Volume 28 - 15 Maggio 2024

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Complessità: un pensiero sfaccettato, difficile, generativo

Autori


Riassunto

Le scienze dei sistemi complessi non hanno solo prodotto una gran messe di risultati scientifici innovativi e spesso sorprendenti, che hanno allargato la nostra comprensione del posto della specie umana nel cosmo e delle forme della conoscenza che di questo cosmo possiamo avere. Parallelamente, questi sviluppi sono stati una fonte di ispirazione originale per le azioni pratiche di tutta una serie di professionisti che rivestono, in un modo o nell’altro, il ruolo di gestori di sistemi umani complessi: parliamo dunque di manager delle organizzationi aziendali, di operatori sanitari a tutti i livelli, di operatori della salute mentale (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti), di insegnanti e formatori, di urbanisti, di designer, di artisti, di operatori sociali, di politici, di amministratori…. Forse per la prima volta nella storia della modernità, i professionisti dell’umano si sono sentiti compresi dagli sviluppi di punta dell’ambito scientifico: in particolare si sono sentiti appoggiati nella loro esigenza di rispettare le innumerevoli varietà fenomenologiche delle identità e dei comportamenti umani, senza dissolverle nella ricerca di un “invisibile semplice”, al quale tentare vanamente di ridurre l’incomparabile diversità dell’umano.


Abstract

Complex systems sciences have produced a series of innovative and often surprising scientific results, which have widened our understanding of the place of human species in cosmos and of the forms of knowledge we can obtain about this cosmos. At the same time, these developments have been an original source of inspiration for practical actions of a group of professionals that fill a role in managing human complex systems: we can include managers of corporations, various kinds of healthcare workers, professionals in the field of mental health (psychologists, psychiatrists, psychotherapists), teachers and educators, urban planners, designers, artists, social workers, politicians, public administrators. May be for the first time in the history of modern age, professionals involved in the human fields of expertise feel that they are understood as a result of leading developments of scientific enterprise. First of all, they have found a support in their requirements for a respect of the countless phenomenological varieties in human identities and behaviours, while avoiding the risk of dissolving them in the aim at attaining a simple and fundamental level of reality.


Parlare di complessità oggi, anche e soprattutto in Italia, è difficile: tuttavia comprendere le ragioni di questa difficoltà è sicuramente una strada importante per comprendere anche la fecondità degli approcci ispirati dal cosiddetto “pensiero della complessità”. E’ difficile, dicevamo, in primo luogo, perché il termine è saldamente presente nel linguaggio comune e nel linguaggio comune, come è giusto che sia, assume accezioni vaghe, eterogenee, molteplici, sovrapposte, divergenti e talvolta contradditorie. Capita dunque che ‘complesso’ sia considerato spesso un sinonimo di ‘complicato’, ‘difficile’, persino di ‘faticoso’, e che altrettanto spesso costituisca l’antonimo di ‘semplice’ (che invece, a dire il vero, è piuttosto l’antonimo di ‘complicato’).

In questa sede non possiamo analizzare a fondo la natura di questi fraintendimenti, rispetto alla quale, fortunatamente, esiste una ricca bibliografia, che si è accumulata negli ultimi decenni, da quando le scienze e la filosofia hanno iniziato a parlare di sistemi complessi e a studiare i loro comportamenti e le loro evoluzioni. E qui sta, fondamentalmente, la prima ragione della difficoltà, ma anche della fecondità, di cui parlavamo. I comportamenti e le evoluzioni dei sistemi complessi, infatti, sono stati e sono studiati non da una singola scienza specializzata ma da quella che possiamo chiamare una federazione di scienze, non gerarchica bensì reticolare. E tutte queste scienze senz’altro intrattengono intensi rapporti di cooperazione e forme di integrazione piuttosto spinte, ma nel contempo mantengono la loro autonomia e la loro diversità di approccio. Di fatto, abbiamo persino scoperto che forse questa è una delle strade migliori per definire che cosa sia un sistema complesso: si tratta di un sistema che non può essere descritto pienamente da un solo punto di vista e che richiede invece, anche solo per cogliere gli aspetti più rilevanti dei suoi comportamenti e delle sue evoluzioni, la cooperazione, integrazione, ibridazione (e anche il contrasto e la conflittualità) fra più punti di vista. Una tale situazione innovativa apre ovviamente una profonda riflessione su che cosa significhi oggi l’unità della conoscenza e dei saperi umani. Mentre la tradizione prevalente nella modernità interpretava l’unità (dei saperi e anche, più in generale, delle attività umane) nel segno della standardizzazione e dell’omologazione, oggi questa unità può essere concepita e realizzata solo attraverso una tensione dinamica e una co-evoluzione tra diversità, che devono essere aperte alla comunicazione reciproca ma non possono sovrapporsi.

Esiste un’altra diversità stilistica fondamentale che rende molto eterogeneo l’insieme delle persone che si ispirano alle scienze dei sistemi complessi. Vi è infatti chi è maggiormente interessato alla teoria, scienziato, filosofo o semplice individuo colto che dir si voglia, e chi cerca nella teoria un’ispirazione per le difficili sfide pratiche che la sua professione gli impone. Potremmo accomunare queste persone parlando di tutti coloro che sono impegnati, in primo luogo professionalmente, nella gestione dei sistemi complessi umani, aggiungendo che qualunque sistema umano non può essere evidentemente separato dai molteplici ambienti e contesti in cui è inserito. Parliamo dunque di manager delle varie organizzationi aziendali, di operatori sanitari a tutti i livelli, di operatori della salute mentale (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti), di insegnanti e formatori, di urbanisti, di designer, di operatori sociali, di politici, di amministratori e di tante altre categorie affini più o meno chiaramente definite. Una parte dell’interesse mostrato negli ultimi decenni da una frazione, speriamo non maggioritaria, di queste persone è però francamente fuori posto: costoro hanno infatti la vana aspettativa di trovare una sorta di scorciatoia per identificare la semplificazione più adeguata rispetto a un mondo che appare di complessità indominabile. Con questo atteggiamento essi rimangono pienamente interni alla visione del mondo prevalente nella modernità occidentale, che appunto tendeva e tende a ridurre la ricchezza e la varietà del mondo fenomenico a poche invarianti, modelli o leggi che dir si voglia. Si parla così di “leggi della complessità”, e talvolta si cerca persino di appiattire arbitrariamente il mondo dell’umano sul mondo inanimato. Con ciò stesso non si coglie il fatto che i recenti sviluppi delle scienze dei sistemi complessi hanno dato il via in primo luogo a una profonda riflessione sulle inadeguatezze e le aporie della tradizione scientifica moderna e, conseguentemente, a una revisione antropologica del nostro modo di accostarsi al mondo e del valore da attribuire alla sua conoscenza.

In questo senso, gli sviluppi delle scienze dei sistemi complessi fanno tutt’uno con le esplorazioni ormai ricche e variegate dei limiti della conoscenza umana. Non si tratta di limiti nel senso di “non oltre”, bensì di vincoli costruttivi inerenti alle specificità biologiche, neurologiche, cognitive e spazio-temporali dei soggetti umani: più che limiti umani in senso stretto sono limiti alle capacità di proiezione dei nostri caratteri particolari sulla realtà stessa, al fine vano di domarla, controllarla, conquistarla, addomesticarla. Se noi diciamo che non è possibile, nel micromondo studiato dalla meccanica quantistica, misurare contemporaneamente posizione e velocità di moto di una particella sotto una certa soglia di indeterminazione, questo significa che il micromondo non si lascia ingabbiare dalle nostre griglie concettuali elaborate originariamente alle scale spazio-temporali della vita quotidiana. E se diciamo che esistono problemi computazionali irrisolvibili, fenomeni non descrivibili, fatti matematici non dimostrabili, significa che nell’universo non tutto può essere reso oggetto di computazione, di descrizione, di dimostrazione. E’ questa proiezione, questa ambizione del controllo, che spesso offusca i processi di conoscenza, imprigionandoli entro simulacri di realtà a nostro uso e consumo, per paura di perdersi nell’oceano dell’ignoto. E’ un atto di presunzione somma porre noi, soggetti umani incarnati, sullo stesso piano del mondo, del cosmo, della realtà o di qualunque cosa vogliamo assumere a nostro interlocutore nel processo della conoscenza. Di fatto, il rapporto fra noi e questo nostro interlocutore cosmico non può che essere asimmetrico: qualunque atto di conoscenza non può che prendere il via da un atto di resa, dalla comprensione che la nostra conoscenza incarnata e particolarizzata non potrà mai ingabbiare e omologare il nostro maestro cosmico.

Solo grazie a quest’atto di resa, siamo in grado intraprendere giochi molto interessanti con il mondo, che hanno lo scopo privilegiato di abitare meglio questo mondo dall’interno, non di controllarlo dall’esterno. Qui è opportuno sottolineare l’atto sommamente costruttivo e creativo di quest’atteggiamento, che è l’esatto contrario dell’Ignorabimus enunciato da alcuni positivisti di fine ottocento. Una volta che ci siamo resi conto di non poter tracciare confini rigidi e netti della realtà dall’esterno, scopriamo con passione e con stupore (che produce spiazzamento, ma anche investimenti energetici) dell’immensità delle dimensioni di questa realtà aperte alle nostre esplorazioni future, quale ricompensa presiosa per la rinuncia a farla corrispondere artificiosamente con una nostra, unilaterale idea di realtà. E per delineare queste esplorazioni diventano decisive le anomalie (per dirla con Thomas Kuhn) o i “corvi bianchi” (per dirla con William James, anche se oggi è più popolare parlare di “cigni neri”), cioè quelle brecce che segnalano le inadeguatezze delle nostre idee preconcette sulla realtà, e che proprio per questo indicano nuovi orizzonti di esplorazione. Ai nostri giorni, l’esperienza storica più ampia e produttiva è sicuramente la condizione della fisica dalla fine dell’ottocento ad oggi. All’inizio, infatti, le anomalie erano state soprattutto subite, e l’atteggiamento prevalente era quello di cercare di integrarle il più possibile nelle visioni classiche; ma poi, anche in seguito a un fatto generazionale, cioè allo sviluppo di nuove generazioni di scienziati che potevano vedere più in là proprio perché basati sulle spalle dei “padri fondatori”, le brecce sono state aperte e attraversate, con l’immersione in nuove profondità di esplorazione che, a tutt’oggi, continuano a trasformare le nostre visioni del mondo e a lanciarci ancora nuove sfide. Mentre questa storia continua a procedere, a parere di chi scrive una nuova breccia del ventunesimo secolo di grande rilevanza si staglia nei confronti dell’enorme problema delle relazioni fra le dimensioni psichiche e quelle fisiche, in cui forse siamo ancora nella fase delle “anomalie” o, se vogliamo, di un caos creativo.

Per tornare a un territorio solo apparentemente più dominabile, cioè quello delle esigenze pratiche, della ricerca di una guida teorica per le azioni e le decisioni umane, il richiamo alla complessità non è sicuramente un invito a sottovalutare le nostre esigenze primarie di semplificazione: queste esigenze hanno certamente talune delle loro radici nel nostro stesso bagaglio percettivo e neurologico, che producono modelli della realtà volti a ridurre la molteplicità degli stimoli che ci provengono da ogni dove. Porre l’accento sulla complessità si tratta però, in maniera consapevole, di rinunciare alla semplificazione, alla riduzione, al modello “vero” una volta per tutte e di comprendere che la conoscenza di ogni situazione umana, dalle più locali alle più generali, è intessuta di una storia di semplificazioni, di riduzioni, di modelli parziali che si combinano, si sovrappongono, si sostituiscono, talvolta si combattono o si occultano. Si tratta di comprendere il carattere multiprospettico di ogni conoscenza: abbiamo bisogno di accostarci ad ogni oggetto di conoscenza attraverso molteplici punti di vista, che non si possono identificare completamente.

Il pensiero complesso, dunque, attribuisce un posto privilegiato all’idea e alla pratica di contestualità. Contestualità equivale a comprendere come ogni modello, ogni teoria, ogni conoscenza siano in primo luogo costruite e riferite rispetto a un “qui ed ora” locale (Dio è nei particolari, per dirla poeticamente). Perciò è sempre necessario soffermarci a valutare, caso per caso e momento per momento, i possibili limiti delle nostre costruzioni in contesti altri, spazialmente, temporalmente o concettualmente, e a interrogarci sul significato delle soglie – spaziali, temporali, concettuali… - incontrate nelle nostre estensioni cognitive, soglie che richiedono per lo meno riformulazioni e relativizzazioni, e talvolta il superamento o la messa a tacere di ciò che localmente era per noi risultato valido e fecondo. Questo non significa negare l’utilità di molte procedure di estrapolazione e di generalizzazione da una parte a un insieme o a un sovrainsieme di parti: significa però sviluppare e mantenere una costante attitudine critica nei confronti delle reti concettuali che ci consentono di interagire con un mondo ben più ricco e vario di ogni nostra pre-visione, un’attitudine critica in grado di rendere ancora più efficaci le nostre reti concettuali, perché sintonizzabili e sintonizzate su obiettivi che possono di volta in volta mutare, con sguardi che si possono spostare.

In particolare, se le scienze umane e sociali possono approfittare utilmente di taluni approcci molto comprensivi ispirati dallo studio di sistemi complessi “generici”, non dobbiamo dimenticare che fino a tempi assai recenti lo studio dell’umano è stato vittima di una sudditanza psicologica nei confronti di quell’attitudine squilibrata caratteristica della cosiddetta scienza classica, cioè la visione prevalente dalla tradizione scientifica moderna, che riduceva la conoscenza alla spiegazione scientifica e quest’ultima alla compressione della varietà dei fenomeni sotto leggi generali, astratte, tendenzialmente prive di eccezioni e di articolazioni.

Questa complementarità fra attitudine singolarizzante e attitudine generalizzante, che è teorica e pratica nello stesso tempo, viene efficacemente espressa e comunicata con il ricorso alla metafora della ‘via di mezzo’, che affiora più volte negli sviluppi delle scienze dei sistemi complessi. Essa è già presente nell’appellativo di cibernetica, appunto una fra le radici storiche più importanti dello studio dei sistemi complessi. Kybernetes, infatti, è il timoniere greco il quale, al governo della nave, traccia la sua rotta non solo attraverso ma anche grazie alla continua tensione fra due forze opposte. La rotta, dunque, deve essere definita e aggiustata passo dopo passo, momento dopo momento, per evitare il prevalere unilaterale di una delle due forze che, prese singolarmente, hanno entrambe il potere di condurre alla deriva e persino alla rovina (Scilla e Cariddi nella navigazione dello stretto di Messina).

Ciò che emerge è una visione intrinsecamente dinamica, che nega la possibilità del ricorso a soluzioni statiche, routinarie, meccaniche, acontestuali; che invita il “timoniere” a fare tutt’uno con la situazione, a fare appello a una responsabilità non solamente mentale ma anche corporea; ad affinare le sue modalità di percezione e le sue strategie di decisione. Per di più, invita anche a una certa tolleranza, perché non si tratta di evitare gli inevitabili errori, bensì di saperli correggere in modo tale che le loro conseguenze non siano troppo dannose. Nei processi di conoscenza e nelle azioni umane, appunto, le due rive sono i due rischi, opposti ma ugualmente semplificanti e unilaterali, dell’eccessiva generalizzazione e dell’eccessiva singolarizzazione. E’ una grande fortuna che i molteplici sistemi del mondo presentino spesso affinità significative, ma la ricerca e la scoperta di queste affinità non ci devono far concludere che queste affinità si riducano a identità in senso stretto. Al proposito, è illuminante un'altra metafora significativa negli sviluppi del pensiero complesso. I sistemi complessi si situano al margine del caos, alla frontiera tra ordine e disordine: le invarianti che definiscono questo ordine restano in primo piano, ma non sono in grado di occultare caos, caso, contingenza, senza i quali non ci sarebbero nemmeno cambiamento e innovazione.

Questa complementarità di ordine cognitivo, d’altra parte, informa di sé una complementarità nell’attenzione, nella presenza, nell’investimento che intessono le azioni umane: bisogna fidarsi dei propri approcci, ma non bisogna fidarsi troppo di questi approcci, e si deve diventare capaci di scorgere il momento in cui essi, invece che chiarire, iniziano ad offuscare il nostro sguardo sul mondo. E’ proprio questa visione binoculare a costituire un’inestimabile linea guida per affrontare le situazioni critiche che si susseguono nella vita quotidiana delle organizzazioni e delle istituzioni e anche nei singoli percorsi di vita degli individui, alle prese con il compito di far decollare e sostenere i loro rispettivi progetti di vita. Contare su quelle risorse preziose che sono le proprie esperienze antecedenti è ragionevole, fecondo, indispensabile. Ma ciò che è dannoso è pensare che queste risorse siano sufficienti per affrontare l’ignoto e l’imprevedibile che il mondo ogni giorno riserva. Ogni nuovo caso presenta una singolarità che non è meccanicamente deducibile da ciò che è pregresso.

Fra i molteplici casi, fra i molteplici eventi del mondo esistono aree di sovrapposizione più o meno ampie; mai però una sovrapposizione completa. Ed è quindi utile, legittimo, razionale, ispirarsi a ciò che è noto e pregresso per affrontare ciò che è ignoto, “caduto” dinanzi a noi in quella situazione sempre nuova che è quella del momento presente; ma lo si può fare solo mettendo mano ad operazioni di traduzione fra casi che mantengono comunque le loro differenze. Tali traduzioni, come tutte le operazioni di questo genere, non sono mai perfette e pienamente adeguate, ma semplicemente sub-ottimali (e a questo termine, sia ribadito, diamo una valenza molto positiva). Al proposito, vale quello che Umberto Eco diceva delle traduzioni in generale: “dire quasi la stessa cosa”, dove l’accento è anche e soprattutto sul quasi.

Veramente, “non ci si bagna mai due volte nelle stesse acque”. Però, fortunatamente, siamo in grado di sottoporre situazioni ed eventi anche molto lontani nello spazio e nel tempo al gioco interminabile delle somiglianze e delle differenze, estraendone ciò che hanno in comune – che definiamo invarianti, regolarità, strutture di fondo - e focalizzandoci cotemporaneamente sulle loro singolarità.

Quest’ottica binoculare ci aiuta a scorgere un grave squilibrio di fondo del pensiero dominante nella tradizione scientifica e filosofica moderna, che è una tradizione fondamentalmente occidentale. Non si tratta della semplificazione in quanto tale, e nemmeno della ricerca di leggi o di invarianti che possano ridurre la complessità fenomenica del mondo. Si tratta di aver semplificato senza la consapevolezza di semplificare, e di ricercare fondamenti saldi e indiscutibili alle proprie procedure di semplificazione, che invece a uno sguardo esterno oggi si rivelano quanto mai provvisorie, transitorie, “opportunistiche”. Il pensiero della complessità si è sviluppato proprio per far fronte a questo squilibrio, e per definire un equilibrio più vivibile, in un’età in cui l’unilateralità dei nostri approcci, a dire il vero ancora assai diffusi, si sta rivelando dannosa persino per le stesse modalità dell’abitazione umana del pianeta.

La storia delle idee risulta senz’altro decisiva per meglio inquadrare l’apparente opposizione fra semplice e complesso, che è meglio esprimere come apparente opposizione fra semplificazione e contestualizzazione, e per rivelare l’ecologia delle idee più profonda e articolata ad essa sottostante. Da un lato, nei processi conoscitivi e nelle azioni umane non si può fare a meno di questa fondamentale ottiva binoculare: da un lato si guarda al mondo nella particolarità e nell’unicità dei singoli eventi e dei singoli oggetti; dall’altro si estrapola, si astrae e si producono classi di eventi e di oggetti di maggiore o minore generalità. Ma il fatto è che nella tradizione moderna dominante, quella che abbiamo definito come scienza classica, questa visione binoculare è stata occultata, compressa, talvolta francamente negata, con il risultato di generare un’immagine “tendenziosa” della realtà, prodotta dalle generalizzazioni di volta in volta considerate primarie e fondanti, e in quanto tale chiusa rispetto alle anomalie, alle sorprese, allo stupore. Nel suo sforzo di riequilibrio, la visione binoculare sottesa al pensiero complesso è, appunto, duale, ma nello stesso tempo asimmetrica: le due strategie della conoscenza possono andare in parallelo, e spesso è opportuno che siano anche fortemente autonome (due sguardi sono meglio di uno, per una visione più articolata) e tuttavia la semplificazione non può essere lasciata a se stessa, senza essere accompagnata dalla consapevolezza dei limiti spazio-temporali di ogni astrazione, di ogni generalizzazione. In questo senso il pensiero complesso risulta una sorta di meta-punto di vista, volto a monitorare la validità e i limiti di singoli modelli, teorie, percorsi disciplinari e, quando necessario, a innescare processi creativi per elaborare modelli, teorie, percorsi disciplinari più adeguati a nuove situazioni particolari.

Oggi questa funzione di riequilibrio esercitata dal pensiero complesso, questa funzione critica (intendiamo, costruttivamente critica) nei confronti di approcci esplicitamente unilaterali appare imprevedibilmente sostenuta ed anzi approfondita dalle immagini del soggetto umano in corso di elaborazione da parte delle neuroscienze: un’immagine del soggetto umano che risulta molteplice e diversificata, quale sistema di sistemi composto da sistemi nello stesso tempo interdipendenti e autonomi, complementari e conflittuali, che rendono ogni soggetto umano un nodo di interazione polisistemico, in cui si intersecano dinamiche neurologiche, biologiche, psicologiche, sociali, antropologiche…

Una ricerca assai innovativa, che apre nuove piste di interrogazione, è l’opera dello psichiatra e saggista britannico Iain McGilchrist che, incidentalmente, è una figura di confine emblematica, dato che è ugualmente interessato agli aspetti scientifici e a quelli filosofici e “umanistici” delle conoscenze contemporanee. In quanto studioso di neuroscienze, McGilchrist si occupa in particolar modo delle molteplici asimmetrie cerebrali e delle interazioni (ma anche delle inibizioni) che hanno luogo fra i grandi sottosistemi cerebrali. Attraverso il suo sguardo, il cervello umano si rivela un sistema di sistemi di complessità estrema, il cui comportamento complessivo emerge dalle relazioni (e dalle assenze di relazioni) fra sistemi di storia e finalità differenti. Fra queste asimmetrie, McGilchrist ne mette in risalto e ne indaga una in particolare, quella fra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro, individuandone la profonda diversità scoperta grazie a molte evidenze sperimentali. Per di più, si interroga sul significato delle loro relazioni, complementari e conflittuali ad un tempo, per il comportamento, la psiche e le culture umane in genere.

La questione della diversità irriducibili dei due emisferi cerebrali, e delle origini, funzioni e diversità di questi due emisferi non è nuova. Le ricerche di McGilchrist, tuttavia, fanno emergere in primo luogo nel sottolineare la radicalità e il significato evolutivo di questa dualità, che talune evidenze sperimentali spingono a farle considerare persino come una sorta due coscienze distinte. Sembra che la storia evolutiva del cervello dei vertebrati (giacché evidenze di questa dualità ci sono già nei mammiferi, e anche negli uccelli) abbia dotato gli organismi di due strategie molto diverse per affrontare il mondo, e che questa dualità produca i risultati ottimali quando le due strategie si compenetrano, ma non troppo. Infatti la funzione del corpo calloso che, in condizioni non patologiche, connette i due emisferi produce un equilibrio molto sottile fra comunicazione e inibizione fra i due emisferi, che li rende ad un tempo autonomi e interdipendenti.

Per quanto riguarda la distinzione/divergenza delle rispettive funzioni, la descrizione più generale che se ne può dare è che un emisfero (in condizioni non patologiche, quello sinistro) mira alla manipolazione, all’intervento immediato e l’altro emisfero (quello destro) alla comprensione della situazione; un emisfero è reattivo, localizzato, tende a separare, isolare, astrarre; l’altro emisfero tende a connettere, a sedimentare, a inserire la situazione immediata in una visione globale. Di per se stessa, questa distinzione/divergenza di funzioni implica un’asimmetria: la reattività e la localizzazione dell’emisfero sinistro lo rende inconsapevole dell’esistenza stessa di altre strategie possibili di comportamento, mentre l’emisfero destro è consapevole dell’esistenza di questa dualità fondamentale e nella sua stessa strategia è situata anche una funzione di controllo sulla strategia parallela dell’altro emisfero.

Tuttavia le implicazioni di questa distinzione/divergenza funzionale ed evolutiva di fondo sono molteplici e molto articolate. E’ opportuno allora riferirci alla descrizione di questa distinzione che fa lo stesso McGilchrist in un passaggio chiave della sua ultima opera, The Matter with Things. Sintetizzando, la distinzione fondamentale può essere descritta attraverso parecchie dualità, tutte quante superficialmente oppositive, e nel profondo complementari:

  1. L’emisfero sinistro mira alla manipolazione, quello destro alla comprensione.
  2. L’emisfero sinistro si focalizza sul particolare, quello destro si occupa della visione globale.
  3. L’emisfero sinistro si occupa di ciò che è noto, quello destro dell’anomalia, di ciò che è nuovo e sorpendente.
  4. L’emisfero sinistro mira alla certezza, quello destro ha il senso della possibilità.
  5. L’emisfero sinistro è meno auto-critico di quello destro.
  6. L’emisfero sinistro frammenta, quello destro connette
  7. L’emisfero sinistro ha una visione statica, quello destro dinamica
  8. L’emisfero sinistro de-contestualizza, quello destro contestualizza
  9. L’emisfero sinistro preferisce ciò che è inanimato, quello destro ciò che è animato.
  10. La narrazione è una competenza particolare dell’emisfero destro.

Potremmo ancora continuare, dato che la tipologia di McGilchrist è molto ricca e particolareggiata. Ma un’altra contrapposizione particolarmente rilevante è che dinanzi ad eventi o ad oggetti simili, l’emisfero sinistro li omologa, astraendo e trascurando le loro differenze; l’emisfero destro li mira invece a comprendere nelle loro particolarità. E’ evidente che per il nostro essere nel mondo è indispensabile una buona sovrapposione e integrazione fra questi due atteggiamenti cognitivi.

Lo psichiatra britannico è molto attento nel sottolineare la funzione per nulla riduzionistica delle ricerche delle neuroscienze, e delle sue ricerche in particolare. Si tratta invece dell’indagine di vincoli rilevanti inerenti alle dimensioni neurobiologiche dei soggetti umani che, appunto in quanto vincoli, sono poi aperti a interagire con i differenti contesti sociali e culturali, e anche con le differenti esperienze individuali e collettive dei soggetti delle conoscenze. Ma sono vincoli che devono essere tenuti presenti, se vogliamo costruire un’affidabile storia delle mentalità delle età recenti (e anche meno recenti), che è uno strumento irrinunciabile per orientarci adeguatamente entro le crisi contemporanee. In questo senso, dunque, abbiamo a che fare con una significativa convergenza fra le dimensioni della storia delle idee e le esigenze dello sviluppo delle conoscenze contemporanee, da un lato, e dall’altro la stessa natura corporea e biologica dei soggetti, individuali e collettivi, che elaborano queste conoscenze e che riflettono sul loro sviluppo. Di fatto, questa convergenza ci dice che, in termini molto generali, il pensiero complesso è maggiormente in sintonia con il nostro essere biologico e corporeo intrinsecamente duale di quanto non lo siano le attitudini fondamentalmente unilaterali che hanno dominato negli ultimi secoli e che ancor oggi costituiscono le epistemologie sottostanti a tante istituzioni, a tante pratiche, a tante visioni teoriche umane.

Ma se i secoli della modernità hanno prodotto atteggiamenti cognitivi squilibrati rispetto alle modalità di funzionamento più feconde e costruttive del soggetto umano, un fatto altrettanto rilevante è che la prevalenza di atteggiamenti cognitivi di questo tipo ha retroagito negativamente sul cervello umano stesso, dando all’emisfero sinistro e alle sue strategie una rilevanza e una priorità che risulta anomala rispetto all’asimmetria originaria fra i due emisferi, intesa come condizione di default del funzionamento del cervello. Questa è un’altra tesi centrale dell’opera di McGilchrist, il quale la illustra attraverso la metafora del sovrano e del suo emissario. E’ perfettamente legittimo, anzi indispensabile per il buon governo, che un sovrano non si occupi tutti i dettagli dell’amministrazione del suo stato e che quindi deleghi tanti compiti pratici a un emissario, per di più tenendosi abbastanza al disparte rispetto alle attività pratiche che così hanno luogo sul territorio. Ma quando l’emissario ingigantisce il suio potere, usurpa le prerogative del sovrano, o addirittura dimentica di essere stato da lui delegato a funzioni particolari, che sono soltanto una parte dell’amministrazione complessiva dello stato, ecco che incombe un conflitto distruttivo, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Questa metafora ci aiuta a comprendere uno dei drammi centrali della modernità, in parte all’origine di tanti mali del mondo contemporaneo.

Fra i tanti sviluppi conoscitivi interessanti degli ultimi decenni, un contributo rilevante è dato dagli sviluppi della storia delle scienze, e ancora più in generale della storia delle idee e della cultura, che fra l’altro ci mostrano come le indagini sull’origine della modernità siano molto utili per comprendere il tempo presente. Soprattutto, ci mostrano come gli sviluppi scientifici e culturali della modernità devono essere compresi alla luce di un intensissimo turbamento cognitivo che forse oggi siamo riusciti a comprendere nella sua radicalità: il turbamento cognitivo che nel giro di un attimo, rispetto al volgere plurisecolare della storia, coinvolse gli umani attorno al 1500, quando si infransero i confini e le mappe mentali della Terra e del cosmo che avevano fino ad allora abitato, quando si pose l’urgenza di comprendere e di abitare una nuova Terra e un nuovo cosmo. Nel giro di pochi decenni, le avventure dei navigatori europei avevano prodotto una vera e propria “scoperta della Terra”, consentendo per la prima volta alle varie civiltà di farsi un’idea relativamente precisa della forma, delle strutture e dei lineamenti geografici del pianeta. E, nello stesso tempo, il cosmo coerente e stabile ereditato dall’età classica, che aveva mostrato solo piccole crepe e oscillazioni nel volgere dei secoli, si era irreversibilmente incrinato: agli umani si dischiusero gli orizzonti di uno spazio acentrato, incredibilmente esteso, dalle dimensioni indominabili, dai confini inattingibili, forse persino infinito. Furono in molti ad esserne sconcertati, e persino invasi dal panico: dinanzi a una svolta così perturbante, la nostalgia per l’antico ordine divenne un sentimento diffuso. E tuttavia una ristretta élite riuscì nell’impresa di elaborare gli strumenti teorici e pratici per orientarsi in questo nuovo cosmo; anzi, riuscì ad elaborare un nuovo senso comune che, a poco a poco, fu di grande conforto al senso di spaesamento.

Ma in quell’Europa in cui furono elaborati questi nuovi strumenti teorici e pratici la vita quotidiana era drammatica, segnata da tragiche esperienze quali l’onnipresenza delle guerre, il brigantaggio generalizzato, l’imperversare delle epidemie, il transitorio raffreddamento globale con conseguenti carestie e altre forme di morbi. Lo sgretolamento astronomico dell’antico cosmo si intrecciava perversamente con le pesanti incertezze della vita quotidiana, e rendeva impellente la domanda di senso: come sarebbe stato possibile insediarsi in questo nuovo mondo? Non è un caso, allora, che in una condizione così pressante e per certi versi sconfortante, la strategia reattiva abbia avuto il primato, attivando le modalità neurologiche più semplificatrici. Ma quanto sul breve termine era forse inevitabile, e sicuramente fonte di grandi successi locali, è diventato fonte di squilibri intrinseci che solo col tempo hanno mostrato il loro lato più oscuro e distruttivo. Ed è a questi squilibri che oggi dobbiamo porre rimedio col pensiero e con l’azione.

Osservato con questo sguardo, focalizzato sulla storia delle idee e sui vincoli antropologici allo sviluppo delle conoscenze, il mondo attuale si trova in una fase particolarmente critica, ma anche interessante, perché costituisce un groviglio di tendenze e di controtendenze a prima vista opposte e contraddittorie. Mentre da un lato le conoscenze scientifiche e le riflessioni al proposito, che possiamo definire “filosofiche” in senso lato, sono più che sufficienti per farci intraprendere nuove strade più adatte alle sfide dell’oggi – strade che non erano state nemmeno percepite dalla tradizione dominante della modernità – assistiamo nel contempo all’indurimento dei presupposti originari di questa tradizione, che in qualche modo si sono incarnati nelle pratiche organizzative ed istituzionali e che spesso impediscono di scorgere soluzioni creative ai problemi incombenti. Non a caso è stato evocato il termine di “violenza epistemologica”, a proposito di una questione oggi molto attuale, quella della natura e della funzione dell’intelligenza artificiale: in particolare, questa espressione è stata utilizzata per indicare che oggi l’implementazione della cosiddetta intelligenza artificiale è perseguita soltanto attraverso una delle tante strade possibilii, che è pesantemente condizionata dalle esigenze di profitto a breve termine delle corporation e che mette in secondo piano l’utilità di tale strumento per il benessere umano nel suo complesso.

Sempre alla luce del nostro sguardo, tanti problemi teorici e pratici dei nostri giorni dipendono dal fatto che pensiamo male: ovvero, come emerge dalle ricerche di McGilchrist, che non utilizziamo appieno le risorse del nostro cervello e che contemporaneamente, il che è forse peggio, le utilizziamo male. La questione, naturalmente, non è solo e non tanto quella dell’atteggiamento dei sistemi neurologici dei singoli individui dinanzi ai problemi posti loro dalla vita quotidiana. Il fatto cruciale è che questi atteggiamenti squilibrati si sono incarnati in pratiche linguistiche e discorsive, e che queste a loro volta sono alla base di tante modalità organizzative e istituzionali, quale sorta di “accidenti congelati” che sono prevalsi in passato (leggi: in alcune fasi formatrici della tradizione dominante in età moderna), che potevano avere allora una funzione pratica significativa e di cui oggi non riusciamo a liberarci.

In questo senso, senza pretese eccessive, gli sviluppi e la pratica di un pensiero complesso può sicuramente esercitare una funzione terapeutica e risanatrice di quelle che possiamo sicuramente definire patologie collettive assai diffuse del mondo attuale. Tanto per aprire semplicemente una pista di ricerca, oggi appare sempre più evidente come la “violenza epistemolgica” di taluni presupposti cognitivi della modernità si sia prolungata e incarnata in violenza istituzionale, ancor oggi consostanziale alle visioni e alle pratiche di tante istituzioni umane. In particolare, la convinzione dell’onnipotenza delle operazioni cognitive di estrapolazione e purificazione, la ricerca e l’isolamento dell’oggetto puro decontestualizzato, i procedimenti incontrollati di astrazione e di generalizzazione, sono divenuti la matrice culturale di sfondo, ma incredibilmente influente, della traduzione della volontà di semplificazione in volontà di purezza. E’ questa la volontà che ha contribuito e contribuisce a innescare pulsioni identitarie, logiche classificatorie di natura gerarchica, integralismi, razzismi, xenofobie, etno-nazionalismi e a tenere in vita uno degli “idoli” più durevoli e tenaci nell’improntare le nostre menti e le nostre culture. È l’idolo che induce a classificare le persone e ad agire come se ciascun componente del gruppo (sessuale, razziale, religioso, e così via) possedesse qualche proprietà intrinseca, una specie di essenza, tale da occultare tutte le caratteristiche singolari e persino a dissolvere l’individuo nell’unicità della sua esistenza concreta.

E’ importante comprendere come la violenza epistemologica, così definita, possegga anche, e oseremmo dire soprattutto, una componente di violenza endogena, che il soggetto rivolge verso se stesso e che di fatto risulta indissociabile dalla violenza verso l’esterno. Le tragedie dell’ultimo secolo hanno sviluppato un notevole interesse sulla condizione delle personalità totalitarie, e oggi diremmo anche delle personalità integraliste, quali personalità segnate da una sorta di “colpo di stato” che un soggetto impone a se stesso. Il soggetto non riesce a comprendere di essere lui stesso un “sistema di sistemi”, composto da molteplici identità, culture, storie, dimensioni psichiche, neurologiche, biologiche, sociali e sfugge alla fatica quotidiana di trovare connessioni e integrazioni, transitorie ma vivibili, fra queste diversità interiori privilegiando unilateralmente un’identità, una cultura statica, rigida, invadente. E il più delle volte, ingabbiato in questa prigione autoimposta, un tale soggetto diventa incline ad appoggiare parallele soluzioni totalitarie e integraliste anche sul piano politico, culturale, sociale, religioso. Più questo circolo vizioso si intensifica e più c’è la tendenza, amplificatasi innumerevoli volte nella storia recente e meno recente, che questa violenza epistemologica operante sul piano simbolico e identitario si traduca in pratiche di violenza effettiva, contro un altro percepito come perturbante, qualunque esso sia.

Per spezzare circoli viziosi di questo genere, il pensiero della complessità non può che mettere in atto una strategia decentrata, diffusa, dispersa, intaccando i punti deboli di questi circoli ove e quando essi risaltino. Risultano così decisive le azioni sul campo esercitate da quelli che abbiamo definito i gestori dei sistemi umani complessi, siano esse gli interventi per inserire nelle singole istituzioni umane maggiori elementi di flessibilità e di ridondanza, come pure le pratiche educative e terapeutiche volte a innescare negli individui quel processo che è invalso definire empowerment – in sostanza, la comprensione di essere ricchi, attivi, creativi, in grado di sostenere un personale progetto di vita originale. Ma naturalmente queste azioni decentrate, diffuse, disperse, risultano tanto più efficaci quanto sappiano fare riferimento a quelle visioni teoriche, sviluppatesi e irrobustitesi negli ultimi decenni, le quali, fra l’altro, ci aiutano ad esorcizzare le ossessioni del controllo, della previsione e della standardizzazione a tutti i costi e, nello stesso tempo, ci fanno comprendere come l’agire e l’identità stessa di un individuo prendano corpo attraverso danze relazionali che vanno molto al di là dei confini della sua pelle, nello spazio come nel tempo.

Solo riconoscendo le valenze generative di questo diffuso dialogare fra le dimensioni cognitive e pratiche degli umani, esso potrà irrobustirsi, articolarsi, raffinarsi, facendo dei nostri stessi conflitti e delle nostre stesse incomprensioni il motore di riconoscimenti reciproci, di alleanze evolutive, di un nuovo senso di condivisione e di fraternità. Ed è proprio la ricchezza di questo dialogare che è in grado di innescare circoli virtuosi innovativi ed originali, costituendo salde precondizioni per generare visioni e comportamenti umani flessibili, vitali, evolutivi.