L’AIRSAM (Associazione Italiana Residenze e Risorse Salute Mentale) e la sua mission: come provare a rispondere alla domanda “Che cos’è oggi la residenzialità?”
Autori
(1) presidente AIRSaM
(2) vice-presidente AIRSaM
Congresso SIEP, Bologna 23-25 novembre 2023
Una premessa doverosa
Andrebbe sempre fatto, ma in questo difficile momento storico diventa pressante porsi la domanda, (con motivazioni etiche, epistemologiche, cliniche, politiche):
“A che punto siamo del nostro viaggio? Dove siamo arrivati? Quali prospettive riusciamo a darci e quali risposte, conseguentemente, riusciamo a proporre alle persone con problemi di salute mentale (che sono, appunto, compagni di viaggio)?”.
Nel 1994, su iniziativa di operatori della salute mentale dei Servizi pubblici e della Ricerca, della cooperazione sociale, del mondo associativo, di amministratori locali, di utenti e familiari, fondammo l’AIRSaM (Associazione Italiana Residenze/Risorse per la Salute Mentale (nota 1) (il termine Risorse in realtà fu aggiunto alcuni anni dopo), movimento nazionale a forte radicamento locale.
I soci fondatori provenivano dalle prime esperienze di residenze che andavano attivandosi per le persone dimesse dagli ospedali psichiatrici, per i cosiddetti “nuovi cronici” e per giovani utenti. L’associazione nasce dallo scambio di pratiche di salute mentale orientate all’inclusione e all’attivazione di percorsi virtuosi, con uno sguardo particolare rivolto alle “residenze” formalmente istituite, ma in senso più lato all’abitare nelle sue forme più evolute e sempre finalizzate all’autonomia della persona.
Così sintetizzavamo la traduzione dell’acronimo che avevamo scelto (nota 2): Associazione. Mettersi insieme […] e lavorare uniti: operatori della psichiatria con vari livelli di professionalità e responsabilità, pazienti, familiari, organizzazioni del volontariato, cooperative sociali, esponenti della politica e della cultura. Certo nel rispetto delle differenze di collocazione, delle articolazioni scientifiche e culturali e della diversa posizione e responsabilità nei confronti della sofferenza psichica. Ma cercando nel dialogo e nel confronto continuo di superare barriere comunicative, consolidate gerarchie di poteri, corporativismi che finivano per determinare quasi sempre l’annullamento individuale e sociale del paziente e dell’esperienza umana della perdita di salute mentale.
Italiana. Un’associazione che si propone di esprimere la sua esperienza e i suoi saperi su tutto il territorio nazionale. Radicandosi nelle realtà locali e nei suoi molteplici linguaggi ma senza rinunciare a proporre progetti e prospettive di ampio e generale respiro che abbiano nello Stato e nei suoi apparati normativi e regolativi l’interlocutore negoziale per politiche di promozione di salute mentale democratiche e comunitarie.
Residenze. Risiedere, abitare i luoghi, vivere lo spazio casa. Non essere abitati dai luoghi, non essere costretti in spazi non propri, non essere annullati dalle istituzioni della cura. […] Sono strumento suppletivo, sussidiario, transitorio. Non possono essere pensate come strumento definitivo, anche se questo non per forza deve portare alla conclusione che sempre e comunque debba essere recuperato l’originario spazio abitativo. […] Ci risuona ancora in mente la frase di Basaglia quando diceva che “quando per un paziente il problema diventa solo il posto dove metterlo” si è in presenza di un fallimento terapeutico che riguarda il futuro del paziente, l’autostima dei curanti, la fisionomia della struttura.
Le Risorse. […] Con il prevalere di una cultura dell’efficienza e della distribuzione delle risorse di tipo “aziendalistico” che tutto riduce a costi, centri di costo, produttività, redditività, secondo le logiche economiche della grande produzione di beni materiali e dei mercati, le cose si sono ulteriormente complicate. Il bene salute e a maggior ragione il bene salute mentale, diritto inalienabile e universale di tutti i cittadini della Repubblica, deve essere garantito, tutelato e promosso con equità e con la ricerca della massima efficacia. E allora nella polarità efficacia-efficienza diviene centrale l’efficacia delle cure e l’efficienza e la buona distribuzione delle risorse (risparmio compreso) non possono essere regolate dalle logiche “aziendali”. Esse debbono trovare fondamento nei principi culturali ed etici dell’economia della solidarietà e della sussidiarietà sociale che non abbiano nel profitto l’elemento determinante e dinamizzante.
Per la Salute Mentale. In questi anni correttamente si è spostato il centro di quanto riguarda il benessere psichico o la sua perdita dalla psichiatria, dai suoi codici e dalle sue istituzioni, alla comunità sociale, alle sue capacità di tutelare la salute mentale dei suoi cittadini e più spesso ai fattori di rischio insiti nelle distorsioni del suo funzionamento. […] Questo spostamento di fuoco, anche se in fase ancora iniziale, ha permesso di valorizzare nel campo della salute mentale l’importanza della qualità della vita delle persone, della prevenzione dei fattori di emarginazione, della messa in atto di politiche contro l’esclusione e il pregiudizio.
La meta, dopo trent’anni, resta sempre la stessa, ovvero la possibilità di curare la persona con sofferenza psichica di qualsiasi gravità, senza strumenti di annullamento fisico, chimico e sociale. Come spesso accade, già porsi questi obiettivi solleva da una parte attestazioni di scontatezza, dall’altra letture/accuse di atteggiamenti ideologici. In realtà intendiamo semplicemente dedicare il nostro tempo e le nostre attenzioni all'impegno scientifico, culturale e politico finalizzato a preservare capacità e diritti, sviluppare potenzialità affettive e cognitive, costruire e ricostruire con costanza e pazienza reti relazionali e sociali, spazi vitali nelle residenze, così come nelle famiglie e nella comunità locale tutta.
Abbiamo camminato a lungo e speso tante energie in questa direzione. Dalle prime lotte contro l'istituzione manicomiale alla costruzione delle reti dei servizi della cura e del prendersi cura; dalla critica e messa in discussione dell'assolutizzazione dei saperi e dei poteri della psichiatria, alla ricerca e alla sperimentazione sul campo di una cultura e di una pratica della salute mentale che trovasse fondamento nei bisogni e nei diritti delle persone sofferenti.
In tanti abbiamo costruito percorsi in questa direzione: utenti, familiari, operatori dei Servizi e del mondo della Ricerca, a fianco a quelli delle cooperative sociali; attori della politica, del volontariato, della cultura. E nei momenti più felici abbiamo camminato davvero insieme. Lo abbiamo fatto nel rispetto delle matrici e quindi del pluralismo culturale; con il dubbio della ragione, necessaria fra soggetti diversi e asimmetrici nella declinazione delle varie responsabilità:
Responsabilità: non ne parliamo ovviamente nel senso di colpevolezza, ma in quanto etica assunzione del peso delle proprie azioni e delle loro conseguenze. Queste due correnti opposte sono complementari e in mutua interazione. Ed è scontato che questa coppia dinamica debba valere sia i curanti, così come per i pazienti, per le famiglie, per gli amministratori e chi più in generale “governa”.
È senz’altro possibile affidare delle responsabilità reali agli operatori, ma non si tratta solo di dire, si tratta anche di fare: si tratta per il medico di accettare che un operatore possa suggerire o anche prendere una decisione secondo la linea comune.
[…] Abbiamo forse un’eccessiva tendenza a pensare in termini di alternativa o di dilemma; o sono i pazienti che comandano o il responsabile, lui solo. La verità è invece ambigua (nota 3).
Abbiamo operato e contemporaneamente fatto ricerca sul campo, sempre con la consapevolezza della incolmabilità del progetto e della infinitezza della meta, con la dialettica a volte conflittuale, dando a questo aggettivo un’accezione di ricchezza pluralista che promuovesse e promuova il confronto/conflitto produttivo e democratico, nella costruttività (anzi nella co-costruttività):
Confliggere […], significa dibattere su cose terze condivise, a partire da diversi modelli concettuali, da differenti opzioni teoriche, da contrastanti ideologie, da differenti posizioni di cui è interessante conservare la specificità. Litigare, di contro, significa esprimere giudizi, critiche, valutazioni problematiche nei confronti dell’altro, dell’interlocutore, entro un conflitto ove il giudizio negativo reciproco fa perdere di vista la cosa terza e dove la finalità è la convinzione, la sottomissione, l’aggressione dell’altro (nota 4).
Sempre consapevoli che non possono che essere variegate le posizioni culturali e tecniche, ribadiamo che altra cosa sono gli atteggiamenti contrapposti per “ideologie”, che non hanno motivo di essere, se l’obiettivo vero è la sofferenza della persona e dei suoi sistemi di relazioni. Si osservano gli accadimenti, si parla e si opera sempre da “vertici”, ma dobbiamo sapere che detti vertici rappresentano posizioni comunque parziali, dovendosi occupare della ineludibile complessità della sofferenza psichica (appunto di individui e di sistemi). La contrapposizione tra modelli di lettura, di diagnosi, di ipotesi eziologiche, non giustifica il fatto che venga limitata la sinergia tra ricerca clinica, ipotesi psicologiche, attenzione agli aspetti relazionali e sociali, così come alla ricerca neurobiologica e farmacologica. Invece assistiamo al sostanziarsi, in irritanti discussioni d’accademia, di pretese di indottrinamenti e quindi di perseguimenti dell’esclusività di letture e di trattamenti. Di fatto, si sostanzia una polarizzazione di una parte della psichiatria sul modello biomedico, così come un impoverimento di curiosità e creatività di gran parte della cosiddetta psichiatria sociale. La sofferenza delle persone con problemi di salute mentale viene così parcheggiata sulla soglia di non-incontri e di scontate algoritmizzazioni; quindi esposta alla miseria attuale.
Dove siamo oggi?
Veniamo dalla chiusura degli ospedali psichiatrici pubblici e poi di quelli giudiziari, con conseguente definizione delle reti di cura e legittimazione politica attraverso rivoluzionari e condivisi dispositivi normativi. Purtroppo però patiamo pure risorse formalmente riconosciute ma marcatamente insufficienti.
Ci era sembrato di uscire dal buio della notte e di essere entrati in un nuovo giorno. Ma la luce a un certo punto si è affievolita e il tramonto prepara una nuova nottata: prendono forma e consistenza nuove forme di neo-istituzionalizzazione strisciante, camaleontica e mimetizzata. È un passaggio probabilmente inevitabile, che comporta un momento di ripensamento ineludibile. Oggi questo passaggio appare particolarmente impegnativo, nel momento in cui con prepotenza si sono affacciati all'orizzonte nuovi potenti propositi riduzionistici della sofferenza psichica, bisogni di controllo repressivo di tutti i “disturbatori”, assolutizzazione dei valori dell'azienda e del mercato che tutto riconduce a costi e ricavi.
Contenuti che trovano sintesi nell’attuale situazione dei Servizi Pubblici di Salute Mentale. E allora la situazione non si presenta serena. Naturalmente, in un’ottica di responsabilità (come accennavamo sopra), dipende anche da noi se e con quali nuove forme passerà. Proprio per questo riteniamo che, a fianco ad altri interrogativi, vada riportata al centro la questione:
“Che cos’è la residenzialità oggi?”
Esiste infatti un patrimonio di pratiche e di riflessione sul lavoro delle/nelle residenze, espresse in questi anni in molteplici realtà, lavoro che ci permette di ripensare e proporre aggiornati alcuni requisiti di qualità già presenti nella nostra Carta di Matera già nel 1996.
Le residenze devono essere fortemente integrate con il sistema dei servizi sanitari e sociali.
È compito del Dipartimento di Salute Mentale attivare residenze: laddove questo non accada, il sistema no profit sarà elemento di promozione e stimolo ai servizi pubblici latitanti o assenti.
Le residenze devono essere ubicate nel cuore degli insediamenti abitativi e devono favorire e promuovere una politica di integrazione con la comunità locale in cui sono inserite.
Le residenze devono avere piccole dimensioni in modo da favorire un clima che valorizzi relazioni personalizzate, emotivamente investite tra ospiti ed operatori.
La dimensione delle case, la loro struttura organizzativa e il grado di protezione non possono essere definiti in modo rigido, ma al contrario, devono essere flessibili e ricchi di opzioni determinate sia dalle preferenze degli utenti, sia da loro bisogni specifici.
Ciò detto riteniamo che porre l’accento oggi solo sulle strutture residenziali non significhi che tali strutture siano un “problema” da risolvere; anzi, parliamo di una delle aree potenzialmente più ricche dei nostri Progetti Terapeutici Individualizzati.
Si pone, senz’altro, una questione di sanità pubblica, ovvero quali alleanze individuare per la costruzione di politiche per la salute mentale che vedano al centro il Servizio Pubblico, ma che contempli un’attenzione reale, produttiva, etica alle cosiddette componenti extra-servizio, che concorrono in maniera a volte determinante al successo dei programmi di cura.
A tal proposito è utile citare la distinzione che fa Paul Claude Racamier (nota 5) tra trattamento e, appunto, procedimento di cura, cosa ben più complessa, che necessita di attingere a ogni risorsa presente sul territorio. Ciò si deve associare alla costante ricerca di attivazione delle potenzialità del territorio stesso, dell’utente e della famiglia, nonché del contesto sociale in cui essi vivono. Lo leggiamo come un pressante invito a evitare scollamenti, considerando proprio la complessità della psiche individuale e dei sistemi che contengo i singoli individui e da essi si sostanziano.
Si tratta di lavorare per l’attivazione di reti comunitarie, di reti sul territorio, con l’individuazione e la reale valorizzazione di tutti gli interlocutori che possano costruire politiche di salute mentale. Naturalmente, all’interno delle politiche per la salute mentale le strutture residenziali hanno un’importante posizione. Pertanto ci interessa focalizzare il problema delle alleanze, in particolare con il Terzo Settore, per applicare i pensieri e le innovazioni possibili come le pratiche dialogiche, la psicoanalisi multifamiliare, la Comunità Terapeutica democratica e la formazione di esperti nel supporto tra pari (nota 6).
Ci interessa costruire strutture residenziali dove si possa lavorare tenendo al centro queste pratiche, perché per noi residenzialità si identifica con un lavoro ben più complesso e processuale, che definiamo abitare nell’accezione più ampia e quindi simbolica del termine.
In sintesi, ci riferiamo a un lavorìo costante affinché la persona con problemi di salute mentale venga supportata nel costruire (o rinforzare) il vissuto di esistere scambiando relazioni significative, affettive, paritarie; relazioni che potrà spendere in maniera transitiva nel momento in cui termina il percorso comunitario. Dando appunto per scontato che dal percorso comunitario si debba uscire, per evitare ciò che tragicamente vediamo: appunto nuove forme di neoistituzionalizzazione.
Oggi costruire e rinnovare la residenzialità significa farsi carico di problemi, di organizzazione, di allocazione e attivazione di risorse con la prospettiva di alleanze durature.
Ribadiamo pertanto il nostro impegno a concepire e realizzare strutture residenziali fondate su:
- Una stretta interconnessione con tutti gli altri Servizi del DSM.
- Una co-costruzione paritaria e autorevole del Progetto Terapeutico Individualizzato, in modo che non avvengano separazioni, discontinuità e infine scissioni tra le varie componenti del sistema curante.
- Una organizzazione di gruppi curanti pluralisti, con attenzione alla circolarità delle cure, alla potenziale ricchezza degli operatori cosiddetti laici del privato sociale, che si spendono con i pazienti nel quotidiano, ricchezza indubitabile se inseriti in un costante circuito formativo e di super/extra visione.
- Un riconoscimento di autonomia e libertà alle Comunità e ai loro gestori (seppur col coordinamento da parte del Servizio pubblico) di muoversi sul territorio su cui le residenze insistono, cercando e attivando ogni risorsa sociale, economica, culturale utile al Progetto Terapeutico complessivo.
- Un’attitudine all’inesausto confronto con altre esperienze di altri territori (vedi ad esempio la grande esperienza del Visiting) (nota 7).
- Un costante esercizio di pratiche di supervisione, nelle varie tipologie contemplabili: di marca psicologico-analitica (vedi l’esperienza di uno di noi autori) (nota 8) o extra-visione (come la definiva in scambi personali Benedetto Saraceno) o di consulenza sistematica (come ad esempio il lavoro di Nino Lo Cascio e Luciana De Franco) (nota 9).
Il tutto nel grande contenitore etico e programmatico che ci fa ritenere centrale che lo sguardo terapeutico vada rivolto al Soggetto/utente e al suo mondo interno, alle sue relazioni significative, al mondo esterno che lo “ospita” (inteso come macro-organizzazione) ma, principalmente, vada rivolto ai sistemi di cura e alle relazioni che vi si determinano, agli operatori tutti, alla comunità locale.
Il tempo dei percorsi residenziali
Tra i principi fondamentali di una buona residenzialità proponiamo due modalità ineludibili di identificazione dei percorsi, entrambe contenute nel contenitore-tempo: accoglimento temporaneo e congedo concordato, metafore di un tempo nel segno della continuità-discontinuità, che rimandano all’essenza di una residenzialità che nasca da una pianificazione co-costruita, contenga a priori la progettualità a termine, coinvolga tutti gli attori possibili, contempli ineludibilmente una separazione, nel segno della continuità con le cure organizzate sul territorio.
Quindi con tali concetti definiamo, rispettivamente, l’impegno a considerare ab initio come una tranche a termine il percorso residenziale e il successivo, conseguente, coerente momento della separazione verso altre forme di esperienza e di inclusione, che deve essere ipotizzato, in nuce, già nella fase di progettazione dell’inserimento in Comunità.
L’aberrazione mentale, teorica e pratica, che purtroppo pervade gran parte del mondo psichiatrico, riguarda l’assunto che il quotidiano sia una cosa e la terapia e la riabilitazione altre. Ciò determina da sempre implicazioni di carattere epistemologico, clinico, etico, economico, legislativo. Di fatto attiene ai grandi temi/interrogativi: quando possiamo parlare di “vere” Comunità Terapeutiche? Quale il crinale che differenzia queste da Comunità/alloggio, Case/famiglia, Strutture Residenziali di varia marca e identificate con creativi acronimi? Non si può certo liquidare il problema proponendo risposte riferibili all’assetto giuridico-amministrativo o a quello economico o ancora ai ruoli professionali o alle matrici culturali, o addirittura alle diagnosi nosografiche. Il dato che in regioni diverse vi siano leggi e regolamenti specifici, non deve consentire deroghe dai princìpi che stiamo sottolineando.
Il posto-letto come capestro
Intendiamo qui rappresentare un’ambiguità con la quale è necessario confrontarsi e dalla quale occorre provare a uscire. Riteniamo contraddittorio ed estremamente rischioso per il privato sociale progettarsi come referente dei Servizi di salute mentale esclusivamente per le Comunità Terapeutiche, per altre tipologie di residenze psichiatriche (vedi REMS) o per la semi-residenzialità. Ma ancora più colpevole è il Servizio Pubblico che dia per scontata questa incomprensibile e ambigua specializzazione del Privato Sociale, che di fatto esclude potenzialità ricche e condivisione dei programmi di cura proprio con chi vive e conosce con naturalezza (ecologicamente, verrebbe da dire) il territorio e le sue risorse.
Richiamiamo le nostre riflessioni sulla centralità delle relazioni e sulla necessità di integrazioni, sulla importanza dell’atmosfera nei processi di cura. Ne deriva che tali elementi fondanti il rapporto tra Servizio pubblico e Privato sociale non debbano né sbilanciarsi in termini di potere dalla parte del Servizio pubblico, né promuovere una deresponsabilizzazione da parte del privato sociale. Un esempio dirimente può essere rappresentato dalla co-costruzione del progetto terapeutico individualizzato: nessuno dei partners pubblico/privato/privato-sociale può ritenersi unico estensore dello stesso progetto terapeutico, né responsabile delle sue evoluzioni, anche se i rapporti, economici e di competenze devono essere chiari all’inizio, nello stesso momento in cui le cooperative vanno a costituirsi e a proporsi quali interlocutori competenti. Così i Servizi non devono considerare il privato sociale come capace interlocutore esclusivamente se opera nel chiuso di una casa, ma anche quale possibile attuatore per tutti i percorsi di cura attivati in termini extra-residenziali e quindi territoriali.
Vi è un altro aspetto importante, a proposito del personale delle cooperative, che induce a riflettere e a prendere contromisure: la presenza nei programmi delle cooperative stesse di operatori che vengono cooptati in quanto professionisti di varia provenienza (psicologi in primis, così come assistenti sociali e tecnici della riabilitazione psico-sociale), ma vengono inquadrati contrattualmente come operatori di base e/o tutor aspecifici per programmi di inserimento lavorativo. Tutto ciò rappresenta un’ambiguità che pone di fronte a una potenzialità fruibile che è solo illusoria da parte di tutto il sistema oppure, al contrario, a una conflittualità nei fatti, latente e potenzialmente distruttiva.
Quale formazione realmente fruibile?
Quando parliamo di “laicità”, non intendiamo celebrare una sorta di naif virtuoso a prescindere, ma non esaltiamo neppure acriticamente percorsi di formazione dettati da generalizzazioni e algoritmi.
Per noi l’accento va posto principalmente su quell’accadere terapeutico/abilitativo che non apponga etichette pseudo-identificanti a luoghi fisici e a programmi standardizzati, ma si riproponga di rendere quegli stessi luoghi degli autentici spazi di esperienze vitali, luoghi capaci di operare le trasformazioni possibili, identificando e rinforzando quei fattori terapeutici aspecifici, che rappresentano il nucleo dell’autentica terapeuticità dei programmi di cura della Comunità in particolare, ma più in generale dei Servizi di Salute Mentale.
Purtroppo, a un livello implicito si tende spesso a mettere in scena una modalità relazionale di tipo familistico, in cui si fa molta fatica a lasciare andare/emancipare i figli/pazienti. In una cultura di questo tipo l’ospite-paziente rischia di istituire con gli operatori un legame di dipendenza, fonte di protezione e sicurezza, che però impone un prezzo alto da pagare: quello di un legame dove non c’è possibilità di emancipazione e di svincolo. Occorre quindi proporre percorsi formativi in tema di riflessioni su: dipendenza, onnipotenza, possesso, fantasie salvifiche, per determinare la sospensione del legame di dipendenza, che necessariamente porta con sé elementi stagnanti e mortiferi, in quanto ostacola il processo evolutivo dell’individuo verso una propria responsabilità personale e sociale.
Consideriamo l’esperienza comunitaria come opportunità e attitudine a configurare solidali relazioni interpersonali, nonché presenze dignitose degli stessi utenti nella società, distratta quando non violentemente espulsiva. L’atmosfera globale che caratterizza la Comunità diventa così fondamentale, ha valenza simbolica, quindi implicita; riguardala sfera del non detto, delle emozioni che sottendono le relazioni tra i membri dell’équipe curante e gli ospiti. Essa agisce su molteplici livelli in quanto è al tempo stesso “fattore” e “sensore”: determina l’esperienza del vivere comune, in termini di qualità e intensità, ma al tempo stesso ne è il prodotto, perché registra in un dato momento o periodo l’essenza di questa esperienza (nota 10).
L’atmosfera può costituire quella base sicura (nota 11) da cui partire per esplorare nuove possibilità relazionali, prima all’interno della Comunità e poi gradualmente spostando queste possibilità nel mondo esterno:
Assumiamo come paradigma chiarificatore del nostro punto di vista quello della madre verso il proprio bambino neonato: se appare insensato riferirsi a delle tecniche materne per la cura, l’allevamento e l’educazione del bambino, è però vero anche che la madre deve sapere alcune cose in ordine alla cura, all’allevamento e all’educazione. Dunque la madre non ha tecniche ma sa qualcosa che le permette di dare concretezza alla domanda di cura, allevamento ed educazione che il bambino di continuo esprime. La madre sa favorire la domanda del bambino e insieme a lui (insieme fisicamente al suo corpo) costruisce le risposte. Questo chiedere con (cumpetere) della madre alleata del bambino ne costituisce la competenza (nota 12).
Stiamo quindi stigmatizzando atteggiamenti autocentrati e autoreferenziali di molti attori dei servizi pubblici, quando propongono “formazioni tecniche” e non prestano profonda attenzione a confusioni, alleanze patologiche, identificazioni, scissioni, collusioni perverse, a volte fatte passare addirittura per “democraticità” delle strutture e dei percorsi proposti. Aspetto a nostro avviso irrinunciabile è che la funzione di meta-riflessione da parte del gruppo curante necessita di uno sguardo esterno, che permetta di pensare elementi che sono fuori dal campo razionale:
Si è venuta a delineare, nella prassi di molti Servizi, la supervisione concepita come gruppo di discussione di casi clinici, costituito dalla totalità o da una maggioranza dei membri del Servizio, alla presenza di uno o più esponenti della leadership ufficiale e con la guida di un consulente esterno, per lo più un analista esperto nel campo.
Il coniugare in tal modo il processo di apprendimento clinico con lo spazio emotivo/ideativo in cui ogni membro del gruppo possa trovare l’occasione di verifica dei propri processi mentali, consente la trasformazione del materiale più complesso e impenetrabile, mutuato dal rapporto con lo psicotico, in una comunicazione dotata di senso per entrambi (nota 13).
In realtà la situazione è molto complessa, perché il ruolo del Servizio inviante non è semplicemente quello di affidare il proprio paziente. Affidare con delega totale è l’equivalente dell’espulsione e della deresponsabilizzazione rispetto al processo di cura; è una sospensione del tempo della cura, fino a mostrare antiterapeuticità.
Il ruolo del Servizio pubblico è quello di interagire costantemente nella progettazione del percorso di cura, nelle sue verifiche, negli aggiustamenti, nella predisposizione del futuro riaccoglimento sul territorio in termini relazionali, affettivi, logistici, economici, clinici.
Se la Comunità tende a prestarsi soprattutto ad una funzione materna di contenimento e “maternage”, la “presenza distante” del Servizio Territoriale Inviante […] può costituire il polo “Terzo” e paterno che norma, regola e organizza la distanza tra gli attori che animano le vicende psicopatologiche del paziente e ruotano intorno ad esso. Ci rifacciamo qui in particolare alla riflessione Lacaniana che ha approfondito la funzione significante e simbolica del padre […] una delle “fatiche” del lavorare in psichiatria è mantenere sufficientemente pervi e vitali i canali di comunicazione tra i vari presìdi che si occupano della grave malattia mentale, per giungere ad una visione comune e integrata sul paziente. Quando questo avviene e, paziente, famiglia, Comunità e Servizio Inviante trovano una “strada comune”, si assiste sovente a “guarigioni” che paiono spesso miracolose (nota 14).
In definitiva, nel progettare percorsi di formazione, si ripropone l’assoluta necessità di uno sguardo esterno rispetto alle grandi ambiguità che stiamo rappresentando, attingendo quindi a quella forma del pensiero che Guildorf definisce appunto divergente, nel senso di una capacità di ricercare risposte flessibili e soluzioni molteplici e originali (nota 15). Riportare i programmi a semplici aspetti clinico-nosografici o organizzativi non può che fallire, anzi è fallimentare già nelle premesse.
Per Residenze a spinta centrifuga
Come sopra più volte affermato, non considereremo mai il percorso residenziale come scollegato dalla continuità del prendersi cura nell’alveo del complessivo Progetto Terapeutico Individualizzato, quindi dalle tre componenti che lo caratterizzano, sinteticamente definibili come: sano abitare post-percorso comunitario, consolidamento delle capacità relazionali complessive, inserimenti socio lavorativi (ove possibile).
Rispetto a quest’ultimo punto ci riferiamo, ovviamente, a vere esperienze di lavoro per i pazienti, e non a luoghi di intrattenimento (nota 16) che in molte realtà vedono gli utenti passivi osservatori di operatori che di fatto lavorano. Dalle esperienze lavorative le persone con problemi di salute mentale devono trarre le risorse economiche per vivere in autonomia o per progettarla concretamente. Gli eventuali inizi in laboratori organizzati dal DSM in sinergia col privato sociale devono rappresentare una tranche a termine e non esperienze sine die di stazionamenti in percorsi da “ergoterapia” vecchio stile.
L’impresa sociale deve assumere il ruolo di attrattore, in grado non solo di accogliere l’utenza in fase avanzata del processo riabilitativo, ma addirittura quale contesto-esperienza capace di valenze terapeutiche tali da permettere l’affrancamento possibile dalla presa in carico più sbilanciata verso il versante clinico (psichiatrico o psicologico che sia). Quindi non più produzione degli obsoleti posacenere (nota 17) sostanziatori di una sorta di cronificazione nell’oggetto prodotto, bensì perseguimento orientato all'inserimento lavorativo del Paziente il quale, più che produrre oggetti, viene accompagnato nel percorso di investimento sull’Oggetto (inteso in termini psicodinamici).
Vanno necessariamente abbandonate logiche assistenzialistiche, come quella connaturata nello strumento delle borse lavoro (certamente utili in alcuni casi, ma esclusivamente con obiettivi di propedeuticità), per perseguire una forma di inclusione lavorativa a tutti gli effetti, regolata dai contratti collettivi di lavoro. Così come va implementata la rete delle collaborazioni, sviluppate sinergie ai livelli più disparati offerti dal territorio, tenendo sempre viva la progettualità e la ricerca di nuove opportunità.
Ed è spesso proprio un percorso in Comunità a far incastrare potenzialità e lavoro, a far assaporare la ricchezza delle relazioni, del fare con, potente stimolo verso la curiosità e, di conseguenza, verso la produttività e la processualità consapevole.
Note
Nota 1: www.
Nota 2: Documento elaborato da Angelo Guarnieri e pubblicato nel libro Cantieri aperti: società locale e salute mentale di Raffaele Barone, Edizione L’Accademia della Piazza, Caltagirone, 2002.
Nota 3: P.C. Racamier (1997), “Una comunità di cura psicoterapeutica. Riflessioni a partire da un'esperienza di vent'anni” in La Comunità Terapeutica. Tra mito e Realtà, A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli (a cura di), Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998.L’articolo è apparso, in lingua originale, sul numero 1 (1997) di Psychiatrie Française, pp. 137-152.
Nota 4: R. Carli, R.M. Paniccia (2017), “Confliggere. Litigare”, Editoriale in Rivista di Psicologia Clinica, 2, 2017.
Nota 5: P.C.Racamier, Lo psicoanalista senza divano. La Psicoanalisi e le Strutture Psichiatriche, Cortina, Milano, 1982, p. 261.
Nota 6: Proponiamo qui una sintetica bibliografia che ci consentiamo di definire “modello AIRSaM”, così come “modello Ascoltiamoci” (il gruppo di mutuo-aiuto che ha strutturato una decina di noi, direttori ed ex direttori di DSM e di UOC Salute Mentale):
(R. Barone, V. Bellia, S. Bruschetta, Psicoterapia di Comunità Clinica della partecipazione e politiche di salute mentale, Edizioni FrancoAngeli, Milano, 2010; G.Cardamone, S.Zorzetto, Salute mentale di comunità, Franco Angeli, Milano, 2000; R. Barone, S. Bruschetta, M. D'Alema, L'inclusione sociale e lavorativa in salute mentale Buone pratiche, ricerca empirica ed esperienze innovative promosse dalla rete AIRSaM, Edizioni FrancoAngeli, Milano, 2013; R. Barone, S. Bruschetta, A. Frasca, Gruppoanalisi e Sostegno all’Abitare Domiciliarità e residenzialità nella cura comunitaria della grave patologia mentale, Edizioni FrancoAngeli, Milano, 2014; R. Barone, S. Bruschetta, A. Frasca, La ricerca sui gruppi comunitari in salute mentale. La valutazione clinica delle reti sociali e la psicoterapia di comunità orientata alla recovery per la grave patologia mentale, Edizioni FrancoAngeli, Milano, 2014; R. Barone, Benessere mentale di comunità. Teorie e pratiche dialogiche e democratiche, Edizioni FrancoAngeli, Milano, 2020. R. Barone E A. Volpe, “Lavorare con i gruppi, per sviluppare comunità in tempi di crisi delle convivenze e della democrazia”, Rivista di Psicologia Analitica, Nuova serie, n. 58/2025, in press.
Nota 7: R. Barone, Valutazione dei gruppi comunitari in salute mentale; Franco Angeli Ed., 2014.
Vedi estratto da “Il clima come fattore terapeutico nelle comunità residenziali”.
Il Progetto Visiting DTC nasce da una lunga tradizione scientifica sulla Comunità Terapeutica Democratica, come setting psicoterapeutico specifico e come metodo terapeutico sociale, nata in Inghilterra con il famoso esperimento di “Northfield” e dalle riflessioni che in questi anni hanno guidato le attività delle Associazioni AIRSaM, Laboratorio di Gruppoanalisi, Mito&Realtà, assieme al Dipartimento Scienze Psicologiche, Pedagogiche e della Formazione dell’Università di Palermo. Esso, da un lato, si propone come base su cui attivare una circolarità tra Ricerca, Formazione e Interventi Clinici, in uno scambio continuo con gli sviluppi attuale dell’originaria esperienza britannica che hanno portato alla formazione dei Network Community of Communities e Enabling Environments. Dall’altro, si configura come autonomo Programma di Accreditamento di Qualità Scientifico Professionale per Comunità Terapeutiche, Gruppi Appartamento e Abitazioni Supportate, articolato in diversi, specifici e paralleli percorsi valutativi, formativi e di ricerca scientifica. L’obiettivo generale del Progetto Visiting DTC è creare e diffondere una rete servizi di Comunità Terapeutica e Sostegno all’Abitare, sia per adulti che per minori, capace di contribuire alla ricerca empirica in salute mentale sulle Procedure di Buona Pratica, i Dispositivi Gruppali Comunitari e le Reti di Ambienti Abilitanti attraverso i quali organizzare la presa in carico democratica e orientata al recovery, della sofferenza mentale. La proposta del Progetto poggia sulla creazione di un Network Scientifico Professionale tra l’International Network of Living Learning Experiences, l’esperienza della Group Relation Conference rappresentata in Italia dal NodoGroup, la Rete Nazionale degli Utenti della Salute Mentale, l’Associazione Professionale Arti Terapie, l’Associazione Italiana Scenodramma e la Lega delle Cooperative Sociali. Network fondato sui valori dello sviluppo locale e dell’inclusione sociale attraverso la costruzione dal basso di Standard di Qualità Gruppale Comunitaria empiricamente sostenuti.
https://www.mitoerealta.org/images/relazioni/depliant_2012.pdf
Ulteriori rinvii bibliografici:
Bruschetta S. (2017b), “Il Setting Psicoterapeutico Comunitario del Gruppo Appartamento. La definizione operativa utilizzata dal Programma di Accreditamento di Qualità Scientifico-Professionale "Progetto Visiting DTC". Nuova Rassegna Studi Psichiatrici. 2017, Vol.15 N. 1; Bruschetta, S. and Barone, R. (2015). “Democratic TherapeuticCommunity in a network of “EnablingEnvironmentsc: transformations of psychotherapeuticresidential services in social postmoderncrisis”, Academic Journal of InterdisciplinaryStudies, Vol 4, No 2 S2, pp.259-263.https://doi.org/10.5901/ajis.2015.v4n2s2p259; Bruschetta, S. and Barone, R. (2016), “Group-apartments for recovery of people withpsychosis in Italy: Democratic therapeuticcommunities in post-modern social communities. Therapeutic Communities”, The International Journal of Therapeutic Communities,Vol. 37 Iss: 4, pp.213-226. https://doi.org/10.1108/tc-03-2016-0008; Bruschetta, S., Frasca, A. (2016). “Il “Progetto Visiting DTC” per l’Accreditamento di Qualità Scientifico Professionale Tra-Pari delle Comunità Terapeutiche del Servizio di Salute Mentale delle ASL dell’Area Vasta Sud-Est della Regione Toscana”, Nuova Rassegna Studi Psichiatrici. 2016; Vol.13 N. 1. http://www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it; Bruschetta, S., Frasca, A. (2017). “La formazione di stakeholder delle Comunità Terapeutiche come “Valutatori Esperti”, nel programma di accreditamento tra pari “Progetto Visiting DTC”, Nuova Rassegna Studi Psichiatrici. 2017; Vol.14 N. 1.http://www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it; Bruschetta, S., Frasca, A. and Barone, R. (2016), “Verso Servizi Comunitari di Salute Mentale RecoveryOriented”. Nuova Rassegna Studi Psichiatrici, Vol.13 N. 1. http://www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it
Nota 8: A. Malinconico, Note sulla residenzialità, tra fondamentalismi e fondamento, op. cit.;A. Malinconico, Vecchi e nuovi sacerdoti nell’approccio comunitario alle psicosi, op. cit.A. Malinconico, L’Oratore muto e la Comunità: “anche qui dimorano gli dei”, Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie, n. 5,1998, pag. 75-89.
Nota 9: L. De Franco, A. Lo Cascio, “Jung e la formazione dell’analista”, in A. Carotenuto, Trattato di Psicologia Analitica, Utet Torino, 1992, pp. 375-392; L. De Franco, A. Lo Cascio, “La consulenza per la professione analitica”, in A. Carotenuto, Trattato di Psicologia Analitica, Utet Torino, 1992, pp. 393-406.
Nota 10: M. Biaggini, M. De Crescente, L. Gaburri, N. Ghisotti, L. Mingarelli, P. Pismataro, Elementi costitutivi del clima come fattore terapeutico. Per la costruzione di un modello italiano. Atti del Convegno “Il Clima come fattore terapeutico nelle comunità residenziali, 2012, p. 8. www.mitoerealtà.org.
Nota 11: J.Bowlby (1969), Una base sicura Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Raffaello Cortina Ed., Milano, 1988.J. Bowlby, (1988), Costruzione e rottura dei legami affettivi. Raffaello Cortina, Milano, 1992.
Nota 12: B. Saraceno, “La cultura della riabilitazione. Una ricerca del Centro Studi e Ricerche sulla devianza e sulla emarginazione”, The Pratictioner, Edizione Italiana, 1983, p. 82.
Nota 13: F. Rossano, L’intervento terapeutico in psichiatria. Prassi psichiatrica e psicologie del profondo: interazione e possibili contributi. Atti del congresso nazionale SIP, Riccione, 1994.
Nota 14: M. Biaggini, M. De Crescente, L. Gaburri, N. Ghisotti, L. Mingarelli, P. Pismataro (2012), op. cit.,p. 4.
Nota 15: J.P. Guildorf, cit. in U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 1992, p. 226. L.De Franco, “Con Sguardo divergente. Un approccio junghiano alla supervisione e formazione di operatori della riabilitazione psicosociale”, in Rivista di Psicologia Analitica, n. 27, 2009, p. 21-35.
Nota 16: B. Saraceno, Fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichica, ETAS, Libreria Coletti, 2000.
Nota 17: B. Saraceno, Introduzione a Viaggio nel meridione. Immagini di ordinarie utopie. Fotografie di Arnaldo Di Vittorio. Edizioni Il Gabbiano, Milano, 2000.