Volume 28 - 15 Maggio 2024

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Altra psichiatria. Gigante e la sirena

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Ricevuto il 03/02/2024 – Accettato il 15/02/2024



Una breve premessa

A fine anni ’80 ho fatto le mie prime esperienze in un Servizio di Psichiatria a vocazione territoriale. Lavorai quindi con Angelo Malinconico e con Nicola D’Erminio. Imparai tante cose (tra le quali quella di tornare dalla Comunità Terapeutica di Casacalenda con le scarpe sporche della terra che coltivavamo coi pazienti…). Nicola circa due anni fa ci ha lasciati.

Avevo avuto modo di leggere questo breve racconto che Angelo gli aveva dedicato e, pur apprezzando che mi avesse trasmesso questa esperienza “intima”, gli ho chiesto di poterlo rendere pubblico attraverso NRSP. Ha acconsentito, con mio grande piacere. Ecco quindi il testo; una pagina di quella “psichiatria romantica” di cui molti di noi amano ancora cibarsi.

Giuseppe Cardamone


Avevo conosciuto Gigante, mio collega, in una situazione tutt’altro che costruttiva. Bieche liti da pollaio politico locale me lo avevano presentato attraverso una sfilza di aggettivi non proprio magnificanti, culminati con un ridicolo e perentorio “sarebbe opportuno che tu gli dessi del lei”.

Ascoltai dissociandomi immediatamente: fuori imperturbabile, dentro interdetto, arrabbiato e ovviamente curioso, tanto da dirmi, come Tommaso, voglio vedere e toccare con mano. Altrettanto ovviamente, appena ci salutammo, il “tu” e una calorosa stretta di mano scivolarono come una barchetta sull’olio.

Veniva da una specializzazione diversa dalla mia; peraltro alla prima difficoltà si pose verso di me in maniera così autenticamente curiosa e richiestiva d’aiuto, che fu naturale non solo supportarlo, ma chiedergli se gli andasse di prendere il periodo iniziale (peraltro formalmente “di prova”) come una sorta di tirocinio. Accettò entusiasta, commosso, come un bambinone cui avevo proposto di servirsi in libertà su di uno scaffale di giocattoli.

Iniziò un sodalizio durato poi 35 anni, finché contingenze drammatiche lo portarono nei pascoli di Manitù. La metafora non è casuale, data la sua smodata passione per i fumetti e principalmente per quel Tex che non avevo mai visto di buon occhio.

Lavorava con me da qualche settimana e già mi accorgevo che gli aggettivi-epiteti raccolti con la presentazione si scioglievano e scivolavano nel ridicolo, quando un episodio mi fece sentire che quasi si invertisse il ruolo di tutoraggio.

Ero di turno di pomeriggio e, diligentemente, alle 13,45 ero sul posto di lavoro. Chiesi di lui agli infermieri e questi, allarmati, mi presero da parte, chiedendomi di fermarlo. Fermarlo? Perché, cosa stava facendo di così grave? Non volli ascoltare ulteriormente; mi avviai verso la stanza di degenza numero 3, indicatami dagli infermieri.

Mi si presentò una scena che in effetti lasciava perplessi. Gigante era lì e mi fece un distratto saluto. In canottiera bianca, sudato come uno scaricatore di porto, ad Agosto, con un pesante fardello sulle spalle. Finestre spalancate. Curvo sulla paziente, seminuda. Un ventilatore sul comodino. Ghiaccio in una ciotola. Una bottiglia d’alcool semivuota. La paziente tremante, sub-confusa, biascicava parole incomprensibili. Gigante cospargeva d’alcool quel corpo sussultante, rivolgendo subito dopo verso di esso il ventilatore, alternando impacchi di ghiaccio sulla nuca e misurazione della temperatura corporea.

Non ci fu bisogno di chiedere: la paziente stava presentando una sindrome neurolettica maligna e quindi ipertermia da terapia con farmaci neurolettici.

Non volli né distrarlo né interromperlo, ma almeno volevo sapere come mai non avesse chiesto una consulenza internistica o rianimatoria. Distolse lo sguardo per pochi secondi da quel corpo che sembrava stesse adorando come una deposizione e con voce rotta da rabbia e delusione bofonchiò: “e pensi non lo abbia fatto? E cosa pensi che abbiano risposto entrambi? Siamo impegnati…ci comunichi qualcosa di più preciso? Quali farmaci ha assunto? Respira regolarmente? Tu non riesci a trattarla? Più tardi passiamo…”. “Quindi eccomi qua, faccio io”. Lo guardai ammirato, anche un po’ commosso, come un allievo che sta incarnando il nucleo centrale della pratica insegnatagli. La paziente si riprese magnificamente. Il nostro sodalizio iniziò in quel preciso istante, cioè quando lo intruppai nel manipolo di psichiatri romantici che interpretano la loro professione con una ben precisa scelta: assumersi le responsabilità. Oggi nessuno, dico nessuno si assumerebbe una responsabilità del genere.

Ma questo aneddoto è solo il preambolo alla storia con la quale intitolo questo capitolo…

Eravamo impegnati entrambi in colloqui con pazienti ricoverati, quando arriva una telefonata dalla polizia: una signora seminuda è entrata in acqua; ha camminato sugli scogli raggiungendo quello più lontano dal molo; minaccia il suicidio; è stato allertato il 118, ma non è possibile raggiungerla senza rischiare che si lanci in acqua e che, ben che vada, si schianti con la risacca contro gli scogli. Ci scusammo con i pazienti (li avremmo rivisti una volta risoltasi l’emergenza) e partimmo verso il porto. Trovammo una situazione di totale caos: un vero e proprio battaglione di forze dell’ordine, gli operatori del 118, cittadini curiosi; tutti schierati sulla linea del molo. In lontananza, sull’ultimo scoglio affiorante, dopo un tratto di scogliera sommersa dall’acqua, vestita solo delle mutande, una giovane, esile, tremolante, gli occhi spiritati persi verso il mare. Ogni tanto urlava qualcosa in una lingua dell’Est Europa; dovevano essere minacce di lanciarsi. Peraltro le basse temperature di Febbraio rendevano la situazione ancora più precaria.

Parlottammo un po’ con polizia e operatori. Tutti sembravano lì per caso; consapevolmente impotenti, progettavano le tecniche più ardite per salvare la ragazza: far affiorare sommozzatori dalle acque davanti la scogliera; un elicottero con un operatore che si cali e la acciuffi; barche pronte a intervenire, una volta lanciatasi in acqua; capire se è religiosa e far intervenire un prete.

Noi ci chiedemmo qualcosa che a tutto il battaglione dovette sembrare un assurdo filosofeggiare: cosa le sarà accaduto? Perché vuole suicidarsi? Perché sta male? Naturalmente non era concepibile parlarle attraverso un megafono…e poi in quale lingua? Gigante mi sfuggì per qualche istante dalla vista. Ricomparve così combinato: pantaloni tirati su (alla zuava), senza calzini nelle scarpe nere classiche, camicia bianca con le maniche arrotolate, come fosse agosto. Non sapevo se ridere, piangere, andar via, considerare lui più “matto” della paziente, temere un suicidio di coppia o un omicidio (per il rischio che avviluppandosi alla ragazza potesse farla precipitare). Di fatto prevalse un riso compulsivo, mentre ricordavo la scena in cui “Super Fantozzi Excalibur” si avvicina all’acqua per suicidarsi, avvinghiato a un grosso masso, per poi immergersi richiamato dalla spada affiorante di re Artù. Gli chiesi cosa volesse fare. Mi rispose con imperturbabile nonchalance: “vado a prenderla!”. Tutta la pletora osservante era imperturbabile come lui, come fosse naturale. Il Gigante iniziò a danzare sugli scogli avvicinandosi alla Sirena, ripetendo un mantra: “calma, arrivo io … calma, arrivo io … calma arrivo io”. Cosa darei per stare per un solo attimo nella mente della ragazza: si girò, lo guardò incredula. Si sarà chiesto: “ma è matto? Cosa fa? Dove si avvia?”.

E io? Credo di non essermi accorto di cosa stessi facendo, poiché un Altro-me aveva mosso passi spediti seguendo con naturalezza il mio amico, peraltro cercando di non farsene accorgere da lui, per non distrarlo. Una follia! Ripercorrendo con la memoria la scena e ascoltando dopo la gente, mi resi conto che i matti eravamo in tre: una Sirena su di uno scoglio, nuda, esposta al gelido vento di febbraio; un Fantozzi traballante sugli scogli, attratto da Excalibur; un apostolo che seguiva Gesù/Fantozzi che “camminava sulle acque”. Ma quest’ultimo, cioè io, non era meno surreale: vestito di tutto punto, cappotto e borsalino grigio a falda larga retto dalla mano sinistra, per contrastare le folate di maestrale. La Sirena guardava sempre più “affascinata” questo film che le si stava costruendo intorno, sempre meno intenzionata a suicidarsi. Sembrava chiedersi: “vediamo come va a finire … dove vanno questi due matti”? Il Gigante continuava a non sapere (a livello di coscienza) che io lo stessi seguendo; era troppo proteso verso la Sirena e troppo impegnato in tre operazioni: tenere gli occhi dritti verso di lei, ormai ipnotizzata; ripetere il mantra rassicurante; cercare di tenersi in equilibrio su improbabili scarpe eleganti con suola rigorosamente di cuoio (liscio). Barcollava, procedeva, ondulava, scivolava, si rimetteva in asse, si appoggiava qualche volta a scogli più grandi. Un equilibrista/clown sospeso su di un filo d’acciaio, rigorosamente senza rete. Finché non arrivò al tratto in cui non v’era più l’appoggio sugli scogli. Il pubblico (me compreso ovviamente), come il popolo di Fellini che vede surrealmente comparire in Adriatico il transatlantico Rex, strabuzza gli occhi, mette le mani davanti alla bocca per contenere urla di meraviglia, allunga il collo chiedendosi: “e ora?”. E ora… l’unico a non avere dubbi su cosa sarebbe accaduto ero io (anzi, l’Altro-me).

Gigante prima tirò un po’ più su i pantaloni; poi si rese conto di quanto ciò fosse inutile e allungò lo sguardo verso l’acqua gelida, per cercare un punto d’appoggio che gli consentisse un minimo di equilibrio. Ma lo iato tra Gigante e la Sirena era ancora troppo ampio. A un certo punto la situazione sembrò precipitare. La Sirena, benché ammirata da cotanto coraggio, era molto più intenta a godersi la scena che a essere un minimo attiva per protendersi lei verso il mio amico, in acqua fino alle ginocchia, barcollante per la scivolosità dello scoglio, per la risacca, per il vento, per le inadeguate calzature.

Allora accadde la cosa più “naturale” che potesse accadere in quella situazione surreale: Gigante allungò la mano destra verso la sirena e la sinistra verso dietro. Egli sapeva (chi? Quale suo-Altro? Con quale certezza?) che una mano avrebbe afferrato la sua. E così fu, io (il mio Altro) avevo proseguito il cammino dietro di lui fino a circa due metri. Avevo colmato parte della distanza tra noi immergendo la gamba sinistra in acqua, per almeno mezzo metro, avevo trovato un appoggio sufficientemente stabile e avevo allungato la mia mano sinistra, afferrando la sua, scivolosa, intirizzita, ma solida nella presa.

A quel punto lui ebbe la possibilità di allungarsi e, come Dorando Pietri sorretto dal giudice olimpico, raggiunse il traguardo/Sirena. La cinse con presa sicura con il braccio destro. Lei docilmente si affidò, era del resto stremata, leggera, grata per quella scena di folle vitalità che le aveva fatto abbandonare ogni idea suicidaria.

Ripercorremmo a ritroso la via, fino ad arrivare sulla banchina e consegnare la Sirena agli operatori dell’ambulanza, dopo averle fatto entrambi una carezza sulla fronte gelida.

A quel punto vi fu l’ultimo sussulto di imbarazzante virilità delle “Forze dell’Ordine” e del pubblico (rigorosamente non pagante): un applauso scrosciante. “Bravo! Bravi!”. Il pudore che rimaneva loro evitò che chiedessero a gran voce: “bis!”.

Io mi avvicinai a Gigante e, fingendo solo un abbraccio, gli sussurrai nell’orecchio (anche quello era gelido): “Fanno pure l’applauso… Ricordi la scena di Totò a colori? ‘E sputasse dint’ all’uocchio!”.

Traduco per i lettori diversamente napoletani: “Come Totò, sputerei in un occhio a tutti questi campioni del disimpegno!”.

Ecco. Gigante un anno fa è volato via, scivolando su di un piccolo malanno, reso malattia mortale dalla cosiddetta ars medica e dal suo stolido affaccendarsi, tipo “facimme ammuina!” (“facciamo quanta più confusione è possibile!”), il famoso, presunto comando della Marina Reale del Regno delle due Sicilie.

Pace al Gigante e alle sue imprese epiche, anzi, “normali”, da psichiatra romantico, di “una psichiatria rapsodica e sognatrice” (1).

(1) Eugenio Borgna, L’agonia della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 2022, pag. 12.