Volume 28 - 15 Maggio 2024

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Psicosi unica: attualizzazione del concetto

Autori

Ricevuto il 19/02/2024 – Accettato il 28/02/2024



Riassunto

La crisi periodica della nosografia categoriale riporta sempre alla luce la questione della validità delle diagnosi in psichiatria, in particolare se i diversi quadri di stato e di decorso che la clinica propone si pongano in continuità l’uno con l’altro, non solo per le caratteristiche sintomatologiche, ma anche per le determinanti genetiche, neurobiologiche e psicosociali. Il paradigma classico della psicosi unica, dominante nella prima metà del XIX secolo con Guislain e Griesinger, è ritornato nella seconda metà del XX secolo col predominio dei modelli psicodinamici e psicosociali, oltre che con l'organodinamismo di Ey e il modello dinamico-strutturale di Janzarik, per essere nuovamente messo da parte dalla nosografia operazionale nordamericana. Le problematiche poste dalla comorbidità psichiatrica, dai cambiamenti diagnostici evidenti nelle fasi di esordio dei disturbi, anche in relazione ai cambiamenti biologici del neurosviluppo, il carattere transnosografico di fattori patogenetici come gli eventi di perdita, i traumi e l’uso di sostanze, il venir meno della specificità dei farmaci più nuovi rispetto alle categorie diagnostiche tradizionali, il carattere polimorfo e spesso ad espressione comportamentale della psicopatologia dell’ultima generazione sono tutti aspetti che reclamano una revisione dei paradigmi diagnostici categoriali in psichiatria nella direzione di una continuità tra i diversi quadri, la definizione personalizzata delle traiettorie psicopatologiche e modelli nosografici sostanzialmente unicisti o comunque fluidi, dinamici.

Parole chiave: nosografia; psicosi unica; storia della psichiatria.


Abstract

The periodic crisis of categorical nosography always brings back to life the problem of validity of psychiatric diagnoses, in particular whether the different clinical pictures and their courses are in continuity with one another, not only for their overlapping symptomatology, but even for their genetic, neurobiological and psychosocial determinants. Classical paradigm of unitary psychosis, conceptually predominant during the first half of XIX century with Guislain and Griesinger, was revived in the middle of XX century through Ey’s organodinamism and Janzarik’s structural-dyamic model, other than through the various psychodynamic and psychosocial integrated models, only to be put back into discussion by northamerican operational nosography. The widespread psychiatric comorbidity, the diagnostic changes, especially in early and prodromic stages of disease, the transdiagnostic role of some pathogenic factors like events of loss, traumas, substance abuse, the failure of newer medications to fit into old diagnostic labels, the polymorphic and often behavioral modality of expression of psychopathology in the last generation, all claim for a new definition of psychopathological trajectories and for a more fluid and dynamic approach to nosography.

Keywords: nosography; unitary psychosis; history of psychiatry.


Background storico

Il concetto di psicosi unica nasce all’inizio del XIX secolo con l’opera di due grandi psichiatri, uno di lingua francese, Joseph Guislain, e l’altro di lingua tedesca, Wilhelm Griesinger (1). I due autori possono anche essere visti in un continuum tramite l’opera di Albert Zeller. Col concetto di psicosi unica la nascente psichiatria si è discostata dalla tradizione medica e neurologica che intendeva classificare le malattie attraverso il modello delle entità di malattia, come Pinel ed Esquirol. Per Guislan, che sembra anticipare di duecento anni la questione delle “comorbilità psichiatriche”: “Tutta la fenomenologia delle malattie mentali, tutte le loro forme di presentazione possono trovarsi combinate…oppure possono mutare le une nelle altre, con alcuni sintomi che scompaiono e altri che riappaiono” (2). Guislain ipotizzò quindi la presenza di un elemento patologico comune, la “frenalgia” (lett. “dolore della mente”) , le cui manifestazioni cliniche potevano variare lungo una sorta di progressione dinamica del disturbo da un semplice stato di sofferenza psichica ad un quadro melanconico più grave. Il quadro poteva arrestarsi al primo livello oppure evolvere in forme più severe di mania, delirio e infine demenza. Griesinger introdusse questo concetto nella psichiatria tedesca con il termine di “Einheitspsychose”, cambiando varie volte opinione sulla possibilità che i disturbi “puramente” affettivi, cioè che non evolvono mai verso la psicosi, potessero rappresentare un'entità clinica separata dal resto della psicosi unica (3). Gli ultimi anni dell’attività di Griesinger coincisero coi primi di un altro autore, Karl Ludwig Kahlbaum, che Griesinger apprezzò pubblicamente nella sua lezione inaugurale a Zurigo nel 1864. Fu proprio Kahlbaum il primo affossatore della teoria della psicosi unica, introducendo il principio fondamentale della nosografia psichiatrica, che continua a dominare nei sistemi classificativi attuali: l’idea che sintomi diversi indichino cause, quadri clinici, decorso ed esiti diversi, così come avviene in altri settori della clinica medica (4). Il passaggio logico fu l’utilizzo dei sintomi come fondamento per la classificazione delle malattie mentali. Alcune delle diagnosi introdotte da Kahlbaum (ebefrenia, catatonia, ciclotimia) hanno avuto lunga vita nella storia successiva della psichiatria, altre (quali la vesania) non hanno avuto fortuna. L’intuizione di Kahlbaum fu ampiamente ripresa e rimaneggiata da Emil Kraepelin, che selezionò una variabile clinica particolarmente adatta allo scopo della classificazione nosologica: il decorso (5). Sulla base del decorso, distinse due forme principali di psicosi: la dementia praecox, destinata ad un decorso verso diversi gradi di “debolezza mentale” (Blödsinn) e la malattia maniaco-depressiva, caratterizzata invece da un decorso favorevole, con ampie remissioni e assenza di deterioramento. Nelle varie edizioni del suo Trattato, Kraepelin provò con molti sforzi a trovare dei sintomi che fossero specifici per le due diagnosi da lui introdotte senza però trovarne alcuno. Non senza una certa onestà intellettuale, in un’opera tardiva purtroppo conosciuta a pochi (6) , il grande psichiatra ammise di non essere riuscito nel suo intento e propose una nuova classificazione su base più dimensionale. Tuttavia la lezione di Kraepelin che è rimasta nel tempo è quella espressa nelle edizioni 6° e 7° del Trattato. Alcuni contemporanei di Kraepelin hanno tentato di creare costellazioni sindromiche anziché malattie come basi per la nosografia, ma di fatto non hanno avuto un seguito significativo (7). Una prima revisione della dicotomia kraepeliniana si ha in Kurt Schneider ed in generale nella scuola di Heidelberg che, sotto l’etichetta di “psicosi endogene”, riunifica dementia praecox e schizofrenia (il nome che Eugen Bleuler dette alla dementia praecox kraepelininana) come i due poli di un continuum (8). Tuttavia, col DSM-III e le versioni successive, benché ispirate alla sua visione della schizofrenia (sintomi produttivi, sintomi di primo rango etc.) , l’impostazione categoriale stretta in senso “neokraepeliniano” è di nuovo tornata vincente. Il concetto di “psicosi endogene” è scomparso dalla trattatistica, l’idea della psicosi unica è stata praticamente abbandonata dalla nosografia, benché alcuni modelli psicopatologici e clinici di fatto l’abbiano riproposta nel corso del XX secolo. Henri Ey, ad esempio, propose un modello psicopatologico denominato “organodinamismo” (9) , prendendo le mosse da una visione evoluzionistica del cervello per cui le aree superiori sono quelle più recenti dal punto di vista filogenetico. Funzione principale delle aree superiori, secondo Ey, è la coscienza, sia in senso sincronico che diacronico, che consente l’inibizione delle funzioni inferiori, più regressive. Danni di diversa natura possono indurre, nell’adulto, una regressione del funzionamento della coscienza, che comporta la regressione del funzionamento mentale a stati più arcaici e l’emergere di quelli che la clinica psichiatrica definisce “sintomi”. La teoria di Ey è, in un certo senso, ancora più radicale degli autori precedenti perché raggruppa sotto l’egida di un singolo meccanismo (l’involuzione del funzionamento della coscienza) tutti i quadri clinici (le reazioni, le nevrosi, le psicosi, gli stati organici cerebrali). Werner Janzarik, l’ultimo dei maestri di Heidelberg, ha citato più volte Ey come fonte di ispirazione. Elemento centrale del suo pensiero è il concetto di “dinamica”, di non semplice interpretazione (10). Con questo termine Janzarik indica i mutamenti formali che avvengono nella mente, anche in relazione alle oscillazioni energetiche che attualizzano o disattualizzano determinati contenuti psichici della struttura individuale. Le psicosi, secondo Janzarik, sono sempre caratterizzate da un’alterazione della dinamica che può oscillare attorno a delle costellazioni caratteristiche (la riduzione negli stati depressivi, l’espansione in quelli manicali, l’instabilità nei disturbi schizofrenici) ma che resta pur sempre un fenomeno fluido, dinamico, anche nel senso di continuamente soggetto a oscillazioni, fluttuazioni, regressioni. Gli studi più recenti sulla “salienza” (11) in qualche modo ripropongono il concetto di “dinamica”, riferendolo piuttosto all’ambiente che al mondo interno, la “struttura dei valori” come la chiama Janzarik.


Situazione contemporanea

La psichiatria contemporanea è dominata dal paradigma neokraepeliniano nella versione nordamericana che ha dato vita alla serie dei manuali diagnostici dal DSM-III al DSM 5 (12) ; anche la classificazione europea con l’attuale ICD-11 (13) ripropone un modello categoriale, sebbene meno rigido e più prototipico.

Sebbene presentino delle differenze tra loro, i due manuali hanno somiglianze tali che ci permettono in questa sede di commentarli insieme e che possono essere riportate ad alcuni punti chiave:

  1. Individuano categorie diagnostiche più vaste (esempio: disturbi psicotici) all’interno delle quali ricadono uno spettro di diagnosi distinte (esempio: schizofrenia, disturbo schizofreniforme, disturbo psicotico breve etc.)
  2. Ogni diagnosi è definita sulla base di sintomi specifici, a volte soggettivi, a volte oggettivi. Per poter porre una diagnosi, devono essere presenti un certo numero di sintomi all’interno di una lista.
  3. Per ogni diagnosi esistono specifici criteri di esclusione. Per molte diagnosi è necessario escludere attentamente la possibilità che il quadro clinico sia causato da sostanze psicoattive oppure condizioni mediche generali.

Certamente il modello categoriale ha alcuni vantaggi pratici nei campi della ricerca psicofarmacologica e clinica attraverso la preminenza della affidabilità diagnostica sulla validità scientifica della diagnosi, grazie all’accettazione pragmatica e operativa di un certo nominalismo diagnostico che ben poco ci dice sulla reale natura del disturbo. La maggior attenzione all’affidabilità delle diagnosi piuttosto che alla loro validità ha portato ad esempio un progressivo uniformarsi del linguaggio utilizzato dagli esperti della salute mentale che tuttavia in tantissimi casi rappresenta anche un appiattimento della funzione euristica della diagnosi per la conoscenza del singolo paziente. Non solo i ricercatori ma anche i clinici e perfino i periti forensi sono praticamente obbligati a porre una diagnosi secondo i criteri riportati in uno dei due manuali, essendo in pratica costretti quasi sempre ad un certo grado di “approssimazione” se non di “falsificazione della realtà”.

I manuali diagnostici, inoltre, definiscono diagnosi specifiche ma ammettono la possibilità che più diagnosi siano contemporaneamente presenti, fenomeno chiamato comorbidità. La comorbidità è ampiamente presente in tutti gli ambiti della clinica medica, eppure non viene mai problematizzata o per la frequenza relativamente scarsa (riconducibile dunque alla casualità) oppure per la presenza di un fattore eziologico comune (si pensi all’obesità che in molti soggetti, nel tempo, concomita sia col diabete che con l’ipertensione). In psichiatria (come del resto in neurologia) la comorbidità è invece ampiamente problematizzata perché è incredibilmente frequente e certamente non si può pensare che un individuo abbia più malattie dello stesso organo contemporaneamente; inoltre i fattori eziopatogenetici sono, in psichiatria, sempre ignoti, oppure multifattoriali in senso bio-psico-sociale, cosa che certamente non facilita le discriminazioni diagnostiche.

Un recente, ampio studio trasversale di popolazione negli Stati Uniti ha mostrato che il 54% di chi ha almeno una diagnosi psichiatrica mostra il fenomeno della comorbidità (14). Un altro ampio studio longitudinale nella popolazione generale del 2019 ha mostrato che ricevere la diagnosi di un qualunque disturbo psichiatrico aumenta la probabilità di ricevere successivamente una qualunque altra diagnosi psichiatrica, con un hazard ratio che oscilla tra il 2% e il 48% (15). Dallo studio emerge inoltre un pattern temporale ben preciso per il fenomeno: la probabilità di comorbidità è massima nei mesi successivi alla prima diagnosi e poi tende a ridursi. Questo dato non è di univoca interpretazione, ma potrebbe indicare una tendenza dei disturbi psichiatrici a cristallizzarsi nel tempo, assumendo una fenomenologia sempre più specifica per il singolo paziente, come si vedrà nei modelli proposti nei prossimi paragrafi.

I problemi della comorbidità sono replicati sul piano delle ricerche biologiche. La genetica ha rappresentato negli ultimi decenni del ‘900 una grande speranza per i ricercatori interessati alle cause dei disturbi psichiatrici. Sebbene gli studi di epidemiologia genetica abbiano individuato tassi di ereditabilità alti per quasi tutti i disturbi psichiatrici, la ricerca dei geni coinvolti ha dato risultati ben poco soddisfacenti (problema a volte chiamato della “missed heritability”). Nel tempo inoltre si è assistito all’emergere di un altro problema: diagnosi diverse condividono geni di suscettibilità. Un recente articolo (16) rileva come molti disturbi psichiatrici abbiano tra loro un’elevata correlazione genetica, che raggiunge valori intorno all’80% per coppie quali schizofrenia-disturbo bipolare e disturbi d’ansia-depressione unipolare, su cui peraltro già da tempo la ricerca clinica aveva richiamato l’attenzione.

Anche la ricerca neurobiologica si è mossa in una simile direzione. Uno studio recente (17) ha seguito una coorte di ragazzi adolescenti tramite imaging in RM e ha trovato differenze per quanto riguarda il connettoma nei soggetti che successivamente sviluppano sintomatologia psichiatrica rispetto a quelli che non lo fanno, nello specifico un ritardo nella mielinizzazione del lobo frontale, notoriamente coinvolto in funzioni superiori di tipo sia emotivo che cognitivo. Elemento interessante è che tale ritardo è presente indipendentemente dalla diagnosi specifica, candidandosi come possibile substrato biologico transdiagnostico.

I dati, presi nel complesso, sembrano contrapporsi in modo piuttosto deciso all’ipotesi che esistano entità patologiche distinte. Piuttosto sembrerebbero suggerire che quelle che abbiamo definito come entità patologiche distinte emergano in realtà da un substrato comune o comunque condividano più di quanto le distingua.


Modelli alternativi alle diagnosi categoriali

Per ovviare ai problemi accennati nel paragrafo precedente, negli ultimi decenni sono stati proposti vari modelli alternativi con l’obiettivo da un lato di essere più aderenti alle ultime evidenze scientifiche, dall’altro lato di semplificare l’attività clinica quotidiana.

I Research Domain Criteria (RDoC) sono una cornice di riferimento proposta dal National Institute for Mental Health con lo scopo di favorire la ricerca sui disturbi psichici (18). Il modello prevede di studiare i diversi quadri psichiatrici attraverso sei domini principali del funzionamento psichico a vari possibili livelli di approfondimento biologico (dai geni al connettoma). L’obiettivo dichiarato del progetto era una revisione della classificazione dei disturbi psichiatrici per passare da un sistema basato su sintomi soggettivi a uno basato su segni il più possibile oggettivi. In un recente editoriale (19) , Cuthbert, che è stato tra gli ideatori del progetto, attribuisce al progetto RDoC il merito di aver favorito un’apertura in senso dimensionale e transdiagnostico anche all’interno della psichiatria americana, tradizionalmente più chiuso a queste prospettive. Non sono tuttavia mancate le critiche a questo modello, per esempio l’accusa di "riduzionismo" avanzata da alcuni autori di formazione fenomenologica (20).

Un altro modello discusso negli ultimi anni è quello del p-factor, secondo il quale i sintomi psichiatrici tendono ad aggregarsi in tre dimensioni principali, sia sul versante clinico che biologico: sintomi esternalizzanti, sintomi internalizzanti e disturbi del pensiero. Caspi nel 2014 ha ulteriormente dimostrato che anche queste tre dimensioni tendevano a correlare le une con le altre (21). In un articolo del 2022 (22) gli autori propongono di parlare di “p-factor fenotipico” per descrivere quegli elementi fenomenici aspecifici comuni a più quadri clinici. Questo stato sarebbe sostenuto da una specifica architettura dei circuiti neurali (p-factor neurale) , a sua volta in parte determinata da specifici elementi genetici (p-factor genomenico). Questa teoria permetterebbe di unificare le osservazioni provenienti dalle varie fonti, accennate nel paragrafo precedente.

Particolare attenzione ha ricevuto negli ultimi anni il modello dello staging clinico di McGorry (23) , che ripropone in termini moderni quello ottocentesco di Griesinger. Staging è un termine in uso ormai da decenni nella clinica medica e indica la valutazione della progressione di una malattia, che tendenzialmente correla con la prognosi e serve da guida per impostare un’adeguata terapia. Nell’applicare questo concetto alla pratica psichiatrica, McGorry parte da alcune considerazioni (24) :

  1. le diagnosi psichiatriche sono altamente instabili, sovrapponendosi ed evolvendosi nel tempo;
  2. le diagnosi psichiatriche hanno un’utilità terapeutica solo limitata;
  3. le prime due osservazioni sono vere soprattutto quando applicate all’età evolutiva;
  4. i disturbi psichiatrici dell'età evolutiva sono quelli che maggiormente richiedono un trattamento e in cui, potenzialmente, un trattamento efficace potrebbe essere di maggior utilità.

Partendo da queste premesse, McGorry propone di trascurare la diagnosi nella fase iniziale della malattia. Il suo modello teorizza uno stadio 1a, caratterizzato da sintomi ansiosi e depressivi aspecifici, e 1b, caratterizzato da sintomi psichiatrici attenuati. Solo a partire dallo stadio 2 emergono le diagnosi psichiatriche conclamate descritte dalla letteratura.

Va notato che nel modello di McGorry, proprio come per lo staging in altri campi medici, quale l’oncologia, non esiste un percorso pre-definito in senso peggiorativo. I pazienti allo stadio I quindi possono andare incontro a tre diversi destini:

  1. guarigione con scomparsa completa della sintomatologia;
  2. progressione verso gli stadi più avanzati, eventualmente fino allo stadio 4 (malattia cronica) ;
  3. persistenza di sintomatologia attenuata tipica dello stadio I.

Questo terzo caso trova dei precedenti illustri nella storia della psicopatologia fenomenologica soprattutto europea, quale per esempio il concetto di psicosi “subapofaniche”, quelle psicosi, cioè, che non mostrano mai sintomi produttivi, tuttavia si cronicizzano evidenziando una sintomatologia aspecifica e cionondimeno cronica e invalidante (25, 26).

Proponiamo di definire il modello di McGorry come “transteorico” perché ingloba alcune importanti linee di ricerca che hanno avuto un ruolo di primo piano negli ultimi decenni, per esempio quella sulla diagnosi precoce di psicosi, che risale fino al modello dei Sintomi di Base di Huber, il primo autore a proporre una stadiazione basata sulla progressione da sintomi aspecifici a sintomi diagnostici specifici quali i sintomi psicotici di primo rango (27). Soprattutto nelle fasi precoci, infatti, le distinzioni diagnostiche classiche hanno un valore solo limitato. In uno studio ormai classico lo stesso McGorry ha trovato che in un gruppo di 723 soggetti al primo episodio psicotico solo il 60% soddisfa i criteri per la diagnosi di un disturbo schizofrenico, mentre gli altri rientrano nelle categorie del disturbo schizoaffettivo e del disturbo bipolare con caratteristiche psicotiche (28). Per questo motivo sono stati costruiti modelli più generali che hanno come target la psicosi più che la schizofrenia. Si è parlato quindi per molto tempo variamenti di “Ultra High Risk” (UHR) e “At Risk Mental State” (ARMS) (29). Tali termini stanno ora confluendo nello stadio I dello staging clinico.

A conferma dell’evoluzione della ricerca e della clinica psichiatrica, si può inoltre portare il concetto di “severe mental illness” (SMI) (30). Dal punto di vista pratico-assistenziale, infatti, gli operatori della salute mentale hanno notato da tempo la tendenza da parte di alcuni pazienti, indipendentemente dalla diagnosi di partenza, a richiedere una presa in carico sempre più importante dal punto di vista assistenziale. Il termine fu proposto per la prima volta dal National Institute of Mental Health nel 1987 (31) e, nonostante vari rimaneggiamenti, la definizione data allora rimane efficace e si base sulle tre d:

  1. diagnosi: presenza di un disturbo psichiatrico maggiore, indipendentemente dalla diagnosi specifica;
  2. durata: lunga storia di malattia;
  3. disabilità: impatto significativo della malattia sulla vita del paziente.

Il concetto di “SMI” è stato de facto incorporato nel modello generale di McGorry nello stadio 4 (malattia grave e cronica).


Proposte e prospettive

L’errore commesso nella storia della psichiatria è, citando il fisico Carlo Rovelli, quello di “scambiare i processi per entità”, un modo di pensare ancora “metafisico” (32). Vista la complessità del campo di cui la psichiatria si occupa, andrebbero dunque evitate parole che si rifanno ad un modello statico e che servono per discriminare e contrapporre varie condizioni, a vantaggio di quelle che rimandano ad una visione dinamica e fluida: fasi, stadi, quadri trasversali e longitudinali, evoluzioni, traiettorie, processi.

La malattia in ogni singolo paziente ha un inizio, clinicamente rilevabile, abbastanza preciso (con i limiti dell’aspecificità e delle ambiguità di molti quadri di esordio) ed un’evoluzione ricostruibile anamnesticamente e catamnesticamente, che dovrebbe poter coprire l’intero arco di vita di quella persona. Il processo quindi dovrebbe, sul piano neuroscientifico, riconoscere i fattori che lo mettono in marcia (genetici, ma anche esogeni e psicologici) e quelli che ne determinano l’evoluzione (eventi, contesto relazionale, qualità delle cure, interventi psicofarmacologici e terapeutici appropriati ma anche non appropriati o addirittura negativi o "iatrogeni") che, in qualche modo, spieghino l’emergere dei diversi quadri trasversali. Tuttavia dobbiamo ammettere ancora oggi che i fattori che incidono sull’evoluzione dei processi psicopatologici sono sostanzialmente ignoti, cosa che un tempo veniva ben espressa dal termine “idiopatico”. L’opinione prevalente dei clinici della salute mentale è però che siano numerosi e acquistino un senso solo in modelli fortemente multidimensionali (33). Gli studi attuali indicano tra i fattori che influiscono sulla salute mentale lo stato di salute fisica, gli eventi traumatici, gli eventi vitali, l’utilizzo di sostanze con attività sul sistema nervoso centrale, le esperienze in ambito relazionale, le condizioni occupazionali. L’approccio ai fenomeni psicopatologici non può dunque che essere integrato in un modello clinico bio-psico-sociale, che tuttavia non ha una definizione teorica uniforme, ma piuttosto viene applicato con diversi modelli operativi nei servizi di salute mentale di comunità (34).

In questa cornice, particolare attenzione attirano i cambiamenti dei quadri psicopatologici che si stanno osservando nella cosiddetta “generazione Z” o dei “nativi digitali”. Questa popolazione è cresciuta in un ambiente sociale che ha subito radicali trasformazioni rispetto alle generazioni precedenti. Tra questi, a titolo di esempio, possiamo citare l’esposizione fin dalla più giovane età ai dispositivi digitali, divenuti una sorta di protesi o estensioni del corpo e della mente, l’essere cresciuti in famiglie non tradizionali (con alta prevalenza di separazioni e formazione di nuovi nuclei e quindi condizioni di isolamento o semiadozione) e la globalizzazione, con creazione di società multietniche che hanno permesso a questa generazione di venire in contatto con nuovi valori (35). È facilmente comprensibile che anche le presentazioni cliniche tradizionali siano sostanzialmente mutate, a vantaggio dei disturbi comportamentali su quelli strettamente intrapsichici. È ormai abbastanza evidente il cambiamento della psicopatologia tra le generazioni predigitali e quelle successive. Alcuni autori si sono interessati specificamente a questi mutamenti clinici sottolineando ad esempio (36) :

  1. la scomparsa di alcune forme schizofreniche, quali quelle catatoniche;
  2. l’aumento numerico di forme catalogate negli odierni manuali tra i disturbi della personalità, quali il narcisismo;
  3. l’aumento dei fenomeni di isolamento sociale;
  4. la perdita di demarcazione, nei disturbi affettivi, tra un episodio e l’altro con la mancanza di quella fase eutimica descritta nella letteratura classica.

All’inizio del XXI secolo alcuni articoli avevano brillantemente discusso, in questa linea di ricerca, la relazione tra pratica psichiatrica e post-modernità. Nato come opposizione a quell’età moderna che nasce con l’Illuminismo e ha nella certezza nella ragione umana e nel progresso la sua cifra caratteristica, il concetto di post-moderno ha ottenuto nel tempo delle caratterizzazioni sempre più specifiche. La scienza in toto è stata colpita ed ha perso di credibilità, è stata avvolta dal dubbio e dal sospetto, come ben dimostra ad esempio negli ultimi anni il cosiddetto movimento “no-vax”. In questo senso Laugharne (37) ha potuto dire che la psichiatria si è di fatto evoluta in una disciplina post-moderna: non esistono più teorie generali o solide, ma piuttosto intuizioni isolate, dati ottenuti da situazioni specifiche e difficilmente generalizzabili. Whitley (38) ha evidenziato come i cambiamenti sociali dell’epoca post-moderna possono avere una rilevanza nell’espressione dei processi psicopatologici, agendo su quei conflitti riguardanti l’identità, l’intimità e l’esperienza che si postulano essere alla base dei cosiddetti quadri di personalità, di sempre più comune riscontro nei servizi psichiatrici di comunità.

Questi cambiamenti psicopatologici possono essere colti solo marginalmente utilizzando le etichette diagnostiche classiche, visti i limiti descritti nei capitoli precedenti. La vasta letteratura sul rapporto tra covid-19 e salute mentale ne è un esempio. I numeri relativi alla prevalenza delle varie diagnosi categoriali nell’era covid hanno una validità solo parziale (39). Approcci qualitativi e narrativi, come quelle impiegati da Kotlarska (40) e Kaltenboeck (41) , permettono di cogliere meglio come, in presenza di un processo psicopatologico in atto, i grandi cambiamenti socio-culturali vengono accolti e interpretati dai pazienti, pur non rinunciando ad un certo rigore scientifico. Studi di questo tipo sono certamente da incoraggiare.

Un ultimo elemento significativo di questa “nuova” psichiatria è rappresentato dal dibattito acceso, presente a livello internazionale, sulla capacità di autodeterminazione dei pazienti psichiatrici, che implica il fatto che le diagnosi cliniche, anche di psicosi, abbiano un valore del tutto relativo sulla volontà e la capacità di agire dei singoli pazienti, sia per quanto riguarda il tema dell’imputabilità, sia del tema emergente del ruolo dello psichiatra nelle commissioni per il “suicidio-assistito”. In quest’ultimo contesto gli psichiatri sono costretti ad ammettere le legittimità della scelta suicida (medicalmente assistita e garantita dalle istituzioni sanitarie) di pazienti affetti da condizioni croniche avanzate, irreversibili se non terminali, fonte di “insopportabile sofferenza fisica e psichica” per l'individuo, invertendo di 180° gradi il tradizionale compito di prevenzione dei gesti suicidi e l’assunto che questi siano sempre sorretti da una patologia psichiatrica o quantomeno da un disturbo dell’umore (42).


Approcci terapeutici in una prospettiva unicista

I trattamenti attualmente disponibili per i disturbi psichiatrici, sebbene abbiano certamente contribuito al miglioramento delle condizioni di vita dei pazienti, hanno mostrato complessivamente un’efficacia parziale o comunque insufficiente nel lungo periodo. Un’ampia revisione della letteratura 2022 ha trovato, in un’ottica transdiagnostica, un effect size di 0,34 per le psicoterapie e 0,36 per le terapie farmacologiche (43). Lo studio STAR*D, che è ancora oggi considerato uno degli studi più accurati per quanto riguarda il trattamento farmacologico della depressione, ha rilevato che circa ⅓ dei pazienti arruolati non aveva risposto a 4 linee consecutive di trattamento (44). Valori analoghi sono suggeriti da uno studio ormai classico sulla prevalenza della schizofrenia resistente al trattamento farmacologico (45). Nonostante la clozapina, il farmaco indicato da tutte le linee guida internazionali per questo gruppo clinico, il 40-70% dei pazienti continua ad avere sintomi psicotici (46).

Sebbene tali dati non vadano presi in maniera eccessivamente catastrofistica, devono certamente stimolare una riflessione sui motivi per cui i trattamenti psichiatrici hanno ancora tassi di successo insoddisfacenti. Anche in questo caso un approccio transdiagnostico può fornire nuovi strumenti metodologici. Gli studi clinici infatti hanno il difetto di arruolare o meno i pazienti sulla base della categoria diagnostica trasversale, indipendentemente dallo stadio della malattia in senso longitudinale. La pratica clinica si confronta spesso sulla necessità di variare le terapie sulla base del dinamismo della malattia, cioè dei suoi vari stadi, che spesso, risentendo anche di vari fattori psicosociali o anche di variazioni spontanee, possono essere anche relativamente frequenti. Dal punto di vista psicofarmacologico le molecole in uso hanno uno spettro d’azione molto più ampio rispetto a quello che ha portato inizialmente alla loro immissione sul mercato, soprattutto per quanto riguarda gli inibitori del SERT (47, 48) e gli antagonisti del recettore D2 (49). Per ovviare al problema, nella più recente edizione del suo trattato, Stahl ha proposto di abbandonare la nomenclatura delle molecole con attività psicofarmacologica basata sull’indicazione clinica e passare ad una basata sull’effetto a livello dei neurotrasmettitori (50).

Un approccio transdiagnostico ha cominciato ad emergere sempre di più negli ultimi anni anche per quanto riguarda la scelta della miglior terapia farmacologica. Diversi studi, al di là delle considerazioni teoriche, hanno guardato alla pratica quotidiana degli psichiatri. Non sorprendentemente è emerso che a guidare la scelta della terapia farmacologica, più che la diagnosi, è la dimensione psicopatologica predominante, in un’ottica quindi francamente transnosografica (51). Sono stati anche proposti dei modelli operativi per integrare un approccio transdiagnostico nella pratica clinica quotidiana, anche per quanto riguarda la scelta farmacologica (52). Un’interessante revisione della letteratura molto recente (53) si è focalizzata sulle dimensioni psicopatologiche alla base del concetto di psicosi e ha rilevato che molecole diverse mostrano sulle varie dimensioni psicopatologiche profili di attività anche molto distinti.

Ancora più ampio è stato l’impatto dei modelli transdiagnostici per quanto riguarda i trattamenti non farmacologici (54). Sono stati sviluppati protocolli non più specifici per un singolo disturbo, ma piuttosto orientati a dimensioni psicopatologiche transdiagnostiche. In questo gruppo rientrano protocolli a raggio d’azione molto ampio, come il “Unified Protocol for Transdiagnostic Treatment of Emotional Disorders” (55) , e altri più ristretti, quali il protocollo Fairburn per il trattamento dei disturbi alimentari (56).


Conclusione

La psichiatria attuale, globalizzata e “post-moderna”, sta attraversando una fase di grande complessità, per l’estensione delle richieste di trattamento e dell’uso degli psicofarmaci nella popolazione generale, ma anche di grande crisi concettuale. I servizi psichiatrici di comunità da molti anni ormai non parlano più di “malattie mentale”, ma solo di “disturbi” spesso diagnosticamente non definibili per il loro polimorfismo e l’influenza di fattori multipli. La stessa denominazione dei servizi come dedicati alla tutela della “salute mentale” se non del “benessere mentale” (che al momento è garantito soprattutto dalle pratiche olistiche e di wellness sempre più diffuse) oppure, al contrario, come qualcuno propone in ambito accademico scientifico, (57) di “clinica delle neuroscienze”, è indicativo della situazione di trasformazione del settore.

La nosografia tradizionale rappresenta in questo contesto un “residuo metafisico” e dovrà andare incontro ad un’importante revisione: le diagnosi tradizionali avranno valore solo come “quadri clinici trasversali”, fotografie istantanee di un processo che, con una grande varietà di manifestazioni e di decorso, deve essere concepito sull’intero arco di vita, pur contemplando ampie fasi di stabilizzazione e compenso, se non di "recovery".

Ai servizi mentali, in collaborazione con le università, dovrebbe essere assegnato il compito della ricerca sui decorsi a lungo termine, creando registri psicopatologici (e non diagnostico categoriali) dettagliati che forniscano un archivio di “big data” su cui riformulare tutte le controversie nosografiche maggiori. Non si tratta solo di questioni accademiche e teoretiche: in ballo è la definizione stessa del “che cosa” dobbiamo e possiamo curare, con quali mezzi e con quali esiti nel lungo periodo, definendo anche le collaborazioni multiprofessionali e multidisciplinari necessarie. Se la clinica tradizionale, ottocentesca, della follia resta soltanto per la grande lezione descrittiva e psicopatologica, ma non per l’impianto concettuale, anche la diatriba tradizionale “psicosi unica”/”molteplicità di categorie diagnostiche” perde significato a vantaggio di una “nuova clinica della salute mentale” in gran parte ancora tutta da costruire.


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