Volume 28 - 15 Maggio 2024

pdf articolo

Appunti sui pazienti autori di reato: il dibattito sull’imputabilità, i Dipartimenti di salute mentale e le direzioni possibili della esecuzione penale

Autore

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Ricevuto il 22/01/2024 – Accettato il 29/01/2024



Riassunto

Il superamento degli OPG e tutto quanto disceso dalla legge 81/2014 hanno acceso il dibattito tra gli addetti ai lavori della salute mentale. La portata innovativa e meritoria della legge 81 ha però scontato la fretta con la quale è stata disegnata, così che vari aspetti dei percorsi della esecuzione penale dei soggetti infermi o seminfermi presentano evidenti debolezze strutturali e aspetti a oggi controversi. Di fondo, il mondo dei clinici accusa un senso di delega che ribalterebbe sui Dipartimenti di Salute Mentale doveri e istanze securitarie che dovrebbero essere condivise maggiormente nella società e rimanere in capo alla Magistratura. Una parte degli addetti ai lavori della salute mentale, poi, ritiene necessario superare il concetto di infermità e vizio di mente, così da rendere il paziente sempre responsabile delle sue azioni, disinnescando in nuce, a loro parere, le complessità degli attuali percorsi della esecuzione penale. Nel presente articolo si parte da una valutazione motivata di infondatezza delle attuali istanze abolizioniste, imputate, almeno in parte, di avere anche una velata motivazione di respingimento della complessità e delle difficoltà organizzative seguite al doveroso superamento degli OPG, per poi proporre, con la situazione data, alcune proposte (ri)organizzative che potrebbero permettere ai Dipartimenti di Salute Mentale di diminuire la vis polemica sul tema e gestire al meglio quella numerosità di pazienti che avendo commesso dei reati incorrono nell’intervento penale, ancorché prosciolti o con pena diminuita, in appropriati percorsi della esecuzione definiti da adeguate misure di sicurezza.


Abstract

The overcoming of Forensic Psychiatric Hospitals (OPG) and all that has followed from Law 81/2014 has ignited a debate among mental health professionals. The innovative and commendable scope of Law 81, however, overlooked the haste with which it was designed, resulting in evident structural weaknesses and currently controversial aspects in the pathways of criminal execution for defendants with substantially diminuished or escluded criminal responsability by reason of insanity. Fundamentally, the clinical community accuses a sense of delegation that would shift duties and security demands onto Mental Health Departments, which should be more widely shared by society and remain under the jurisdiction of the Judiciary. Furthermore, a portion of mental health professionals believes it is necessary to overcome the concept of escluded criminal responsability by reason of insanity, thereby holding the patient always accountable for their actions, preemptively defusing the complexities of current criminal execution pathways, in their view. This article begins with a reasoned evaluation of the unfounded nature of current abolitionist claims, accusing them, at least in part, of having a hidden motivation to reject the complexity and organizational difficulties resulting from the necessary overcoming of OPG. Subsequently, given the current situation, some (re)organizational proposals are put forward that could allow Mental Health Departments to reduce the polemical stance on the issue and effectively manage the significant number of patients who, having committed crimes, undergo legal intervention, even if acquitted or with reduced sentences, in appropriate execution pathways defined by adequate security measures.


Nel dibattito attuale intorno alla psicopatologia, le sue interrelazioni con la capacità di autodeterminarsi delle persone, la riforma delle misure di sicurezza detentive nei confronti di pazienti psichiatrici autori di reato (con gli interventi della Suprema corte), il concetto stesso di imputabilità e la realtà nella quale versano i Dipartimenti di salute mentale (DSM) pubblici, realtà oggettiva e vissuti soggettivi, dibattito intriso anche di polemiche di matrice ideologica e venature di pessimismo, vale la pena di partire da almeno un paio di messaggi positivi.

In primo luogo, è la realtà dei numeri che ci dice che le misure di sicurezza non detentive (libertà vigilata, per lo più) nel giro di una ventina d’anni scarsa sono cresciute dal 10% al 90% quasi di tutte le misure adottate nei confronti di pazienti autori di reato (nota 1). Questo dimostra che il sistema, comunque, si sta spostando da una centratura oppressiva e punitiva a un’altra più rispettosa delle libertà individuali e della mitigazione dell’intervento sanzionatorio in una prospettiva personalistica.

In secondo luogo, sempre strologando con i numeri, dalla esperienza, ovviamente limitata, certo, del nostro DSM, e solo come mero esempio, emerge che, a oggi, della settantina circa di pazienti autori di reato sottoposti a misure di sicurezza (qualsivoglia) per diminuita o assente capacità di intendere e volere al momento del compimento del fatto di reato, quasi lo 85% è seguito nell’ambito del circuito sanitario (REMS, libertà vigilata sia in strutture residenziali che al domicilio o altri luoghi); nonostante quasi nella medesima percentuale i pazienti si siano resi responsabili di reati gravi (omicidio, tentato omicidio, lesioni personali, episodi di violenza in famiglia, rapine).

Ciò detto, e riteniamo che non sia poco, spirano comunque forti venti di scontento se non di ribellione tra gli operatori della salute mentale, e questo su due principali direttrici (o almeno si è deciso qui di partire da questo doppio fronte critico): il senso di delega che la psichiatria lamenta di avere ricevuto con la legge 81/2014 dall’Autorità giudiziaria in relazione al controllo sociale nel campo dei comportamenti devianti della popolazione, e la crisi delle misure di sicurezza detentive, sia sul versante giuridico con i rilievi e la censura operata dalla Corte costituzionale nel 2022 (nota 2) sia sul semplice ma reale versante operativo, con la difficoltà di accesso alla misura stessa (in presenza del dispositivo che ne chiede la esecuzione) per cronica mancanza di posti.

Detto che la piena delega a reprimere e controllare di cui molti operatori sanitari si lamentano da una parte riposa nella fisiologica compenetrazione nel tessuto sociale della nostra disciplina che dispiega così il suo forte potere condizionante (giusto o sbagliato che sia), e di questo forte potere abbinato a un sapere assolutamente più debole dobbiamo essere più consapevoli, certamente resta nostro mandato costitutivo quello della cura. Finalizzata, però, altra necessità di maggiore consapevolezza, anche alla protezione dei beni giuridici rilevanti dei nostri assistiti, richiedendo, quindi, una visione più generale, che tenga presenti tutte le variabili in gioco, dalla psicopatologia alle sue conseguenze, dal singolo individuo alle relazioni che intesse, ai sintomi considerati in se stessi e ai comportamenti intesi come azioni che possono coinvolgere terze persone.

Svolte queste premesse, atte a definire il campo di gioco, più o meno, è nostro intendimento svolgere il discorso attraverso riflessioni che si organizzano su due pilastri che, poi, dovranno reggere il disegno teorico-pratico che a nostro parere rende un po’ giustizia di una valutazione della attuale situazione e dei possibili indirizzi futuri. Due quindi gli argomenti che saranno rapidamente affrontati: il tema della imputabilità e quello delle possibili strategie e posture che possono adottare e assumere i DSM per affrontare la complessità della tematica dei pazienti autori di reato e dei percorsi per loro clinicamente e giuridicamente corretti e realmente, poi, esigibili.


1 Note sulla imputabilità

Il dibattito pressoché generalizzato e molto acceso intorno all’imputabilità dei pazienti autori di reato si è appunto fatto più intenso a seguito della legge 81/2014, che a una lettura semplicistica ma condivisa da molti ha semplicemente delegato ai DSM la gestione di tali pazienti (controllo e cura, e l’ordine non è casuale), prima costretti negli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), senza soluzione di continuità. Che la legge 81 sia stata promulgata in tempi troppo stretti, causa anche l’ondata di sdegno che suscitarono le immagini diffuse dalla Commissione Marino (nota 3), è elemento di realtà. Ciò ha portato, come elemento genetico di malformazione neonatale, alla fragilità dell’impianto normativo, fondato solo, per la parte legata alle misure detentive, sull’art. 3-ter del D.L. 211 del 2011, come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza 22/2022. Non si può negare che l’improvvisa difficoltà di collocamento dei pazienti autori di reato e prosciolti, con i possibili percorsi di peggioramento dei profili giuridici dovuti ai mancati internamenti per assenza di posti e la costante chiamata alla azione dei DSM, abbiano portato a una posizione di (auspicato) rigetto del bambino con l’acqua sporca. Da qui, la forza con cui parte degli addetti ai lavori sostiene la necessità dell’abolizione della non imputabilità (in corrispondenza, va detto, di una parte decisamente minoritaria di giuristi).

La richiesta dell’abolizione del vizio di mente si appoggia fondamentalmente su due ordini di ragioni.

La prima, il rifiuto della delega del controllo dei comportamenti devianti che i DSM avrebbero ricevuto, obtorto collo, dal legislatore e dall’autorità giudiziaria, con un senso di Fortezza Bastiani ove la temuta invasione sia infine avvenuta.

La seconda, la convinzione che attribuendo la responsabilità del fatto compiuto al paziente, in qualsiasi condizione psicopatologica versi, gli si restituisca il valore di persona uguale alle altre persone, che recupera così la dignità a essere giudicato, come tutti, per un fatto di reato (la responsabilità è terapeutica è spot sloganistico assai ascoltato). Così, secondo questa visione, i fautori dello status quo renderebbero il paziente autore di reato prosciolto un individuo minorato di identità e diritti.

In realtà, numerose sono le complessità della tematica, che indicano, a nostro parere, la necessità di mantenere il costrutto della non imputabilità per possibile incapacità del paziente.

Le ragioni sono più di una.

La prima corrisponde al progressivo consolidamento della sensibilità dell’interprete, in ambito giuridico, a una lettura costituzionalmente orientata del principio di colpevolezza (nota 4). È infatti la Costituzione che obbliga al coefficiente soggettivo, cioè alla valutazione delle condizioni psicologiche necessarie per fondare l’imputazione personale (responsabilità penale personale) (nota 5), per muovere un rimprovero nei confronti di un individuo per non aver tenuto, pur potendo, un comportamento conforme alla legge. Il principio di colpevolezza si basa sulla possibilità di agire diversamente del reo, e solo così il principio di colpevolezza trova piena compatibilità con la funzione (anche) rieducativa della pena ex art 27 cost. (nota 6). Il fondamento del Codice penale sul principio di autodeterminazione e sul libero arbitrio taglia, a oggi, le radici di possibile fictio juris che inchiodi il paziente alla piena responsabilità per comportamenti che non poteva controllare. Occorre una visione più ampia rispetto all’aboliamo l’88 e l’89 e risolviamo la questione.

La seconda nasce dalla consapevolezza che imputando al paziente incapace la responsabilità dell’atto compiuto mineremmo le fondamenta della psichiatria stessa, che è nata nella discriminazione di ciò che è follia da ciò che non lo è, per poi definire le diverse malattie, i loro sintomi, gli effetti dei sintomi sulle capacità psichiche e cognitive della persona, i differenti inquadramenti diagnostici, le ipotesi evolutive, le relative cure. Come dobbiamo quindi comportarci col paziente maniacale che ci annuncia di avere appena acquistato 24 volumi di una enciclopedia, o con il giovane autistico, che per un banale controllo stradale viene avvicinato troppo e da lì parte una grave escalation comportamentale? Quale dignità viene perseguita, o all’opposto tolta, se il soggetto risponde penalmente di quanto commesso? Avevamo scherzato, quando avevamo “scoperto” i disturbi psichici e conosciuto i relativi sintomi con le annesse conseguenze? La psichiatria nasce definendo i disturbi mentali, quelle perturbazioni psichiche oggettivamente presenti che poi la nosografia ha progressivamente catalogato. È in grado, quindi, anche nel suo relativismo e nel modificarsi nel tempo dei linguaggi interpretativi, fino all’attuale visione bio-psico-sociale, di definire specifici quadri psicopatologici, che a loro volta contraddistinguono la relazione delle persone con il mondo (realtà). Appare pacifico che alcuni di questi (il concetto di infermità permette di inserirvi i diversi indicatori diagnostici) siano in grado di incidere profondamente sulle capacità valutative, di giudizio, di controllo e di autodeterminazione del singolo.

La terza ragione nasce dalla obiezione che gli abolizionisti opporrebbero a quanto appena detto. La condanna sarebbe emessa, ma la pena “rimodulata” in relazione ai bisogni psichici presenti. Da questa obiezione passiamo alla sua confutazione nel merito. Intanto, soggetti che ora sono comunque gestiti entro un circuito sanitario (con quanto ne discende in termini di attenzione, stili di relazione e di cura, garanzie), rientrerebbero in un circuito penale (nota 7), in questa “rimodulazione” gestito dall’Autorità giudiziaria, con minori garanzie rispetto a ora (nota 8). Poi, dove potrebbe avere luogo questa “rimodulazione” della pena che tenga conto sia della condanna penale e sia dei bisogni di cura della persona? Naturalmente, di base, in carcere (nota 9). A oggi, adeguate articolazioni per la salute mentale nelle carceri (per numero e qualità) che dovessero gestire e curare queste persone non sono presenti, e nella attuale congiuntura italiana, non lo saranno per gli anni a venire. In più, significherebbe scaricare sul carcere ulteriori popolazioni di persone, considerando la già difficile situazione italiana, dove politiche tendenzialmente carcerocentriche e di populismo penale determinano la presenza di popolazioni di soggetti deboli e svantaggiati, e in gran parte ristrette a seguito di reati minori, a porte girevoli (nota 10). Infine, un paio di domande: come il giudice potrebbe poi quantificare la pena nel senso della sua commisurazione (attraverso i criteri degli articoli 132 e 133 c.p.)? Privilegerebbe le istanze di sicurezza collettiva, facendo riferimento ad esempio alla gravità del reato oppure le garanzie individuali, prestando quindi particolare attenzione alle condizioni psichiche dell’autore? Si possono immaginare traiettorie assai diversificate e poco prevedibili, e consegnate, comunque, al giudice penale.

La quarta ragione per sostenere il mantenimento degli articoli 85, 88 e 89 c.p. consiste nel fatto che asserire che sarebbe “possibile raggiungere finalità di responsabilizzazione e di conferimento di dignità al malato autore di reato attraverso una artificiosa e rigida affermazione di piena capacità di intendere e volere” - vera e propria fictio juris, come detto - appare discutibile sotto un duplice ordine di considerazioni. Dal punto di vista trattamentale “risulta essere poco più che una congettura generalizzante, smentita da chi ritiene, piuttosto, che in alcuni casi possa essere di supporto all’intervento clinico far prendere coscienza, anche al soggetto reo malato, delle dinamiche patologiche dei suoi reati e dell’equità di una legge che tiene conto dei diversi gradi di libertà (diminuiti, va da sé) che sono sottesi al reato” (nota 11). Dal punto di vista penalistico, poi, si è rilevato che l’affermazione, evidenziando il convincimento che la pena, sia pure in qualche modo riadattata, possa fungere da strumento reattivo utile per qualsiasi persona, quale che sia il disturbo di cui sia affetto, rischia (volontariamente o involontariamente) di avallare il predominio di una tradizionale logica punitiva (nota 12). Una sottile ma infida contraddizione di garantismo apparente che si fa pratica punitiva. E poi, se la supposizione maliziosa che almeno in parte le tesi abolizioniste siano anche alimentate da un nascosto desiderio di vedere diminuita la pressione (oggettivamente o soggettivamente) esercitata dalla sopra richiamata delega securitaria e comunque dalla gestione dei pazienti autori di reato sui DSM fosse in parte fondata, si rammenti che, prendendo qui come esempio la “proposta Corleone”, in una dimensione garantista di un percorso che, comunque, si fa pienamente penale, da una parte si teorizza l’utilizzo del carcere (ovviamente in apposite articolazioni per la salute mentale) per i soggetti che necessitino di cure ma le cui condizioni psichiche obbligano a più alti livelli di controllo (e qui valgono le obiezioni appena sollevate), ma dall’altra sarebbero previste diverse fattispecie di misure alternative che ancora ai DSM consegnerebbero la gestione degli autori di reato (custodia cautelare in luogo di cura, sospensione dell’ordine di esecuzione ad hoc e misure alternative analoghe a quelle vigenti per i tossicodipendenti potrebbero non mutare di molto quella che da più parti è vissuta come la delega che la L.81 ha determinato in capo ai servizi della psichiatria) (nota 13).

Ciò detto, sempre nell’ambito del dibattito sulla imputabilità pare utile un accenno alla nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione “Raso” (nota 14), che viene spesso richiamata per attribuirle, affrettatamente, la responsabilità di “avere sdoganato i disturbi di personalità” così che anch’essi rilevino per le clausole di non imputabilità. Una postura da liberi tutti che nasce da una analisi frettolosa e forse prevenuta di un dispositivo complesso e articolato. Ripercorrendo rapidamente la vicenda, già l’anno prima la Cassazione (sentenza 433 del 2004) era intervenuta su remissione del Tribunale di Ancona che aveva sostenuto che la base scientifica medica cui la giurisprudenza si rifaceva per la eventuale applicazione degli artt. 85, 88, 89, 90 c.p. non fosse ormai più sostenibile e da considerarsi obsoleta, in quanto legata a una interpretazione puramente nosografica e monodimensionale delle patologie psichiche, e quindi in contrasto con l’art 3 cost, pronunciandosi sulla necessità di un allargamento della criteriologia di inquadramento delle patologie della psiche che rilevano per i suddetti articoli del codice penale (nota 15). Così, l’anno successivo le Sezioni Unite, investite dalla tematica, svolgono un approfondito esame dello stato attuale della classificazione delle malattie mentali e dei loro meccanismi interpretativi a cura della scienza psichiatrica. Un lavoro, potremmo definirlo, di aggiornamento e ammodernamento. Utilizzando quello che, volenti o nolenti, è il testo sacro del sapere psichiatrico attuale, il DSM (nel senso di Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-IV), arrivano alla conclusione che, intanto, i disturbi di personalità possono presentare caratteristiche tali da fondare dei veri disturbi psichici con gravi alterazioni delle capacità cognitive, comportamentali e di rapporto con la realtà, e poi che ormai la interpretazione dei disturbi mentali non può più essere nosografico/organicista e monodimensionale (individuando una “irrimediabile crisi del criterio della ritenuta necessaria sussumibilità dell’anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche”) (nota 16) ma multifattoriale, divenendo obbligatori un approccio e una lettura bio-psico-sociali. Così la giurisprudenza penale ha dovuto pendere atto dell’attuale pluralismo esplicativo del disturbo mentale (nota 17), punto di convergenza della più aggiornata scienza psichiatrica. Fino a qui, non si vede lo scandalo, nulla quaestio oseremmo dire e sperare. In più, se ormai “al legislatore moderno non interessa tanto la classificazione nosografica, ma la attitudine, nel caso concreto, del disturbo psichico, a incidere sulla capacità di intendere e volere del soggetto agente” (nota 18), proprio la “Raso” ha spostato, potremmo dire pragmaticamente, l’ago della bilancia dell’accertamento del vizio di mente sul secondo piano, quello psicologico-normativo, relativo alla verifica degli effetti concreti che il disturbo psichico ha avuto sulla capacità di intendere e di volere del soggetto nel momento della commissione del fatto (nota 19). È così che, alla fine, la Raso è arrivata, dopo un percorso analitico e deduttivo senza falle apparenti, a concludere che anche i disturbi di personalità possono rilevare, a patto di presentare evidenti elementi di gravità (semplifichiamo) e di essere causalmente legati al fatto di reato, sulla capacità di intendere e volere del soggetto agente.

In conclusione, circa il tema della imputabilità dei pazienti autori di reato si tratta di prendere atto di uno scenario che non trova, a nostro parere, né nella possibilità pratica in un quadro costituzionalmente orientato e di una giurisprudenza consolidata né nella ipotesi teorica e nell’ambito psicopatologico, le premesse perché la dottrina largamente maggioritaria si modifichi al punto da ridefinire radicalmente l’attuale quadro garantista verso possibili sbocchi realmente abolizionistici.

Se così fosse, la palla tornerebbe prepotentemente nel campo dei DSM (da cui, forse anche per recondite spinte controtransferali causate dalla complessità della tematica era stata “spedita in tribuna”).


2 I Dipartimenti di salute mentale e le strategie e le riflessioni possibili

Così, è necessario affrontare quello che all’inizio abbiamo definito il secondo pilastro del ragionamento, ossia analizzare le possibili strategie e posture che possono adottare i DSM per affrontare la complessità della tematica dei pazienti autori di reato e dei percorsi per loro clinicamente e giuridicamente corretti e realmente, poi, esigibili (nella situazione data).

Occorre, da subito, sgombrare il campo da ipotesi assai improbabili, che non devono entrare nel campo delle alternative realmente possibili e quindi evocabili. Per prima cosa, i DSM non saranno potenziati in modo significativo; la scarsità di personale, per altro a fronte di un aumento sia quantitativo che di complessità dell’utenza trattata, non sarà risolta per molto tempo. In Italia, infatti, è in realtà prevista una diminuzione progressiva della spesa pubblica destinata alla sanità nei prossimi anni (nota 20), e purtroppo l’invocazione (quasi una scontata clausola di apertura) di tale potenziamento da parte di tutti (dai decisori, ai pronunciamenti del Consiglio superiore della magistratura in tema di pazienti psichiatrici autori di reato, fino a parte degli addetti ai lavori) allo stato attuale deve essere quindi tolta dal tavolo della discussione. Si ragioni, ancora una volta, “isorisorse”. Il secondo punto consiste nello sbarrare la strada a ipotesi che nelle carceri italiane, come già detto, sia realisticamente possibile che nei tempi della discussione in atto siano disponibili spazi, unità, articolazioni che si possano occupare di pazienti psichiatrici autori di reato condannati sia come quantità e sia come aspetti qualitativi della cura e assistenza attese. Questo fatto, si ponga attenzione, è un ulteriore ostacolo a scenari semplificatori in materia abolizionista.

Fatte queste premesse, in modo più realistico, con i limiti del possibile più chiari, alcuni pensieri sono comunque (o meglio, devono comunque essere) possibili.

Si può ad esempio discutere sulla abolizione dell’art. 89 c.p. Riconosciuto che, comunque, si tratta di una fattispecie garantista, in quanto determina una diminuzione della pena, la sua abolizione obbligherebbe per altro a una scelta più radicale tra le opzioni del vizio di mente o della piena imputabilità, per lo meno sottraendo agli interpreti quel suo utilizzo “salomonico” del volere salvare sia la capra che i cavoli (esempio, risposta alla pressione sociale in caso di delitti particolarmente gravi insieme al mantenimento di una adeguata fedeltà al dato psicopatologico). Dovremmo quindi chiederci, perché i valutatori sopra richiamati sono comunque psichiatri, se si tratta di un’alternativa che realmente modifica e in che modo il percorso della esecuzione penale dei pazienti autori di reato, e se saremmo poi in grado di rispondere alla pressione sociale che si fa imponente nei casi come sopra anticipato, di delitti gravi. Si tratta, cioè, di pensare prima come tale abolizione modificherebbe le prassi di giudizio sulle capacità o meno dei pazienti accusati. Si anticipa, qui, uno dei punti di discussione principali, il ruolo dei periti.

Quest’ultimo rappresenta il secondo punto offerto alla discussione circa le modalità di rendere i percorsi penali più funzionali e sostenibili per i DSM a normativa immodificata. Prendiamo in via preliminare atto che oggi si vive una vera “crisi dei periti”, che affrontano realtà psicopatologiche, giudiziarie e sociali molto più complesse che in passato, e che sembrano, nella “carriera” peritale, sostanzialmente in crisi anche di “vocazione”, forsanche per il misero riconoscimento economico. Visto però che dalla perizia/consulenza si passa per indirizzare i percorsi esecutivi, il suo ruolo è cruciale. Questa dovrebbe, sorda a ogni qualsivoglia pressione sociale di tipo retributivo in relazione a specifiche dei delitti commessi così come a posizioni collusive e protettive che obliterino le reali capacità del reo, rispettare profondamente l’art. 2 del Codice civile, primo comma (nota 21), che definisce comunque presente e presunta la capacità dei cittadini maggiorenni, e definirne un vizio di mente solo quando la psicopatologia al momento del fatto di reato sia tale da evidentemente incidere, di fatto, sulle capacità di autodeterminazione e di resistenza agli impulsi che portano a comportamenti vietati dalla norma penale. Perché tutto ciò sia possibile e atteso, nel rispetto del libero convincimento dei singoli professionisti, deve essere garantita una adeguata, generale e aggiornata preparazione tecnica; così, pare fondamentale andare oltre ai 5 anni di esperienza nella materia richiesti, per la definizione di un albo che implichi una formazione permanente, omogenea sul territorio nazionale e obbligatoria per tutti i periti. In più, devono essere resi obbligatori, sia nell’ambito della formazione che dei quesiti proposti dal giudice, la precisa conoscenza e poi il diretto rapporto con i DSM. In questo modo, gli elementi del lavoro peritale potrebbero rispondere anche a criteri di verificabilità e fondatezza scientifica (nota 22). Si permetta, qui, il breve inciso per escludere la possibilità che sia il DSM, ancorché con una definita “équipe forense”, a fornire i servizi di perizia/consulenza: in questo caso, sì, si creerebbe un sistema in nuce contraddittorio e pericoloso, dove il medesimo attore, il DSM, riunifica la funzione della cura con quella del giudizio (in funzione del possibile percorso) penale, aggredendo il patto di cura che è l’anima fondativa dei servizi per la salute mentale, oppure, al contrario, gettando una luce ambigua sulla reale indipendenza di giudizio sul periziando e paziente.

Il terzo elemento che può essere messo in campo dai DSM e dalla organizzazione sanitaria riguarda le REMS. Intanto, nell’incessante flusso del dibattito doppio binario sì doppio binario no, ricordiamoci anche del vuoto legislativo evidenziato dalla già citata sentenza Corte costituzionale n. 22 del 2022. Pensiamo che la psichiatria debba tenere alta la guardia nel momento in cui il legislatore interverrà nel merito, definendo, come richiesto dal Giudice delle leggi, “forme di idoneo coinvolgimento del Ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti (nota 23 e 24) e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato” (il grassetto è nostro), e provvedendo a un ancoraggio di legge più forte della misura detentiva in REMS rispetto all’unicità dell’art 3-ter del D.L. 22 dicembre 2011 n. 211, come è ora (nota 25). Un destino da vaso di coccio potrebbe attenderla (nota 26). Detto questo, non si può eludere il problema della sicurezza di operatori e persone internate (le stesse REMS non hanno un regolamento uniforme e nazionale sulle procedure di sicurezza esterne e nulla hanno rispetto al loro interno). E’ stato per altro recentemente sostenuto che l’impianto attuale di legge, come detto intrinsecamente debole e lacunoso, ha determinato un sistema di REMS “del tutto carente rispetto ai parametri di sicurezza propri di una struttura con funzioni anche di tipo contenitivo e detentivo”; così come “accostare in una medesima struttura soggetti con esigenze di pericolosità sociale così profondamente differenti” …” crea le premesse per una polveriera di difficilissima gestione” (nota 27). Sembrerebbe quindi auspicabile che il circuito sanitario delle REMS si differenziasse tra strutture a bassa e alta sicurezza, rispettando, così, laicamente, l’esistenza della tematica della violenza legata (e qui si apre un dibattito non utile per il presente discorso, che parte semplicemente dalla presa d’atto della verificazione di eventi) alla professione della psichiatria. Si prenderebbe così atto del mandato costituzionale che richiama alla considerazione dei due contemporanei doveri di cura e di sicurezza dei singoli e della collettività (seppure, è utile ricordarlo, resti preminente il diritto alla cura e al rispetto della dignità del singolo) (nota 28). Tangenzialmente, seppure il tema sia rovente, una valutazione dovrebbe essere comunque posta, a fronte dei quadri psichici e comportamentali emergenti, a un possibile aumento del totale dei posti (nota 29).

Per inciso, la richiesta che è spesso avanzata dagli operatori della psichiatria di sostituire le misure di sicurezza con il concetto del bisogno di cura non pare avere la solidità per sopravvivere a un vaglio almeno un poco approfondito. Che le misure di sicurezza presentino delle faglie intrinseche di debolezza, è un fatto assodato. Si pensi solamente al certo fumus di incompatibilità con la Costituzione in relazione alla limitazione della libertà individuale rispetto a un fatto non ancora accaduto, o non ancora processualmente imputato all’agente, oppure all’alto tasso di aleatorietà ed empirismo insito nella prognosi criminale, o al discostamento dal criterio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (il quale vale per la pena e non per le misure di sicurezza) (nota 30), oppure, infine, alla carenza anche sotto il profilo della determinatezza astratta, intesa qui nel senso più stretto di rispondenza al principio di precisione, di determinatezza dei confini semantici degli elementi costitutivi di una norma penale idonea a definire la limitazione coattiva della libertà personale (nota 31). Ma il salto al bisogno di cura conferirebbe al tecnico (perito) la potestà di definire direttamente la misura, in contrasto con la Suprema corte, che tale potestà (e relativa responsabilità) del giudizio (o meno) di presente pericolosità sociale affida unicamente al giudice. Inoltre, si collegherebbe la sussistenza della misura limitativa della libertà personale a necessità terapeutiche, con il pericolo che la medesima misura si protragga al di là delle necessità di prevenzione che la giustificano, e conferendo alla cura (spesso necessaria senza limiti di tempo) anche la bizzarra ulteriore fattispecie di funzione di controllo. Altrimenti detto, sovrapporre il bisogno di cura alle necessità di una misura limitativa della libertà personale potrebbe determinare il prolungarsi delle limitazioni di quest’ultima oltre le ragioni di prevenzione che l’hanno motivata.

Il quarto elemento si richiama a un corretto e utile dialogo con l’autorità giudiziaria, che insieme alla componente sanitaria interviene nei percorsi della esecuzione penale. Se i tavoli nazionali o ministeriali possono essere utili per fornire la cornice e gli elementi di base per la strutturazione di percorsi chiari e condivisi nei principi e nelle finalità, i DSM dovrebbero organizzare tavoli di integrazione e collaborazione locali, a dimensione ASL, con i Tribunali, le Procure, le Prefetture: in queste dimensioni, tracciate e vissute su singoli territori, quanto viene condiviso può divenire poi concretamente esigibile. La responsabilità, quindi, di adeguati percorsi nel rispetto dei limiti di legge e delle risorse dei DSM, grava anche su questi ultimi in quanto possibili promotori e attori di tavoli locali.

Altro elemento chiave (il quinto) di cui i DSM possono farsi promotori nel quadro complesso della gestione dei pazienti autori di reato, attualmente, comprende la interazione e la collaborazione con i Magistrati della sorveglianza. La fase della esecuzione penale è quella che più si è resa “reattiva” (nota 32) e modellabile sulle esigenze di cura dei pazienti autori di reato, ma i medesimi magistrati lamentano alcune difficoltà nella loro corretta gestione. Tra queste, oltre alle già richiamate complessità dovute alla contemperazione delle pressioni esterne (repressive) nei casi di reati particolarmente gravi con le esigenze di garanzia individuale, questi magistrati talvolta lamentano anche la difficoltà di ricevere, dai DSM, aggiornamenti e relazioni sul quadro psicopatologico attuale dei pazienti che siano sufficientemente chiare per definire, appena possibile, scemata o decaduta la necessità della misura di sicurezza, sempre a garanzia dei pazienti. I DSM, quindi, magari favorevoli al superamento degli articoli 88 e 89 c.p., dovrebbero con i medesimi intenti favorire al massimo il momento della cessazione della misura non detentiva (la quale, ricordiamo, non ha un limite temporale, esponendo il paziente al rischio di tempistiche di tutela molto prolungate), riappropriandosi, quindi, della reclamata possibilità di restituire al più presto ai propri pazienti rei la responsabilità delle proprie azioni. Succede, invece, che i DSM relazionino sì, di un miglioramento psicopatologico, ma senza la chiarezza (responsabilità? opportunismo nei confronti di pazienti gravi, vissuti come pericolosi, autori di comportamenti ad altra criticità?) che permetta facilmente al Magistrato di sorveglianza di revocare la misura di sicurezza per cessazione della pericolosità sociale. Nelle condizioni date, quindi, sempre nell’ambito della vigenza del doppio binario, i DSM possono anche contribuire così a rendere al più presto al paziente quella dignità definita espropriata a favore di una possibile nuova sottoposizione ai divieti imposti dalla norma penale e alle relative pene. Inoltre, vista più sopra la eterogeneità dei quadri clinici e comportamentali riconducibili al vizio di mente, dovrebbe essere posta una particolare attenzione alla disponibilità di un adeguato ventaglio di percorsi trattamentali (nota 33).

Avviandoci alla conclusione di questo intervento, definite le proposte operative che possono essere a disposizione dei DSM, qualche ultima considerazione deve esse fatta per completare il quadro delle odierne criticità e complessità in ambito psichiatrico-forense.

La prima ritorna alle attuali lacune strutturali e organizzative della misura detentiva in REMS. La Suprema corte, in sintesi, ha tracciato le linee di intervento per ripristinare un quadro costituzionalmente orientato. Un primo intervento del legislatore dovrebbe definirne un più forte ancoraggio di legge, che definisca “i tempi” ma anche “i modi” del percorso esecutivo, ora affidato in via esclusiva alle Regioni e ai loro organi amministrativi. Un secondo intervento auspicato consiste nel definire un numero adeguato di posti in REMS (la Cassazione ipotizzandolo insufficiente). Il terzo intervento legislativo è richiesto per rimuovere l’incostituzionalità di una misura di sicurezza dal funzionamento della quale il Ministro di giustizia è stato estromesso (nota 34) e, infine, lo stimolo è di meglio definire (data la tassatività richiesta dalla norma) i percorsi di tutela attivabili nel quadro della Libertà vigilata. Così, l’attenzione della psichiatria dovrebbe essere massima perché il rientro in partita del Ministero della giustizia richiesto dalla Corte non imprima alle nuove misure (detentive e non) derive eccessivamente securitarie o poco modellabili dai DSM.

La seconda considerazione torna sulle misure di sicurezza, non immuni da critiche in dottrina e criticate radicalmente da certa parte degli operatori della salute mentale, che non ritengono conciliabili la missione di cura con le necessità di controllo e tutela (nota 35). Dato che sul punto qualche accenno è stato qui già fatto, solo un paio di note rispetto alla perplessità (in parte ben comprensibile, sia chiaro) sollevate nello specifico dalle misure provvisorie. Intrinsecamente acuendosi le critiche che a misure limitative della libertà personale basate su generiche prognosi criminali a seguito di fatti per altro non ancora definitivamente ascritti all’agente possono essere rivolte, si ricorda che le misure provvisorie sono applicate in prossimità del fatto. Ciò implica la possibilità di mettere in atto (precoci) azioni di tutela dei soggetti interessati da fatti (ipoteticamente) di reato e da comportamenti (sicuramente) pericolosi che, spogliati i panni dei più uguali degli altri, gli operatori della salute mentale non possono nascondere nella loro verificazione, così come non può essere negata la non infrequente sottoposizione degli operatori dei servizi ad aggressioni o minacce che, se causati nell’ambito (a causa) di alterazioni psichiche, ancora possono non essere stati affrontati con le cure adeguate. Non possiamo da una parte reclamare l’attenzione del legislatore e della cittadinanza tutta sui pericoli, sulle aggressioni e financo sui delitti perpetrati nei confronti dei lavoratori dei servizi della salute mentale e contemporaneamente negare la utilità di misure tempestive di tutela, a protezione delle fasi (anche precoci) dell’indagine che, dopo il fatto di reato, accompagnano l’implementazione dei successivi interventi di cura e assistenza.

In conclusione, è interesse di tutte le parti coinvolte in questo dibattito riconoscere quanto a oggi è stato fatto a favore dei diritti individuali alla cura e alla dignità personale per le persone sofferenti di disturbi psichici e autrici di reati, ma altrettanto utile, da parte dei DSM, oltre a una adeguata conoscenza della disciplina psichiatrico forense, una rigorosa consapevolezza del proprio agire (e pensare) nei confronti di questa particolare e complessa componente della propria utenza.

Però, forse è possibile cristallizzare l’attuale dibattito come fosse fotografato sui blocchi di una (non nota) partenza verso (altrettanto non noti) territori. Sempre F.Palazzo, infatti, ricorda che “nella oscillazione pendolare tra scienza e diritto “…” il diritto è sempre pronto a recuperare terreno imponendo i suoi schemi assiologici là dove, come nell’imputabilità, la scienza non sembra capace di conferire quel grado di certezza irrinunciabile da parte delle istanze giuridico-penali” (nota 36). A noi, quindi, il compito di dare un maggiore rigore possibile agli inquadramenti e alle descrizioni del disagio psichico, una sufficiente replicabilità delle nostre metodologie e un’adeguata tenuta nel tempo delle conclusioni cui arriviamo nel disegnare il mondo psichico e la costellazione sintomatologica dei nostri pazienti. Ma resterà, sempre, la difficoltà di coniugare ciò che non è (completamente) dicibile con ciò che deve essere assiologicamente definito. Gli operatori della salute mentale, quindi, non possono trovare un apeirogon che si semplifichi sempre in una rassicurante, pulita e indentificata circonferenza a tutto comprendere, tutto spiegare e tutto definire. Da qui, le difficoltà di confronto con il mondo giuridico, che possono essere risolte solo comunicando reciprocamente tutto quanto, per primo, non è possibile ma (difficoltosamente) avvicinabile.


Note

Nota 1: Zuffranieri M, Zanalda E. Il percorso di superamento dell’OPG e i suoi effetti nell’applicazione delle misure di sicurezza. Rassegna Italiana di Criminologia, 2021; XV, 4

Nota 2: Corte costituzionale - Sentenza 16 dicembre 2021-27 gennaio 2022, n.22

Nota 3: Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari. Doc. XXII-bis n. 4, consultabile al sito: https://www.senato.it/documenti/repository/commissioni/servizio_saniyario16/Relazione_OOPPGG_doc_XXII-bis_4.pdf.

Nota 4: Bertolino M. L’imputabilità secondo il Codice penale. Sistema penale. 2020

Nota 5: Bertolino M. Variazioni (non solo) giurisprudenziali sul tema dell’elemento soggettivo del reo imputabile, semimputabile, totalmente inimputabile per infermità di mente e diritto penale europeo della colpevolezza. Sistema penale. 2023

Nota 6: Fiandaca G, Musco E. Diritto penale. Bologna, Zanichelli, 2019

Nota 7: Palazzo F. Punire e curare: tra incertezze scientifiche ed esigenze di riforma. In:Infermità mentale, imputabilità e disagio mentale in carcere. Menghini A, Mattevi E, eds. Quaderni della facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento, 2020

Nota 8: Tantalo M. La psichiatria forense oggi. Luci e ombre sul suo attuale ruolo e sull’attuale funzione nel processo penale. Diritto Penale e Uomo, 2020; 9

Nota 9 “Con riguardo, poi, alla persona detenuta affetta da problematiche psichiche, la Corte [Edu - Corte europea per i diritti dell’uomo] riconosce che si tratta di soggetto particolarmente esposto alle conseguenze deteriori della detenzione, così che nei suoi confronti dovrebbe esercitarsi un’attenzione particolarmente sollecita e accurata, comprensiva soprattutto di cure mediche appropriate” (il grassetto è nostro). Fiorentin F. La mancanza di posti nelle strutture non può essere una giustificazione. La decisione di Strasburgo. Guida al Diritto – Il sole 24 ore, 2022;7:81 Riprendendo la sentenza Cedu GC Murray c. Pays Bas del 2016. Si pensi ancora alle attuali condizioni del sistema carcerario italiano, e particolarmente alle capacità di risposte adeguate, umane e professionalmente specifiche, a ulteriori popolazioni di pazienti internati.

Nota 10: Santa Maria L. Frammenti di un discorso sulla giustizia malata. Diritto Penale e Uomo, 2020;7-8

Nota 11: Bandini T. Prospettive di riforma in tema di imputabilità e trattamento del malato di mente In: Canepa G, Marugo MA, eds. Imputabilità e trattamento del malato di mente autore di reato, Padova, Cedam, 1995;54

Nota 12: Dodaro GD. L’attribuzione di capacità come pratica di riconoscimento della persona con disabilità quale ‘soggetto di diritto penale’, Diritto e Questioni pubbliche, 2020;XX

Nota 13: Corleone F. Il muro della imputabilità. Dopo la chiusura dell’OPG, una scelta radicale. Fondazione Michelucci Press, 2019.

Nota 14: Cassazione, Sez. Un., 8 marzo 2005, Raso

Nota 15: Come nota M. Bertolino, “nell’ambito della dottrine penalistica ne è perciò derivato un pacifico riconoscimento della possibile rilevanza scusante anche di anomalie psichiche non rientranti nel concetto tradizionale e ristretto della malattia mentale”. Bertolino M. L’imputabilità secondo il Codice penale, ivi, p.5

Nota 16: Cassazione, Sez. Un., 8 marzo 2005, Raso, 10.2

Nota 17: Massaro A. Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”.Questione Giustizia, 2021

Nota 18: Pulitanò D. Diritto penale. Torino, Giappichelli, 2019

Nota 19: Secondo Dattoli, “ciò che rileva nella disciplina in esame” … “non è il carattere astrattamente patologico del disturbo, ma il risultato da esso determinato”. Dattoli LM. L’incidenza dei disturbi della personalità sulla capacità di intendere e volere. Psichiatria e giurisprudenza a confronto sul tema. Crimen et delictum. 2014; 8:129

Nota 20: “In Italia le attuali proiezioni di bilancio suggeriscono che, dopo anni di aumenti eccezionali della spesa nel 2020 e nel 2021, si è registrato un aumento nominale più moderato della spesa pubblica per la sanità nel 2023 (2,8%) con una correzione nel 2024 prima di un ritorno alla crescita nominale annua pari a tra il 2-3% previsto per il 2025-26. Considerando le più recenti stime di inflazione per il Paese, ciò si tradurrà molto probabilmente in una diminuzione della spesa pubblica in termini reali nei prossimi anni (il grassetto è nostro). Inoltre, si prevede che la percentuale del PIL destinata all’assistenza sanitaria finanziata con fondi pubblici sarà inferiore al livello pre-pandemia dal 2024 in poi”. da: OECD, Fiscal Sustainability of Health Systems: How to Finance More Resilient Health Systems When Money Is Tight? OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/880f3195-en. 2024

Nota 21: “La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa”.

Nota 22: Circa (anche) la generale competenza degli esperti, interessante la lettura del dispositivo della Suprema corte (Sentenza Cantore) che così si esprime: “la mancanza di cultura scientifica dei giudici, gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le negoziazioni informali oppure occulte tra i membri di una comunità scientifica; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; gli interessi dei committenti delle ricerche. Tale situazione rende chiaro che il giudice non può certamente assumere un ruolo passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico, ma deve svolgere un penetrante ruolo critico, divenendo (come è stato suggestivamente affermato) custode del metodo scientifico”. Cass. Pen. Sentenza 16237 del 2013, citata in Bertolino M. Le parole del diritto e le parole della scienza: un difficile dialogo su questioni di prova penale. Ius, 2017:5

Nota 23: "Cionondimeno, l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura esclusivamente sanitaria”. Corte costituzionale - Sentenza 16 dicembre 2021 - 27 gennaio 2022 n.22, 5.1

Nota 24: “In modo coerente alla natura penale delle misure di sicurezza, parrebbe opportuno che l’Amministrazione penitenziaria mantenesse un monitoraggio e una gestione attendibile dei dati [sulle misure detentive], nonché contribuisse a un coordinamento nazionale finalizzato a fare sì che le REMS continuino a formare un sistema, fatto di strutture diverse e indipendenti, ma collegate tra loro da una rete di rapporti istituzionali”. Poneti K. Le REMS in prospettiva costituzionale: sul diritto alla salute contro il potere di rinchiudere. L’Altro Diritto Rivista, 2021;5:32

Nota 25: “…in effetti, l’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 211, come convertito, in questa sede censurato, rappresenta la sola disposizione contenuta in un atto avente forza di legge su cui si fonda, oggi, l’intera disciplina dell’assegnazione a una REMS…”. Corte costituzionale, sentenza n. 22 2022, 5.3.2

Nota 26: Il P.U.R. delineato nell’art. 3 dell’”Accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Governo, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano e gli Enti locali, sulla proposta del Tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria di collaborazione interistituzionale inerente la gestione dei pazienti con misura di sicurezza”, prevede una ampia serie di funzioni, con l’obiettivo generale di fornire supporto all’Autorità giudiziaria per dare esecuzione ai provvedimenti applicativi delle misura di sicurezza detentive; ma non risolve il vacuum di legge evidenziato dalla Suprema corte.

Nota 27: Patarnello M. Le REMS: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni. Questione Giustizia; 2020:2

Nota 28: “prevalenza, nel caso degli autori di reati nei cui confronti sia diagnosticata una patologia psichica, della tutela della salute su quelle dell’esecuzione della pena (Articolo 32 Costituzione; articolo 3 CEDU). Fiorentin F, ivi, p. 87

Nota 29: Discorso spinoso e controverso, affatto immune da derive di tipo ideologico. Per questo, partiamo dai fatti. I dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlano di, per schematizzare moltissimo, due ondate di variazioni numeriche nell’utilizzo della misura di sicurezza detentiva: la prima, in aumento dopo la Sentenza “Raso” del 2005 e la seconda, di tipo drasticamente deflattivo, a seguito dell’impatto dei numeri e della “qualità” degli OPG dopo la diffusione del contenuto della Commissione Marino (20 luglio 2011). In tutti i casi, i pazienti ospitati in OPG sono calati dai circa 1300 del 2011 ai circa 690 del 2015. Il fatto che tale drastica diminuzione (che ha di fatto ispirato la quantificazione della dotazione nazionale dei posti in REMS) abbia avuto qualche aspetto di “artificiosità” legata alla sollevazione emotiva legata ai risultati della Commissione di cui sopra, associato alle condizioni di partenza delle nuove REMS, ove dovevano comunque già essere ospitati i soggetti che ancora erano internati nei diversi OPG, rende verosimile la valutazione di insufficienza, rispetto ai bisogni reali, dei posti in REMS pianificati. Se poi ci sia stata anche la deliberata finalità di facilitare, così, il concetto di extrema ratio statuito dalla legge 81, questo non toglie l’evidenza del saldo negativo che attualmente pare ravvisarsi.

Nota 30: Sul punto, si vedano Cabiale A. L’accertamento giudiziale della pericolosità sociale tra presente e futuro.Archivio penale. 2022;2; Notaro L. Accertamento e trattamento della pericolosità sociale: una storia di supplenze”.Atti del convegno: Malattia psichiatrica e pericolosità sociale, Pisa, Giappichelli, 2020; Minervini M. Considerazioni sulla riforma incompiuta in materia di misure di sicurezza per autori “infermi di mente”. Penale, Diritto e Procedura, 1/2023, il quale sottolinea il possibile contrasto con i principi di precisione e determinatezza. In relazione anche alla tematica della possibile correlazione tra misure e gravità del reato, è stato inoltre auspicato (Massaro A. ivi, p. 11) che [in una possibile riforma del sistema] “i presupposti applicativi delle misure di sicurezza “…” guardino più al passato (gravità del reato) e al presente (bisogno di cura) che al futuro (commissione di nuovi reati).

Nota 31: Sannini T. Vizio di mente e pericolosità sociale. Aspetti storici, giuridici e sociologici. ADIR L’altro diritto, 2014

Nota 32: Fiorentin F. Un assetto deficitario su tanti profili che non tutela pazienti e collettività. La decisione della Consulta.Guida al diritto – il Sole 24 ore, 2022;7:87

Nota 33: Massaro A. ivi

Nota 34: Articolo 110 cost.: Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia, l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

Nota 35: Per altro, una delle più note sentenze della Suprema corte in tema di misure di sicurezza chiarisce che “le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente”. E inoltre: “ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell’infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze”. Sentenza C. cost. 253/2003 considerato in diritto p.2. Ove se la realtà non ha poi seguito adeguatamente la giurisprudenza di legittimità, quest’ultima indicava con forza e limpidezza le caratteristiche di un adeguato bilanciamento tra necessità di cura e doveri di controllo. Allo stesso modo, però, ma la nota è nostra, il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non fa discendere automaticamente che possa per questo motivo essere sacrificata la salute del singolo individuo.

Nota 36: F. Palazzo, ivi, p,14