Dalle mura al setting di cura. Per una riabilitazione residenziale orientata all'evidenza e alla recovery
Autori
DAISMDP Ferrara
Congresso SIEP, Bologna 23-25 novembre 2023
Abstract
Indirizzare la riabilitazione residenziale all’evidenza e alla recovery significa prima di tutto superare il concetto di “struttura riabilitativa” e l’identificazione della riabilitazione psichiatrica con le strutture murarie a favore dell’acquisizione di una sua precisa identità culturale e metodologica. L’inflazione del termine “struttura” e la resistenza ad adottare il termine “programma”, sia per le residenze che per i CD, ne sono un esempio. Ciò implica transitare dal concetto di “mura” al concetto di “setting di cura”, intendendo per questo la cornice all’interno della quale si fissano i presupposti per svolgere un processo terapeutico, quale è il processo riabilitativo. In tale accezione, la riabilitazione psichiatrica non è più un particolare tipo di inserimento diurno, residenziale, lavorativo o un’attività aspecifica e generica, ma una metodologia di intervento con valenza generale che, come tale, può essere utilizzata in tutti i trattamenti che si propongono di accrescere l’articolazione sociale, a prescindere dalla sede in cui vengono realizzati.
Abstract
Addressing residential rehabilitation to evidence and recovery means first overcoming the concept of ‘rehabilitation structure’ and the identification of psychiatric rehabilitation with “wall structures” in favor of acquiring its own precise cultural and methodological identity. The inflation of the term ‘structure’ and the resistance to adopting the term ‘program’, both for residential facilities and day programs, are an example of this. This implies moving from the concept of ‘walls’ to the concept of ‘care setting’, meaning the framework within which the conditions are set for carrying out a therapeutic process, such as the rehabilitation process. In this meaning, psychiatric rehabilitation is no longer a particular type of daytime, residential or work placement, or a non-specific and generic activity, but an intervention methodology with a general value that, as such, can be used in all interventions that aim to increase social articulation, regardless of the location in which they are implemented.
Le sfide attuali nella psichiatria di comunità
Da ormai due decenni il campo della salute mentale si trova a dovere affrontare una serie di percorsi sfidanti, quali ridisegnare i servizi sui principi della recovery e dell’evidenza scientifica, prevenire il più possibile l’instaurarsi della disabilità e promuovere percorsi di inclusione sociale.
Poiché la revisione dell’attività svolta nelle strutture residenziali, pubbliche e private, non può eludere tali sfide, prima di entrare nello specifico è opportuno soffermarsi sinteticamente su di esse, a partire dal chiedersi cosa significa introdurre nella psichiatria di comunità, e quindi anche nella residenzialità, un approccio EBM.
Nel settore della salute mentale l’EBM forza i professionisti a giustificare le proprie conoscenze e scelte e a rispondere alle domande:
- Quale è l’evidenza che supporta la tua decisione?
- Perché stai prendendo questa decisione?
- Quali sono i presupposti della tua azione?
- Quali risultati vuoi ottenere?
- Quali risultati hai ottenuto?
- Perché non hai ottenuto risultati?
- Quali azioni devi mettere in campo se non hai ottenuto i risultati?
Interrogarsi sui temi suddetti è uno stile di lavoro altamente etico e particolarmente importante in psichiatria, perché mette alla prova i convincimenti personali e le mode, i giudizi morali e le ideologie a cui si ricorre quando la diagnosi e i trattamenti non sono supportati da una chiara conoscenza della patofisiologia. Ma se le nostre pratiche non possono essere valutate sulla base della loro coerenza con la patofisiologia, lo possono essere sulla base della loro efficacia. Questo è il contributo etico della EBM alla psichiatria, che potrebbe proteggere i pazienti dai danni di interventi non sottoposti ad una rigorosa critica.
È anche vero ci sono anche alcune pratiche non basate sull’evidenza che possono essere etiche perché rispondono alle speranze e alle aspettative di pazienti (vedi gruppi di auto mutuo aiuto) e basano la loro efficacia su fattori intrinseci alla relazione paziente / operatore.
Quindi bisogna andare oltre la nozione di evidenza ristretta della EBM, abbracciando una pratica ispirata ai principi del conoscitore responsabile: riflessione, esplicitazione, apertura e dibattito. È la cosiddetta Pratica Dialettica. In ogni caso, un trattamento basato sull’evidenza è accreditato dalla ricerca, proceduralizzato, misurabile negli esiti e riproducibile.
Altra chiarezza da fare è la distinzione tra la relazione accoglitiva e la relazione orientata agli esiti.
La relazione accoglitiva (to care) ha come obiettivi quelli di accogliere, di accettare, di far sentire a proprio agio, di condividere i vissuti, di manifestare empatia e di accettare la diversità, ma ha il rischio di favorire la dipendenza a vita e i processi cronici di desocializzazione. La relazione orientata agli esiti (to cure) ha come obiettivo quello di aiutare le persone con disabilità psichiatrica a ridurre i sintomi e le ricadute e a cambiare la loro vita, acquisendo abilità e supporti per l’espletamento di un ruolo valido. Il rischio è quello di non esercitare le core competencies orientate alla recovery personale, che sono (Borg et al., 2005):
- Mettere al centro la persona: gli individui sono più di quanto essi dimostrano nel limitato e coartato ruolo di «pazienti» o di « coloro che ricevono i servizi ».
- Coinvolgere la persona.
- Credere nel potenziale di crescita della persona.
- Favorire l’autodeterminazione scelta della persona.
- Essere flessibili, ossia permettere al paziente di regredire, di essere recuperato quando abbandona e di provare ancora più e più volte a ottenere un cambiamento migliorativo della sua vita.
È stato affermato che una delle sfide che il campo della salute mentale si trova ad affrontare è contrastare la disabilità (Spivak 1992), partendo dal presupposto che quest’ultima non è una diagnosi, ma concerne l'impatto funzionale della malattia mentale e le barriere sociali che deve affrontare chi ha un disturbo psichiatrico. La disabilità si instaura quando quest’ultimo interagisce con un ambiente che ostacola il suo diritto all’uguaglianza e la possibilità di fruire di pari opportunità. Contrastare la disabilità va di pari passo con la promozione dell’inclusione sociale, importante non solo per motivi etici e solidaristici, ma anche perché consente di realizzare l’ultima fase del processo riabilitativo (generalizzazione delle abilità), ossia il trasferimento delle abilità apprese in vitro nei contesti di vita reale, ossia in vivo. La mancanza di generalizzazione delle abilità compromette la formazione delle competenze e fa estinguere progressivamente quelle non esercitate negli ambienti naturali (abitazione, lavoro, scuola, luoghi di socializzazione). Pertanto, per realizzare l’inclusione sociale, è necessario che il percorso di cura ad un certo punto si “esternalizzi” nei contesti di vita dove misurare l’esito finale della riabilitazione, che è l’acquisizione e il mantenimento di un ruolo sociale valido.
Dalle «mura» al «setting riabilitativo»
I suddetti orientamenti devono far parte integrante della revisione del significato e degli obiettivi dell’attività residenziale. Diversamente, tutti gli sforzi per evitare che le residenze diventino solo una mera collocazione logistica sine die per i “pazienti senza speranza” rischiano di non raggiungere il loro obiettivo.
Indirizzare l’attività residenziale alla suddetta vision significa prima di tutto superare il concetto di “struttura riabilitativa” e l’identificazione della riabilitazione psichiatrica con le costruzioni murarie, a favore dell’acquisizione di una sua precisa identità culturale e metodologica. L’inflazione del termine “struttura” e la resistenza a adottare il termine “programma” (obiettivi e strategie), sia per le residenze che per i CD, sono un esempio di quanto la riabilitazione psichiatrica sia stata profondamente assimilata all’involucro istituzionale.
Ciò significa transitare dal concetto di “mura” al concetto di “setting strutturato per l’apprendimento di abilità e di comportamenti socialmente competenti”, intendendo per questo la cornice all’interno della quale si fissano gli obiettivi e le strategie per svolgere un processo di cura, quale è il processo riabilitativo.
In tale accezione, la riabilitazione psichiatrica non è più un particolare tipo di inserimento diurno, residenziale, lavorativo o un’attività aspecifica e generica, ma una metodologia di intervento con valenza generale che, come tale, può essere utilizzata in tutti i trattamenti che si propongono di accrescere l’articolazione sociale, a prescindere dalla sede in cui vengono realizzati.
Il modello procedurale più esaustivo e completo di riabilitazione psichiatrica è il processo riabilitativo formulato da Anthony, Farkas, Cohen e Gagne (2002), che si articola in specifiche attività (tab. 1).
In realtà, i setting istituzionali spesso rinforzano alcuni comportamenti desocializzati e deficit di abilità, poiché le regole di funzionamento delle residenze “organizzano” la vita delle persone che vi sono ospitate, limitando l’autodirezionalità e l’esercizio della scelta e rendendo i pazienti eterodiretti; la presenza costante degli operatori potenzia meccanismi di delega delle proprie azioni, ostacola lo sviluppo della capacità di problem solving e riduce la capacità di pianificazione; la soddisfazione di quasi tutti i bisogni all’interno della residenza crea dipendenza istituzionale e un micromondo facilitato, che diventa il surrogato di quello reale, e la noia e il tempo vuoto, presenti in sistemi fortemente organizzati, come quello residenziale, fungono da fattori trigger per l’emergere di scompensi psichiatrici e di passaggi all’atto.
Lo stigma interno si alimenta attraverso l’identificazione con la malattia (la residenza è il luogo delegato alla cura della malattia) e la separazione dalla famiglia e/o dal contesto comunitario di riferimento per tempi spesso lunghi (uno, due anni) favorisce il riassestarsi dei sistemi su nuovi equilibri, per cui diventa difficile poi reinserire la persona a domicilio. Infine, i vantaggi economici derivanti dall’assenza di spese per vitto e alloggio interferiscono con la motivazione a costruire ipotesi di dimissione meno vantaggiose.
L’ attuazione dei principi esposti comporta il riassetto delle attività residenziali, attraverso l’individuazione di una serie di aree di intervento da migliorare e l’introduzione di alcuni indicatori di processo e di esito (tab. 2).
Il modello del Continuum vs il modello Place and Train
L’approccio tradizionale all’inclusione sociale è stato da sempre finalizzato a ridurre i sintomi e la disabilità e, solo in seguito, ad includere i pazienti negli ambienti reali, sulla base del principio che l'evoluzione graduale verso livelli di funzionamento sempre più complessi è l’unico modo per non esporli a richieste cui sono incapaci di rispondere. Tale approccio è il core del modello del Continuum, consistente nel passaggio dei pazienti attraverso una serie di setting, dove sono progressivamente sempre meno “protetti”.
Partendo dal presupposto che le persone con disabilità psichiatrica non siano in grado di assolvere in modo competente molti dei compiti richiesti dalla vita autonoma (gestire il denaro, rigovernare la casa, cucinare etc.), i programmi ispirati al modello tradizionale tendono ad utilizzare molto le strutture residenziali, dove il supporto degli operatori è disponibile per tutto l’arco delle 24 ore e dove i pazienti possono imparare a mettere in pratica le abilità necessarie a sostenersi da soli in un’abitazione. Una volta che siano considerati pronti per sottoporsi alle richieste dello stadio successivo, essi sono collocati in un gruppo appartamento con il supporto sul posto, fornito per fasce orarie. I sostenitori di questo modello affermano che ci sono specifici indicatori che definiscono quando il paziente è pronto a passare allo stadio successivo del Continuum.
Purtroppo, però, i risultati degli studi condotti sugli indicatori predittivi del successo nel mondo reale non rassicurano in merito, poiché evidenziano che non sono certo la diagnosi psichiatrica, le variabili demografiche e le caratteristiche psicologiche (intelligenza, personalità, attitudini) a permettere di prevedere se una persona riuscirà a mantenere un ruolo valido o a permanere in una abitazione autonoma.
Inoltre, poiché un trattamento riabilitativo basato su un Continuum fa restare gli individui in setting protetti fino a quando non abbiano manifestato un maggiore funzionamento, se non si dispone di risorse e di supporti (posti di lavoro, abitazioni, opportunità di riprendere gli studi e di organizzare il tempo libero), che favoriscano il passaggio evolutivo, essi rischiano di restare «bloccati» nelle strutture per lunghi periodi, riducendo la loro motivazione al cambiamento.
Inoltre, non è possibile ipotizzare con esattezza né il successo degli inserimenti negli ambienti reali né il livello di apprendimento delle abilità deficitarie tramite i programmi effettuati nei setting istituzionali, dato che i setting della comunità possono consentire di apprendere una vasta gamma di abilità e di comportamenti in misura molto maggiore dei setting istituzionali, i quali non possono in alcun modo riprodurre gli ambienti reali.
Per ultimo, una volta che la persona fa un passo avanti perde i precedenti legami ed è costretta a fare continuamente la fatica di ricostruirne di nuovi. Se cominciano a vivere indipendentemente solo i pazienti che sono valutati pronti a farlo, gli altri più problematici, di solito definiti «non pronti», saranno perennemente interdetti da tale possibilità.
L’alternativa al modello del Continuum è il modello Place and Train, secondo il quale:
- La priorità è quella di inserire la persona in ambienti reali.
- I supporti e il training di abilità sono offerti negli ambienti reali.
- Gli obiettivi sono raggiuti «in vivo».
Esempio: Invece che risiedere in strutture protette fino a quando non dimostrano di essere in grado di gestirsi autonomamente in normali abitazioni, i pazienti, una volta superata la fase acuta, usufruiscono di comuni appartamenti, dove sono monitorati dagli operatori, che si fanno carico di offrire i supporti specifici e di allenare nella abilità appropriate per rispondere con competenza alle richieste dell’ambiente. Tale paradigma alternativo è nato in seguito all’insoddisfazione degli utenti per la lentezza degli inserimenti abitativi.
Il modello Place and Train ha ricevuto anche diverse critiche, soprattutto da chi ritiene che, seguendo tale approccio, i pazienti vengono collocati in situazioni che non sono in grado di gestire, messi davanti a richieste che non riescono a soddisfare ed esposti al rischio di ricadute.
La ricerca però non sembra giustificare tale timore: l’inserimento precoce negli ambienti abitativi reali non aumenta né gli episodi di riacutizzazione dei sintomi né i tassi di ospedalizzazione; il rischio di ricaduta è controbilanciato dai benefici derivanti da una situazione di vita autonoma ed eventuali insuccessi, lungi dall’essere un freno, potrebbero rappresentare un passaggio evolutivo per apprendere come fronteggiare nuove situazioni. Tale posizione è fortemente supportata da molti pazienti, ma da pochi familiari e sanitari.
Sicuramente, per ridurre eventuali fallimenti, dovuti ad una richiesta di funzionamento maggiore di quella che i pazienti possono sostenere, bisognerebbe identificare le caratteristiche di coloro che sono pronti per una collocazione negli ambienti reali e le caratteristiche di coloro che potrebbero beneficiare di training di abilità e di supporti prima di essere accolti nella comunità.
In realtà, le intuizioni cliniche e gli indicatori ricavati dalle ricerche non sono in grado di individuare con certezza chi è pronto per abitare/lavorare/studiare/socializzare autonomamente, dal momento che il migliore indicatore del successo che il paziente conseguirà negli ambienti specifici sembra essere, allo stato attuale, il funzionamento dimostrato precedentemente. In altri termini gli individui che nel passato hanno raggiunto i loro obiettivi di ruolo nel mondo reale sono quelli che hanno la maggiore probabilità di ripetere tale esperienza.
Il modello del Continuum e il modello Place and Train differiscono anche per il diverso ruolo attributo alla comunità e per una diversa accezione del concetto di recovery. Per quanto riguarda la prima differenza, nel modello del Continuum il paziente deve adattarsi ad una comunità che richiede specifici livelli di funzionamento; nel modello alternativo la comunità «facilita» l’inclusione con aggiustamenti mirati, che riducono la probabilità che la persona vada incontro a fallimenti. In merito, invece, alla seconda differenza, nel modello del Continuum, la recovery coincide con la riduzione dei sintomi e l’aumento del funzionamento «in vitro» e riguarda poco l’esito psicosociale «in vivo», ossia come l’utente si rapporta alle richieste dell'ambiente; nel modello Place and Train, la recovery si attua nel momento in cui avviene la generalizzazione delle abilità negli ambienti reali, nonostante la presenza di sintomi e di disfunzioni.
All’interno del tema, oggetto di questo articolo, non possiamo tralasciare il concetto della dimensione adattativa al traguardo (Spivak, 1992) e l’importanza della interazione socializzante operatore/paziente (Spivak, 1992).
Rispetto al primo punto, se i programmi residenziali devono comunque avere l’obiettivo di sviluppare abilità utili per la persona in ambito sociale allargato, la struttura del programma, inizialmente idonea a bassi livelli di funzionamento, deve gradualmente assomigliare sempre più a quella sociale, mediante interventi finalizzati al cambiamento comportamentale, e le richieste, dapprima molto basse, devono divenire sempre più simili a quelle che il paziente affronterà al di fuori dei setting istituzionali.
L’interazione socializzante operatore/paziente ha, invece, l’obiettivo di invertire e neutralizzare la spirale di desocializzazione, che è la conseguenza più grave dalla malattia mentale da un punto di vista psicosociale. Il termine interazione esprime un processo reciproco tra persona e ambiente, il termine socializzante significa che attraverso la relazione operatore/paziente si neutralizzano i fattori della desocializzazione, si contrasta la tendenza all'evitamento e si riavvicinala persona al contesto. In altri termini, mentre il paziente, attraverso movimenti di rifiuto e di non-reciprocazione, impiega tutte le sue energie per mantenere la sua condizione di autoisolamento e di disfunzione, l’operatore si muove in senso esattamente opposto, non consentendogli di interrompere il rapporto e disconfermando l’aspettativa di essere lasciato in pace o di essere allontanato. Inoltre, l’interazione socializzante operatore/paziente promuove l’acquisizione di comportamenti organizzati, scoraggia l’adozione di comportamenti disfunzionali, offre esperienze di successo e motiva la persona a:
- Affidarsi all’èquipe.
- Concordare sugli obiettivi riabilitativi (abilità e supporti).
- Apprendere le abilità necessarie per il raggiungimento del suo obiettivo di vita.
- Internalizzare i vantaggi derivanti dall'adozione dei comportamenti funzionali.
- Cominciare a rinunciare ai vantaggi connessi alla malattia.
L’affidamento e l’accordo sugli obiettivi riabilitativi (abilità e supporti) sono spesso essi stessi obiettivi da raggiungere.
La necessità di competenza professionale nel settore residenziale della salute mentale
Infine, si sottolinea quanto sia cruciale il possesso da parte degli operatori che lavorano nel settore residenziale, di specifiche conoscenze, abilità ed attitudini. Tali competenze professionali non sono finalizzate ad apprendere l’uso di specifiche tecnologie (TAC, RNM) o ad interpretare analisi laboratoristiche, ma ad orientare i comportamenti del personale medico e non medico, il suo modo di comunicare, il suo modo di interpretare i comportamenti dei pazienti e il suo modo di evidenziare gli esiti alla luce dei principi della recovery e dell’inclusione sociale, al fine di essere «efficaci».
Quindi, maggiormente che in altre branche della medicina, la formazione è finalizzata ad acquisire una «tecnica umana» (Anthony et al., 2002), dato che la tecnologia (ossia gli strumenti con i quali si fa diagnosi e trattamento) sono gli operatori che quotidianamente hanno rapporti con i pazienti e con le loro famiglie.
A questo proposito è necessario che gli interventi formativi siano orientati ai precisi modelli (tab. 3).
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