Andrea Ferretti, Barbara Alvisi, Giulia Reali, Angela Muscettola, Barbara Bottoni e Paola Carozza, propongono una serie testimonianze di un gruppo di pazienti esperti per esperienza di Ferrara che, con il supporto di professionisti, possono tradursi in buone pratiche, e in particolare in specifiche metodologie di intervento efficaci per promuovere recovery. Tutto il lavoro inoltre pone particolare attenzione alla valutazione della qualità percepita da parte delle persone cui gli interventi sono diretti. Le testimonianze proposte vengono quindi analizzate in termini di setting di cura; trattamenti e modalità di intervento; figure professionali e figure della rete naturale coinvolte nel processo di recovery; dimensioni collegate all’identità e al senso di sé influenti sul il processo di recovery. All’interno di questo lavoro trova poi spazio una dissertazione sul trauma e sugli approcci informati al trauma, dove si promuove un radicale cambiamento di paradigma, ovvero un cambiamento organizzativo e culturale dei Servizi, volto a creare ambienti e relazioni che promuovono recovery e prevengono la (ri)traumatizzazione, evitando quindi quei modelli di relazione che compromettono l'autonomia e il senso di sé della persona. Tutto ciò consapevoli, come sostengono gli autori nella conclusione, che una comunicazione aperta, empatica, improntata al rispetto reciproco è di fatto la chiave per un’intesa di successo tra chi cura e chi assiste.
Francesca Bolino, M. Farano, A. Goldoni, V. Di Michele, L. Di Filippo, R. Cerbo, F.M. Ferro propongono un case report relativo ad un adolescente che all’esordio di malattia presenta la copresenza di psicosi schizofrenica e sindrome da disconoscimento (sindrome di Fregoli). Gli autori sottolineano che la sindrome di Fregoli frequentemente si osserva in patologie organiche cerebrali e che la presenza di una sindrome ADHD in età infantile nel caso descritto si associa a compromissione specifica dei domini attentivi, rafforzando l’ipotesi di una patologia del neurosviluppo. L’associazione tra le due fenomeniche (sindrome schizofrenica e sindrome di Fregoli) amplifica verosimilmente la severità clinica ed il declino cognitivo riscontrato nel caso in oggetto.
Laura Fantaccini propone un lavoro sulla pratica di consapevolezza (sati-mindfulness) attraverso la metafora del viaggio. Come sostiene l’autrice, il viaggio è una delle più frequenti e antiche metafore della vita, presenti in tutte le culture e nelle letterature di ogni epoca. Il viaggio come metafora della vita, in questo contesto, vuole approfondire e descrivere l'essenza della pratica di consapevolezza. Decidere di iniziare il viaggio significa abbandonare lo stato in cui è immersa la quotidianità dei nostri giorni e soprattutto abbandonare la paura della vita. Sostiene l’autrice che il viaggio della consapevolezza comincia con l'assenza, l'attesa, l'incertezza, la frustrazione; la pratica meditativa è la pratica dell'attesa e quindi disponibilità a fermarsi, ad avere fiducia. Il viaggio di ritorno è poi qualcosa che ognuno deve fare a proprio modo, ma non possiamo ignorare la necessità di tornare a noi stessi e di relazionarci con la nostra vita emotiva.
L’autrice sottolinea quindi come nella sua esperienza di conduzione di gruppi per lo sviluppo della consapevolezza secondo il programma MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction), centrale sia un'esortazione a questo viaggio di ritorno, dove la destinazione finale è il momento presente.
Ottone Baccaredda Boy, Lorenzo Bonamassa, Marco Faldi, Arianna Ida Altomare, Lara Allegrini e Giuseppe Cardamone propongono un lavoro che esplora l’attitudine e l’atteggiamento nei confronti della recovery degli operatori che lavorano presso le strutture residenziali nel territorio di Prato. Per condurre tale analisi, gli autori utilizzano scale psicometriche che indagano la prospettiva dell’operatore e la sua modalità di promuovere interventi socio-riabilitativi residenziali. Obiettivo dello studio è quello di confrontare gruppi di operatori delle SRP che lavorano con modelli operativi diversi, per caratterizzare alcune variabili relative all'operatore, quali l’ottimismo terapeutico, l’attitudine alla recovery, lo stigma interiorizzato, la soddisfazione sul lavoro e la qualità della vita, variabili potenzialmente significative rispetto agli esiti del percorso degli utenti. Particolare attenzione è dedicata ad alcune strutture residenziali del territorio pratese dove è attualmente implementato il modello delle comunità terapeutiche democratiche, nell’ipotesi che tale modello possa rappresentare una buona pratica per tutti gli stakeholders, ovvero sia per gli utenti che per gli operatori. In questa prospettiva, come sostengono gli autori, il modello di lavoro utilizzato può influenzare la prospettiva e la qualità di vita dell'operatore, condizionando anche la modalità di approccio verso il paziente e quindi gli outcome terapeutici.
Silvia Raimondi e Giuseppe Riefolo propongono un lavoro sul progetto di ambulatorio clinico che da alcuni anni è attivo presso la Stazione Termini, un ambulatorio settimanale con libero accesso per soggetti senza dimora, denominato “Area 95”, sostenuto da volontari dell’associazione SMES-Italia, un’agenzia di Promozione Sociale nata dalla collaborazione di psichiatri, psicologi, educatori, operatori e ricercatori sociali, attivi nel campo dell’inclusione sociale. L’ambulatorio intercetta una serie di richieste prevalentemente relative all’ambito della salute mentale, per persone che difficilmente potrebbero avere risposta attraverso altri canali istituzionali. Binario 95, situato a Roma in Via Marsala 95, offre alcuni posti letto e una serie di attività volte al recupero di competenze di persone che vivono in strada ed è il luogo nel quale si svolge l’intervento di “Area 95”. Gli autori descrivono le ragioni dell’intervento, sottolineando anche che il vivere in strada si traduca in un’esclusione di relazioni e legami, finalizzata ad evitare la riattivazione di aree emozionali traumatiche derivanti ad esempio dal fallimento traumatico di un progetto migratorio. “Area 95” funge da snodo tra marginalità e Istituzioni, decodificando domande spesso confuse e incerte e creando collegamenti utili a dare riposte appropriate.
Enrico Marchi propone un breve ricordo di Guglielmo Lippi Francesconi che ha diretto dal ‘36 al ‘44 il manicomio di Maggiano ed è stato ucciso dai nazisti nel 1944. I suoi familiari hanno fondato nel 2022 il Centro Studi e Ricerche Guglielmo Lippi Francesconi (Centro Studi GLF) che promuove interventi di prevenzione, formazione e divulgazione rivolti prevalentemente ai giovani ed ai minori in difficoltà e che, anche in collaborazioni con Enti e Associazioni del Terzo Settore, realizza eventi e manifestazioni culturali finalizzate ad una visione della salute mentale che superi pregiudizi e stigma.
Infine Riccardo Dalle Luche propone due recensioni:
- una prima recensione relativa al libro “Una lunga sfida. Snodi nella psichiatria e nell’assistenza psichiatrica in Italia”, a cura di Liliana Dell’Osso e Primo Lorenzi, pubblicato nel 2024 che, come sostiene Dalle Luche, descrive le realtà cliniche e istituzionali relative alla storia della psichiatria, le criticità presenti nel momento attuale e le possibili prospettive future;
- una seconda recensione relativa al libro “Tempo Libero”, di Francesco Casamassima, pubblicato nel 2024, un romanzo che, sottolinea Dalle Luche, appare creativo e innovativo, piacevole, analitico, ironico e autoironico, con continue notazioni psicologiche.