Volume 24 - 9 Settembre 2022

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Il trattamento psicosociale per persone con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze nelle strutture residenziali psichiatriche

Autori

Ricevuto il 25/06/22 – Accettato il 10/07/22



Riassunto

Il presente lavoro si propone di presentare il “Trattamento psicosociale per disturbi in comorbidità psichiatrica con uso di sostanze nelle strutture residenziali per persone con disturbi mentali”, rivolto a tutti coloro che presentano disturbi in comorbidità psichiatrica con uso di sostanze. Viene descritto come da un punto di vista organizzativo si è cercato di tradurre operativamente il concetto di recovery all’interno dei setting residenziali psichiatrici intensivi, con attenzione ai percorsi interdisciplinari, multidimensionali e interservizi centrati sulla persona fruitrice dei servizi. Viene successivamente riportato il modello di intervento che si sta applicando nel DAISMDP Ferrara, la cui introduzione ha significato da un lato favorire la formazione e lo sviluppo di competenze negli utenti e dall’altro lato favorire la formazione degli operatori su temi, quali: ripensare un setting residenziale in termini di setting di cura e di training di abilità, offrire trattamenti psicosociali di comprovata efficacia, inserire elementi normativi nei rapporti di partnership, stendere un contratto di cura multidimensionale, integrarsi con gli invianti e con altri servizi e, infine, affrontare le inevitabili criticità che emergono nel trattamento di tale tipologia di pazienti, nel momento in cui si offrono trattamenti che hanno come obiettivo il cambiamento della loro condizione “cronica”.


Abstract

The purpose of this paper is to present "Psychosocial Treatment for Psychiatric Comorbid Disorders with Substance Use in Residential Facilities for People with Mental Disorders," aimed at all those with psychiatric comorbid disorders with substance use. Here is described how organizationally the concept of recovery within intensive psychiatric residential settings has been operationally translated, with attention to interdisciplinary, multidimensional and interdepartmental pathways centered on the person receiving services. Next, the intervention model being applied in the Ferrara DAISMDP has been reported, the introduction of which has meant, on one hand to foster training and skill development in users and, on the other hand, to foster training of operators on issues, such as: rethinking a residential setting in terms of a care setting and skills training, offering proven psychosocial treatments, incorporating normative elements into partnership relationships, drafting a multidimensional care contract, integrating with referrers and other services, and, finally, addressing the inevitable critical issues that arise in the treatment of this type of patient when offering treatments that aim to change their "chronic" condition.


Le strutture residenziali: ri-edizione di mura protettive

Dopo la promulgazione della legge 180, si sono sviluppate in Italia, nell’area delle Strutture Intermedie, molte Comunità Terapeutiche e residenze psichiatriche più o meno intensive con assistenza h24 quali sedi di programmi riabilitativi finalizzati al reinserimento sociale di persone con esperienza di malattia mentale.

Negli anni però abbiamo assistito a processi che hanno portato a nuovi fenomeni di istituzionalizzazione: tempi di permanenza lunghi se non “lunghissimi”: permanenza a vita in alcuni casi, programmi aspecifici finalizzati all’assistenza, coesistenza all’interno della stessa residenza di persone portatrici di bisogni diversi, presenza di personale con formazione aspecifica e quindi inadeguata, presa in carico della persona con esperienza di malattia mentale, ma non del suo contesto esistenziale (famiglia, comunità di riferimento), esiti soddisfacenti in termini di:

  • controllo
  • delega all’istituzione sanitaria della responsabilità dei comportamenti disturbanti;
  • delega all’istituzione sanitaria del soddisfacimento di bisogni basici sociali (abitare, reddito minimo, socializzazione surrogata): sanitarizzazione dei bisogni vitali di salute e deresponsabilizzazione della comunità;
  • equilibrio delle famiglie e dei contesti comunitari;
  • coscienza collettiva di avere migliorato le condizioni di vita delle persone con esperienza di malattia mentale rispetto alla permanenza in “istituzioni manicomiali”;
  • ma esiti insoddisfacenti nei termini di:
  • costi sociali e personali (sostenibilità economica/qualità di vita, aspettative di salute, inclusione sociale);
  • nuove acquisizioni scientifiche: neuroscienze, tecniche Evidence Based, approfondimento ruolo farmaci;
  • teorie sulla recovery, sia clinico che personale, avanzato dai movimenti degli utenti e dal mondo scientifico.

Ci siamo, inoltre, dovuti confrontare con gli effetti iatrogeni della residenzialità h 24, anche se somministrata al meglio possibile, al pari degli effetti collaterali dei farmaci somministrati al massimo dell’aderenza a quanto indicato dalle linee guida, con il cambiamento delle coordinate sociali che lasciano sempre più sole le persone che perdono i genitori in un contesto di famiglie mononucleari in cui tutto il carico familiare è affidato, se tutto va bene, ai fratelli, con la realtà dell’attuale sistema di welfare e quindi delle reali risorse sociali e con il fatto che il miglioramento dell’approccio terapeutico orientato, oltre che al miglioramento clinico a quello funzionale produrrà esiti negli anni futuri, non nell’immediato.

Infatti, in molte, anche se non tutte, situazioni, l’organizzazione delle residenze e le loro regole di funzionamento “organizzano” la vita delle persone che vi risiedono limitando l’autodirezionalità.

Le persone sono eterodirette, dato che la presenza costante degli operatori favorisce meccanismi di delega e decresce o non si sviluppa la capacità di problem solving, ne consegue che la soddisfazione di quasi tutti i bisogni all’interno della residenza crea dipendenza istituzionale e un micromondo facilitato che diventa il surrogato di quello reale. La noia e il tempo vuoto sono presenti in sistemi fortemente organizzati in cui non ci si occupa della quotidianità, ostacolando lo sviluppo della capacità di pianificazione, lo stigma interno si alimenta attraverso l’identificazione con la malattia (la residenza è il luogo delegato alla cura della malattia), la separazione dalla famiglia e/o dal contesto comunitario di riferimento per tempi spesso lunghi (uno, due anni) favorisce il riassestarsi dei sistemi su nuovi equilibri per cui diventa difficile poi reinserire la persona a domicilio. Inoltre, i vantaggi economici nel non dover pianificare le spese potendo investire soldi, nella maggioranza dei casi, solo per spese voluttuarie interferisce con la motivazione a costruire ipotesi di dimissione meno vantaggiose.

Tutto questo non migliora la qualità della vita delle persone inserite all’interno dei programmi residenziali rispetto a quelle a domicilio (vedi letteratura), rende complessa la dimissione e il reinserimento nel contesto comunitario e ha costi sociali ed economici elevati.

L’implementazione nelle nostre strutture residenziali di programmi riabilitativi per persone con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze, si inscrive in un più radiale ripensamento di tali contesti di cura, iniziato diversi anni fa, che ha messo in discussione la prevalente attribuzione alle strutture residenziali psichiatriche di funzioni, quali: collocare, tenere, contenere, proteggere difendere (chi: il paziente o il contesto sociale?) a favore di servizi (e non strutture) che offrono un trattamento intensivo riabilitativo a quella percentuale di pazienti (circa il 20%) che non riesce a raggiungere un aumento del proprio funzionamento tale da potersi permettere di svolgere attività senza un supporto intensivo finalizzato all’organizzazione della vita quotidiana.

Sono pazienti che, in assenza di tale trattamento intensivo, mostrano costanti e progressive disabilità e rilevanti deficit cognitivi, non svolgono un ruolo sociale o lo svolgono in modo intermittente, sono carenti delle principali abilità di vita quotidiana, disconnessi dai contesti ambientali e completamente dipendenti dalle famiglie o dalle istituzioni. L’assenza poi di corrette valutazioni funzionali e di trattamenti appropriati, peggiorano sia il grado di disabilità sia la Social Breakdown Syndrome (Gruenberg, 1967; 1974), configurando quella condizione socioassistenziale che connota i cosiddetti “pazienti cronici” dei Servizi di Salute mentale (Carozza, 2014).


Le strutture residenziali: dalle mura a setting psicosociale EB orientato alla recovery

Ripensare la residenzialità psichiatrica in termini non solo di “mura contenitive” ma di setting psicosociale EB orientato alla recovery significa strutturare un contesto per l'apprendimento di abilità, con l’obiettivo di ripresa di ruolo sociale valido nella comunità di appartenenza.

Si tratta, in altri termini, di farsi carico di quei pazienti altamente sensibili anche ai minimi cambiamenti, con alti livelli di vulnerabilità, che rende temuti anche i minimi fallimenti come anche i minimi successi, dove la mancanza di efficaci training di abilità o la perdita di abilità per disuso non solo ha cancellato la rappresentazione cognitiva dell’abilità (i pazienti non sanno più come applicarle), ma ha anche aumentato la percezione di incapacità complessiva, rinforzando il locus external of control (sempre più azioni vengono delegate agli altri e sempre meno azioni vengono autodirette) e lo stigma interno. La sinergia di questi fattori potrebbe aggravare la già presente vulnerabilità costituzionale e l’eccessiva suscettibilità emotiva ad ogni tipo di accadimento.

L’uso di sostanze poi complica la situazione già molto critica. Infatti, nelle malattie mentali la tossicodipendenza può essere letta come autoterapia psicofarmacologica, volta a contrastare tanto la sintomatologia negativa quanto quella positiva, la disregolazione emotiva, le oscillazioni umorali, i deficit cognitivi, la perdita dei confini dell’io, i sentimenti depressivi conseguenti alle perdite, la tensione nella confusione conflittuale propria dei sistemi famigliari. Nei disturbi dell’umore, soprattutto nei pazienti bipolari e nei pazienti depressi e ansiosi, le sostanze -in primis l’eroina e l’alcool- sembrano svolgere questa funzione autoterapeutica.

Sebbene la sensazione soggettiva di chi assume le sostanze sia, soprattutto in un primo tempo, quella di un lenimento, non solo della depressione, ma anche di tutti i processi concomitanti -confusione, rabbia, tensione, angoscia, vergogna, colpa, ecc.- l’uso di droga peggiora l’intero quadro clinico.

Se nelle forme depressive l’uso di droghe oltre ad aggravare di per sé la patologia affettiva, innalza fortemente il rischio di suicidio, nei quadri misti bipolari ciò porta ad un peggioramento della mania il cui decorso appare assolutamente meno favorevole.

È frequentissimo in pazienti con sintomatologia bipolare l’uso alterno o spesso concomitante di eroina e cocaina, oppiacei e stimolanti, percepiti soggettivamente da tali pazienti come in grado di mantenere il tono dell’umore adeguatamente euforico, cosa che questi pazienti vorrebbero raggiungere a tutti i costi. La scelta di tali sostanze sarebbe elettiva, in quanto volta a curare specifici sintomi psichici dolorosi.

Le sostanze, quindi, permetterebbero un adattamento positivo soprattutto sul breve termine, compensando il deficit e modulando la conflittualità; sul lungo periodo, però, questo adattamento non sarebbe più sufficiente.

Intanto, le diverse droghe agiscono in modo differente sui singoli soggetti che ne fanno uso, modificando specificamente i processi psichici, sempre secondo un significato personale. Infatti, dopo l’incontro con la sostanza nulla resta più come prima: la droga dà inizialmente alla persona una risposta positiva mai reale, fissando, peggiorando e cronicizzando la patologia iniziale; successivamente si instaureranno dei meccanismi a catena in cui l’automatismo diverrà incontrollabile.

L’antagonismo tra un sé senza-sostanza e un sé diverso grazie ad essa, diventa sempre più forte; la contrapposizione tra questi due stati sempre più estrema: un sé miserabile e fallimentare, con relazioni dolorose e sentimenti insopportabili, che si contrappone a un altro sé che -per quanto irreale- appare pacificato e senza malessere.

Tale scissione che caratterizza in particolar modo i soggetti affetti da disturbi di personalità e contemporaneamente dipendenti da sostanze, mostra una straordinaria forza di autoreferenzialità e di persistenza, resistendo alle sollecitazioni anche terapeutiche dell’ambiente (v. la scarsissima compliance dei soggetti con disturbo borderline di personalità).

Infatti, mentre la struttura psicopatologica fa avanzare richieste, la soluzione tossicomanica, paga dell’effetto salvifico raggiunto grazie alla sostanza, sembra annullare ogni richiesta. È così che, mentre la prima sembra permeabile al rapporto con gli altri invocando il cambiamento tramite l’aiuto altrui, la seconda si chiude rendendosi impermeabile ad ogni rapporto.

L’insieme di queste due componenti è alla base delle scissioni tanto frequenti in questi soggetti e dà luogo ad una resistenza e a una forza che impediscono a differenti interlocutori di aprirsi un varco per il confronto.

Sotto l’uso di sostanze, la struttura psicopatologica diventa chiusa, impermeabile e consolidata nel tempo: quanto più è cronica, tanto più la tossicomania si impone e la persona impara a vivere a lungo dentro quel mondo, assumendone le leggi e le abitudini, annullando le risposte personali, creandosi danni ma soprattutto ricavandone l’idea di non avere altra possibilità che continuare a fare il tossico.

Anche i piani più profondi dell’identità vengono compromessi: viene lesa l’autostima, l’autoconsapevolezza, l’autonomia e l’espressività.

La struttura psicopatologica, così come descritta, rappresenta un limite alla terapia, lasciando piuttosto spazio a soluzioni negative e distruttive (v. comportamenti impulsivi e a rischio nel caso clinico che segue), generando ulteriore conflittualità, confusione, chiusura ed angoscia.

Una struttura tanto disfunzionale -e tanto tossica- da pretendere subito azioni o oggetti che, seppur distruttivi, siano in grado di risolvere all’istante ogni ansia, preoccupazione e motivo di sofferenza: il trionfo della logica tossicomanica del “tutto e subito”.

Per tale ragione viene così frequentemente attivata in questi soggetti la ricerca di cose estreme, fuori dall’ordinario, che rispondono alla loro urgenza, alla tensione che crea, allo squilibrio che provoca; che rispondono, inoltre, al mancato funzionamento delle strutture normali che sono perennemente bloccate, congelate ad un livello molto profondo e probabilmente mai esplorato, o esplorato solo in parte dal soggetto che ne è portatore.

L’incapacità di risolvere la sofferenza determina un vissuto di fallimento, di blocco, di vuoto, di enorme disperazione, caratteristica ciclicamente ricorrente in tutti i soggetti interessati da un disturbo di questo tipo. L’individuo e il contesto in cui egli agisce si muovono convulsivamente senza che vi sia un apprendimento e una maturazione. L’insieme di sentimenti contrapposti, come la paura e il desiderio, l’odio e la benevolenza, saranno continuamente riproposti: la voglia di libertà, autonomia ed emancipazione, scateneranno la fuga in un’illusione di onnipotenza; la paura di una separazione tragica, di ulteriore sofferenza, di perdite irreversibili, scatenerà un sentimento di radicale impotenza.

A questa sofferenza il tossicomane conosce già la soluzione e, pur di ottenerla, è disposto a sopportare tutti i disagi che comporta l’uso della droga, di cui egli è consapevole. Al rischio dell’incerto preferisce la sicurezza dell’oggetto, la sostanza, che mai lo delude, che mai lo tradisce. Da qui il vissuto di vittima, in quanto schiacciato da qualcosa di ingovernabile, che è al di sopra del suo potere (“la mia testa matta”, “certi momentacci”, “la furia che mi sale”).

Lo stesso vittimismo che egli esprime scatena una profezia che si avvera: nulla si è fatto, perché nulla si può fare, perché già nulla prima si poteva fare (“accettatemi come sono; sono nato così e non cambierò mai”).

Ogni collusione con l’autovittimizzazione aggrava fortemente la sintomatologia del disturbo ed in questo modo le relazioni diventano sempre più disfunzionali.

Ripensare la residenzialità non in termini di mura ma di setting di offerta trattamentale significa prima di tutto chiedersi:

  • Quali programmi e quali setting residenziali sostengono i percorsi di recovery delle persone con comorbilità psichiatrica e uso di sostanze?
  • Quali costi è etico sostenere in un’ottica costi/benefici per la persona interessata, il suo contesto di riferimento e la società che finanzia i percorsi?

I principi della recovery e delle pratiche EB ci guidano in tale percorso di ridefinizione dei setting residenziali e ci spingono a costruire programmi orientati all’esterno fin dal loro inizio che, condotti inizialmente nei setting istituzionali, si spostano progressivamente all’esterno (contesti sociali) e che, attraverso l’esecuzione di compiti e l’espletamento di ruoli, abbiano come conseguenza:

  • il riavvicinamento della persona al contesto (risocializzazione);
  • l’apprendimento e l’esercizio di abilità;
  • l’espletamento di compiti validi e utili alla collettività;
  • il successo;
  • la ripresa ruolo sociale valido nella comunità.

Tali servizi tendono ad andare oltre la tradizionale assistenza clinica per aiutare le persone con malattia mentale e uso di sostanze a reinserirsi nel tessuto sociale, incorporando nel concetto di recovery gli esiti raggiunti nelle dimensioni della qualità di vita, del lavoro, dell’abitazione, dell’amicizia e della vita sociale.

Si afferma quindi l’importanza della “esclusione sociale” come un fattore che contribuisce all’emergenza e alla persistenza della malattia mentale e dell’uso di sostanze.


Il setting residenziale: strategie generiche per la costruzione della partnership e per lo sviluppo della motivazione

Tradizionalmente, il setting residenziale riabilitativo si caratterizza per quattro caratteristiche fondamentali: spazio fisico, spazio relazionale, regole da negoziare in un processo decisionale condiviso, trattamenti ad orientamento psicosociale EB. Nell’area che stiamo qui trattando, esso deve adattarsi ai pazienti con disturbo psichiatrico e uso di sostanze, dove il primo obiettivo è creare una relazione personale tra il paziente e l’operatore/i tali da coinvolgerlo nelle interazioni socializzanti e neutralizzare:

  • La sua aspettativa di fallimento
  • La sfiducia e l’ostilità verso gli altri
  • Il pessimismo circa la possibilità di migliorare la sua vita
  • Il senso di pericolosità che le relazioni comportano
  • L’evitamento relazionale
  • La non reciprocazione
  • La svalutazione di sé

Spivak (1987) ha descritto cinque dimensioni della relazione utili a tale scopo e che sono di seguito prese in esame singolarmente:

  • Supporto ai sentimenti e alle opinioni
  • Permissività dei comportamenti devianti
  • Disconferma delle aspettative del passato
  • Feedback dei comportamenti socialmente competenti
  • Successo senza richieste

Supporto

Nell’accezione di Spivak, supportare significa validare i sentimenti e i comportamenti del paziente così come sono espressi, riformulandoli come perfettamente comprensibili alla luce della sua biografia. Attraverso l’uso dell’empatia (e non della simpatia) gli si fa presente che, se l’operatore avesse avuto la sua stessa esperienza probabilmente sentirebbe e agirebbe nello stesso modo. Significa altresì, fornirgli l’opportunità di continuare l’interazione senza fargli richieste che possano indurlo ad una risposta di rifiuto, trasmettendogli che è accettato così come è, che gli operatori sono in contatto con lui perché egli è nel modo in cui è e non si aspettano che cambi. Il comportamento degli operatori, che non interrompono la relazione con lui in risposta ai comportamenti desocializzati, indica che la continuità del contatto non dipende da ciò che egli fa o non fa, ma dall’essere semplicemente accolto come individuo.


Permissività

La dimensione della permissività implica che l’equipe deve manifestare un livello di accettazione dei comportamenti desocializzati maggiore di quello che il paziente ha sperimentato all’esterno del setting riabilitativo. Le regole, le aspettative e le norme, che precedentemente hanno determinato punizioni ed esclusioni, quando non erano rispettate, devono essere più flessibili e deve essere chiaro che il principale interesse dello staff è la persona e non quello che lei fa.

L’obiettivo di queste due dimensioni è evidente: creare un’atmosfera di accettazione e rompere gli schemi cronici di fallimento e di rifiuto. Pertanto, la loro funzione è suscitare e mantenere l’attrazione del paziente verso gli altri, di contrastare la sua non reciprocazione alle loro opinioni e alle loro risposte e l’avversione per il contesto. Esse comunicano al paziente che gli operatori lo accettano con le sue caratteristiche, senza biasimarlo né criticarlo, e che il posto dove lui si trova adesso è quello giusto per lui così come è.

Ma se queste fossero le uniche dimensioni utilizzate, il paziente resterebbe disfunzionale e desocializzato. Per cui non sono sufficienti da sole a modificare efficacemente i comportamenti incompetenti. Per indurre il cambiamento comportamentale occorrono altre due dimensioni, mediante le quali si comunica che, anche se lo staff lo accetta per come è, il suo modo di essere non è il migliore possibile e va cambiato: la disconferma delle aspettative del passato e i riscontri positivi e correttivi.


Disconferma delle aspettative del passato

In un contesto socializzato questa terza dimensione viene definita disconferma delle aspettative di punizione, rifiuto e fallimento del paziente, ed è utilizzata nel momento in cui si introduce un intervento per produrre un cambiamento comportamentale. La difficoltà maggiore è individuare quale aspettativa del passato del paziente non debba essere confermata, ben sapendo di trovarsi di fronte ad un individuo che vive male sia se viene lasciato disfunzionale sia se lo si vuole cambiare. Infatti, egli ha sperimentato che se si dimostra non reciprocante, non riesce a cambiare il suo comportamento o a sostenere nel tempo tale cambiamento, gli altri lo lasciano in pace, lo rifiutano o lo sanzionano. Può aver anche sperimentato che se migliora anche di poco i suoi comportamenti in una comunità o comunque in un contesto «protetto», la sua vita futura, in un ambiente meno supportato e in assenza delle competenze necessarie per una vita indipendente, sarebbe peggiore di quella attuale. Per affrontare queste sfide gli operatori devono impegnarsi in una interazione che contrasti costantemente le aspettative di fallire nelle relazioni con gli altri e nell'esecuzione di compiti.


Feedback positivi e correttivi

Con la quarta dimensione viene riconosciuto e premiato il valore dei cambiamenti e dei successi, ma con misura. Infatti, per alcuni pazienti, molto desocializzati e con una lunga storia di traumi e di fallimenti, accettare una lode è spesso difficile, in quanto le usuali ricompense hanno perso la loro rilevanza per due principali motivi:

  • L’individuo non è stato più gratificato da lungo tempo ed è diventato pessimista circa la possibilità di ottenere un riconoscimento per un merito e finisce per rinunciarci, privilegiando la distanza dagli altri.
  • Il successo può essere minaccioso, perché può trasmettere l'aspettativa che, se è stato capace di migliorare seppur di poco, sarà in grado nel futuro di migliorare ancora di più.

Nel processo motivazionale esiste sempre un equilibrio complesso tra indurre speranza e aspettative positive e mantenere lo status quo. Per tali motivi il feedback deve essere:

  • Concreto, ossia focalizzato sull’azione compiuta con successo e alle sue conseguenze sociali, non a generiche lodi.
  • Immediato o il più possibile immediato. In genere è meglio evitare di darlo a distanza di molto tempo perché può confondere le idee, diventa difficile capire esattamente come si sono svolti i fatti e come si sarebbe dovuto mettere in atto quel singolo comportamento.
  • Offerto quando siamo calmi, mai quando si è agitati, magari proprio a causa di quel comportamento che desideriamo modificare; questo è un punto per cui vale la pena spendere qualche parola in più. È importante evitare che il feedback sia sfogo di emozioni; dunque, quando siamo arrabbiati è meglio attendere che sia tornata la calma interiore prima di erogare il feedback, il che aiuta ad attivare meglio la nostra razionalità. In questo moto si può evitare di incorrere in ciò che in Intelligenza Emotiva si chiama “sequestro emotivo”, ossia un episodio in cui l’amigdala, parte del cervello situata nel sistema limbico che ha il compito di elaborare le nostre emozioni, ci induce ad avere comportamenti del tutto istintivi. Ripristinata la calma e la razionalità, può essere utile iniziare dichiarando i propri intenti “lasciami che ti dia un feedback”, oppure “posso darti un feedback?”. In questo modo si permette alla persona di prepararsi dal punto di vista emotivo a quello che verrà detto e di attivare sia l’attenzione che la calma nel cervello del collaboratore piuttosto che metterlo sulla difensiva.
  • Attento all’autostima della persona. Un altro aspetto essenziale è l’attenzione da dare sempre alla persona ed alla sua autostima.  È importante evitare di criticare pazienti con bassa autostima e bisogna porre maggiore attenzione nei loro riguardi.
  • Focalizzato sul comportamento. Concentrarsi su quel comportamento specifico che vogliamo migliorare e non su altre cose ci aiuterà a dare un corretto feedback di miglioramento.  Sarebbe sbagliato, come spesso accade, riprendere vecchi errori più o meno inerenti all’argomento del feedback, ed è giusto evitare di colpire l’identità della persona (il “tu sei”), concentrandosi sulle azioni commesse e non sulla persona.
  • Comunicato one to one.  Meglio dare feedback sempre da soli con il paziente, specie se potrebbe essere percepito come una critica.
  • Attento ai modi. Oltre al “cosa dici”, fai attenzione a “come lo dici”.  È fondamentale mantenere un tono di voce cordiale per ottenere maggiore collaborazione ed in modo da mostrare l’intenzione di sostegno e di rispetto, ed utilizzare un linguaggio del corpo idoneo, creando empatia anche attraverso l’ascolto attivo.
  • Attivante un piano di miglioramento.  Bene sempre concludere concordando con il paziente l’azione di miglioramento. Si evita così di imporre comportamenti, preferendo arrivare insieme alle soluzioni, anche perché in questo modo si è più sicuri che il paziente si impegni nel cambiamento, in quanto ci crede egli stesso, si sente anche più motivato nel farlo ed in qualche modo si impegna a farlo.

Successo senza richieste

Il successo senza richieste consiste nella valorizzazione degli atti pur minimi che il paziente compie. Ha due scopi:

  1. Non indurre il paziente a rompere la relazione, chiedendogli più di quanto possa fare, inducendo anche la colpa di aver compromesso irrimediabilmente un rapporto significativo.
  2. Favorire la sperimentazione dei vantaggi rappresentati dalle relazioni umane, mediate gli effetti positivi delle proprie azioni socializzate. Tali vantaggi possono consistere per alcuni in gratificazioni materiali (caffè, oggetti del centro riportati a casa etc.) per altri in gratificazioni simboliche che accrescono l'autostima (calore, simpatia, attribuzione di ruoli importanti per la comunità, riconoscimento to di progressi da parte di pari etc.).

Il setting residenziale: Strategie specifiche per la costruzione di un rapporto di fiducia ma all’interno di regole precise

Nella fase propedeutica al rapporto di fiducia una adeguata e trasparente comunicazione con utenti e familiari in merito al divieto di introdurre sostanze psicotrope in struttura residenziale è essenziale per consentire al paziente di conoscere il comportamento atteso dall’équipe curante e ottenere scelte consapevoli finalizzate alla sua adesione al contratto di cura.

Al fine di promuovere e rafforzare la fiducia e la relazione con il/la paziente, diminuire la probabilità di comportamento disfunzionale e rafforzare l’alleanza terapeutica, nella fase di accoglienza l’operatore utilizza tecniche motivazionali persuasive per informare il/la paziente sul divieto di introdurre sostanze psicotrope nella struttura.

Per garantire un corretto approccio con paziente e/o familiari (se si tratta di pazienti minori) nella fase di ingresso in struttura è fondamentale, ai fini di una comunicazione efficace, fornire tutte le informazioni sulla prassi adottata per prevenire l’introduzione di sostanze psicotrope in struttura.

Durante il colloquio va stabilito un rapporto empatico con il/la paziente, basato su onestà, trasparenza, partecipazione e solidarietà, specificando che non sono attribuite colpe e che si tratta di azioni preventive e non punitive. Le spiegazioni orali accompagneranno la compilazione del contratto di cura che dovrà specificare come ci si accorda con il/la paziente e i familiari sulle modalità di verifica in fase di accoglienza e al ritorno dalla messa in prova (svuotamento delle tasche, apertura dei bagagli, zainetti, borse, esame tossicologico di routine, controllo della camera). Verrà lasciato al/alla paziente ed ai familiari un tempo sufficiente per assimilare le informazioni, porre domande e richieste di chiarimenti, far esprimere tutti i dubbi e gli eventuali suggerimenti e per accogliere con empatia e validazione tutte le reazioni emotive.

Utilizzando tecniche motivazionali persuasive finalizzate all’alleanza terapeutica, si informa il paziente sulle regole nella fase di accoglienza e al rientro in residenza sul divieto di introdurre sostanze psicotrope nella struttura.

Nel corso della spiegazione del comportamento atteso si propone una collaborazione nella fase di controllo delle tasche che dovranno essere svuotate e dei bagagli/zainetti che dovranno essere aperti.

A tal fine si sottoscrive un accordo all’ingresso del percorso riabilitativo residenziale che comprende cinque punti principali:

  • L’ospite si impegna ad evitare l’introduzione in Residenza di sostanze stupefacenti e alcolici
  • L’ospite si impegna a non fare uso di sostanze stupefacenti e alcolici durante il percorso di cura riabilitativo residenziale
  • L’ospite si impegna ad effettuare l’esame tossicologico nel caso i curanti ne rilevino la necessità
  • L’ospite collabora alla verifica degli effetti personali ogni qualvolta rientra in Residenza dopo l’uscita in autonomia
  • In caso di possesso o ritrovamento di sostanze stupefacenti vengono attivate le FFOO

L’accordo viene siglato da: paziente, medico della Residenza, operatore. Per guadagnare la fiducia, talora nella fase di inserimento, non viene affrontato il tema delle sostanze, ma con il dialogo, la conoscenza, la disponibilità si cerca di trovare la giusta distanza.

Successivamente sarà necessario lavorare sul craving per ridurre il disagio fisico con strategie specifiche (DBT, IMR) e riprocessare gli eventi critici per la gestione delle crisi e dello stress. In questa fase assume un ruolo fondamentale il coinvolgimento dei professionisti SerD con interventi di psicoeducazione sugli effetti collaterali delle sostanze, i fattori di rischio e le strategie.

Nel tempo la vulnerabilità personologica alla dipendenza dalla sostanza permane, quindi risulta maggiormente adattivo saturare la sua assenza con la dimensione relazionale. A tal fine, l’ampliamento della relazione con i professionisti, non solo della residenza ma anche del SerD, può ridurre gli effetti della separazione dal setting residenziale.

Il progetto terapeutico deve mirare alla costruzione di una base sicura nel tempo che permette di mantenere la relazione con i professionisti anche nella fase di autonomizzazione del paziente dal percorso residenziale. In questo senso la robustezza del setting relazionale residenziale scandito da un programma, regole e organizzazione delle giornate predefinite, permette di impostare una relazione terapeutica in grado di contrastare l’impulso a trovare soluzioni disfunzionali, spostando il desiderio della sostanza alla relazione terapeutica.

Quindi una parte del trattamento va sviluppato fuori dalla residenza per costruire reti relazionali significative e sviluppare tematiche soggettive legate al senso della vita per un recupero del senso esistenziale per contrastare la mancanza del ruolo sociale. Il ruolo riabilitativo del lavoro, di una casa propria, del recupero di abilità sociali per il rientro nella società, va sostenuto con azioni finalizzate ad evitare il revolving door.

In questo modo il percorso residenziale può diventare un setting di apprendimento di abilità che portano alla autodeterminazione e accompagnano la persona ad essere protagonista della propria vita con e oltre il disagio.

Fondamentale è la stesura di un contratto di cura integrato (tab. 1).

Tabella 1

Si precisa che quando si parla di contratto integrato si intende formalizzare una prassi dove:

  • gli operatori della Residenza partecipano ai colloqui di psicoeducazione o di trattamento con lo Psicologo SerD per riprocessare in un tempo successivo con il paziente i contenuti del colloquio, lavorare sul rinforzo e sull’acquisizione delle abilità;
  • il case manager SerD dà continuità alla relazione con il paziente, riceve il feedback dall’operatore della Residenza, lavora sul rinforzo e mantenimento delle abilità in sinergia con l’operatore della Residenza.

Le azioni integrate Residenza/SerD sono finalizzate a consolidare e mantenere gli esiti.


I trattamenti Residenziali EB appropriati per pazienti con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze

I trattamenti residenziali EB di elezione sono la terapia DBT skills training individuale e l’IMR sull’uso di sostanze


La Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT)

La DBT (Dialectical Behavior Therapy) è un trattamento EB ideato da M. Linehan negli anni settanta come trattamento ambulatoriale per persone con alto rischio suicidario e disturbo borderline di personalità.

Trials clinici controllati ne dimostrano l’efficacia per il disturbo borderline di personalità (Linehan et al., 1991,1993; Flyn et al., 2017; McMain et al., 2017; Probst 2018). Attualmente vanta un numero di studi maggiore rispetto a qualsiasi altra psicoterapia e risulta efficace nel trattamento di pazienti con diagnosi di disturbo bipolare (Van DiJk et al., 2013; Eisner et al., 2017); disturbi dell’umore (Conrad e Schneider, 2010); disturbo post-traumatico da stress (Bohused et al., 2013; Steil et al., 2018); disturbo da uso di sostanze (Whiteside et al., 2011; Grishchenko et al., 2018); disturbi alimentari (Safer e Joyce, 2011; Beard et al., 2017; Accurso et al., 2018). La letteratura riporta risultati significativi nella riduzione di comportamenti di autolesionismo e suicidario (Goodman et al., 2018; McCauley et al., 2018; Ramaiya et al., 2018).

La DBT è inclusa nelle Linee Guida dell’American Psychiatric Association (2001) e nelle Linee Guida NICE (2009) tra le terapie “Evidence Based” per il trattamento del disturbo borderline di personalità.

La DBT è un trattamento cognitivo-comportamentale manualizzato e si basa su una teoria dialettica e biosociale che enfatizza in modo particolare il ruolo che hanno, nei disturbi psichici, le difficoltà nel regolare le emozioni e il comportamento.

Le skills correlate alla DBT sono mirate specificamente ai modelli di instabilità nella regolazione emotiva, nel controllo degli impulsi, nelle relazioni interpersonali e nell’immagine di sé. Le skills sono quindi mirate a questi modelli disfunzionali e l’obiettivo principale dello skills training è quello di aiutare i pazienti a modificare i propri pattern comportamentali, emotivi, cognitivi ed interpersonali associati ad aspetti problematici della loro vita attraverso tali funzioni:

  1. incrementare le capacità individuali tramite un efficace miglioramento del comportamento;
  2. incrementare e mantenere la motivazione del paziente nei confronti del proprio cambiamento personale e dell’impegno nel trattamento;
  3. generalizzare i cambiamenti;
  4. incrementare la motivazione del terapeuta affinché conduca il trattamento in modo adeguato;
  5. supportare il paziente nel miglioramento o cambiamento del proprio ambiente.

La DBT skills training si sviluppa come intervento modulare individuale o di gruppo, nel quale le componenti possono essere aggiunte o eliminate a seconda delle esigenze di ciascun paziente e della struttura del trattamento preordinato.

Molti disturbi mentali possono essere concettualizzati come disturbi della regolazione emotiva con deficit nella regolazione. Se si considera che le emozioni includono sia le azioni sia la tendenza alle azioni, ciò spiega il collegamento tra la disregolazione emotiva e altri disturbi definiti come discontrollo comportamentale (ad esempio disturbi collegati all’assunzione di sostanze).

Il percorso di skills training è suddiviso in 4 moduli a seconda dell’ argomento e dell’area problematica a cui fanno riferimento:

  • Mindfulness;
  • Tolleranza della Sofferenza;
  • Regolazione Emotiva;
  • Efficacia Interpersonale.

Le abilità di Mindfulness affrontano la disregolazione del senso di sé che è comune negli utenti con grave disregolazione emotiva: senso di vuoto, sensazione di distacco dagli altri, di disprezzo per se stessi, di invalidità, di inutilità, vedere la realtà attraverso la lente delle emozioni e non per quella che è.

Le abilità di Tolleranza della Sofferenza affrontano la disregolazione comportamentale che sovente è associata ad una forte disregolazione emotiva: abuso di sostanze, tentativi autolesivi o suicidari e altri problemi correlati a comportamenti impulsivi.

Le abilità di Regolazione Emotiva affrontano le difficoltà nella regolazione emotiva (riconoscimento, denominazione e descrizione delle emozioni, problemi riguardanti l’evitamento emotivo e la capacità di far fronte al manifestarsi di un’emozione).

Le abilità di Efficacia Interpersonale affrontano la disregolazione interpersonale che è spesso correlata alla disregolazione emotiva (relazioni caotiche ed intense, rotture relazionali, evitamento degli altri).

I moduli delle abilità che vengono insegante sono orientati a promuovere:

  • Accettazione (Moduli di Mindfulness e Tolleranza della Sofferenza)
  • Cambiamento (Moduli di Regolazione Emotiva ed Efficacia Interpersonale)

Ciascun modulo di skills è a sua volta suddiviso in sottosezioni, a loro volta scomposte da serie di singole skills, solitamente insegnate in sequenza, ma che possono essere estrapolate in base alle necessità.

Oltre ai moduli di skills, il trattamento di DBT skills training include le abilità generali che comprendono:

  • l’orientamento allo skills training che avviene durante la prima seduta e include le presentazioni tra partecipanti, la presentazione del format, regole, calendario, panoramica degli argomenti e moduli, presentazione della teoria biosociale dello sviluppo della disregolazione emotiva; presentazione e consegna della “Scheda giornaliera” all’interno della quale annotare le occasioni in cui il paziente si esercita nelle nuove abilità;
  • analisi del comportamento attraverso:
    1. l’”analisi della catena comportamentale” che rappresenta un insieme di abilità supplementari che insegnano al paziente come analizzare e utilizzare le proprie abilità di problem solving per modificare i comportamenti problematici;
    2. l’”analisi degli anelli mancanti”, ossia l’insieme di abilità che insegnano al paziente la modalità per identificare comportamenti efficaci che non sono stati messi in atto.

La DBT col tempo è stata adattata a disturbi correlati all’uso di sostanze stupefacenti, spesso in comorbidità con il disturbo borderline di personalità. Nella cornice teorica della DBT, l’uso di sostanze rappresenta una vera e propria strategia di fronteggiamento finalizzata a regolare le emozioni dolorose a breve termine, ma che poi diventa disfunzionale a lungo termine poiché alimenta la sofferenza e preclude il raggiungimento di obiettivi di vita importanti per la persona. L’uso di sostanze, dunque, consente di regolare gli stati emotivi dolorosi e percepiti come intollerabili che si innescano quotidianamente a partire da eventi attivanti.

Negli ultimi anni la DBT è stata sempre più inserita nel piano di trattamento per i disturbi correlati all’ uso di sostanze. Lo stesso protocollo della Linehan prevede delle specifiche abilità orientate alla modulazione e gestione di:

  • aderenza al trattamento;
  • impulso e desiderio di assumere sostanze;
  • conseguenze dell’assunzione.

La meta-analisi di Haktanir e Callender (2020) ha confermato come la DBT sia un valido trattamento per i problemi associati all’utilizzo di sostanze. I partecipanti assegnati ai gruppi DBT, infatti, hanno mostrato più alto tasso di remissione dei sintomi rispetto ai partecipanti assegnati a trattamenti alternativi.

Si sottolinea, dunque, la necessità di aver inserito il protocollo DBT nel piano di trattamento delle persone con disturbi associati a uso di sostanze - soprattutto disturbo di personalità borderline e altri disturbi di personalità del cluster B - durante il percorso riabilitativo intensivo residenziale. Ciò che accomuna entrambi (disturbo di personalità borderline e disturbo da uso di sostanze) è una grave incapacità di regolazione emotiva, che impedisce un’efficace modalità di problem solving. I principi base che caratterizzano il trattamento DBT di pazienti con disturbo borderline di personalità vengono ripresi con efficacia anche nel trattamento delle dipendenze, a condizione che alla base di queste ultime sia presente una marcata incapacità di regolazione emotiva. Come altri approcci comportamentali, anche la DBT classifica i comportamenti target in funzione del loro livello di gravità, agendo in primo luogo su quelli che minacciano la vita dell’individuo. Questa linea operativa è evidente anche nel trattamento della dipendenza da sostanze.


Il programma residenziale di Skills training DBT per comorbidità psichiatrica e uso di sostanze

Il trattamento residenziale di skills training DBT, dedicato ai pazienti con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze sotteso da disregolazione emotiva, può essere individuale o erogato ad un gruppo ristretto di ospiti che soffrono di dipendenza da sostanze o fanno un uso ripetitivo di sostanze che non riescono ad estinguere.

L’insieme di skills supplementari finalizzate alla dipendenza da sostanze o all’uso di sostanze è contenuto all’interno del modulo di tolleranza della sofferenza. Ad esso può essere aggiunto o meno un programma completo di skills training DBT in base alle necessità cliniche e riabilitative del paziente, nonché al tempo di permanenza del paziente all’interno per percorso residenziale.

Il programma individuale viene effettuato due volte alla settimana. La durata di ogni seduta è di 45 minuti. È previsto il supporto agli homework tra una seduta e la successiva e il supporto all’acquisizione, al mantenimento, e alla generalizzazione delle strategie e abilità.

Il programma di skills residenziale orientato specificatamente all’uso di sostanze e non associato al programma completo di skills training DBT prevede:

  • Incontro di orientamento
  • Abilità di Mindfulness
  • Abilità per abbandonare la dipendenza o l’uso di sostanze stupefacenti che comprendono:
    1. Astinenza dialettica
    2. Mente chiara
    3. Rinforzo della comunità
    4. Bruciare i ponti
    5. Costruirne di nuovi
    6. Ribellione alternativa
    7. Negazione adattiva

1. L’abilità di astinenza dialettica sintetizza due approcci o strategie per affrontare i comportamenti di dipendenza:
 1a. l’astinenza che consiste nell’abbandonare completamente i comportamenti di dipendenza con il “Piano per l’astinenza”;
 1b. la riduzione del danno, ossia riconoscere la possibilità di ricadute e ridurre al minimo i danni con il “Piano di riduzione del danno”.

2. Le abilità correlate allo stato di “mente chiara” sono finalizzate a raggiungere la modalità più sicura in cui essere, ossia la condizione di essere puliti rispetto alla sostanza e non impegnarsi nella dipendenza pur rimanendo vigili sulla tentazione di farlo, tenendo presente che la “mente chiara” è una via di mezzo tra la “mente dipendente” (essere guidati dalla dipendenza) e la “mente pulita” (ignorare i rischi che potrebbero dare inizio al comportamento problematico di dipendenza).

3. Il rinforzo della comunità comprende skills finalizzate a ristrutturare l’ambiente di vita in modo che si rinforzi l’astinenza, mettendo in atto uno stile di vita che sia più soddisfacente di quello sostenuto da comportamenti correlati alla dipendenza o all’uso problematico di sostanze e ottenendo rinforzo dagli altri per non ricorrere a tali comportamenti.

4. Bruciare ponti corrisponde all’insieme di strategie atte ad eliminare attivamente dalla propria vita qualsiasi collegamento a possibili sollecitazioni verso i comportamenti correlati alla dipendenza da sostanze, ad esempio sbarazzarsi di tutto quello che rende possibile la dipendenza (numeri di telefono o persone sui social network che sono complici della dipendenza del paziente, denaro o carte di credito che potrebbe utilizzare per l’acquisto di sostanze, effetti personali associati alla dipendenza o che la ricordano).

5. Costruire nuovi ponti è la strategia di creare nella propria mente immagini e odori che possano competere con il craving.

6. Ribellione alternativa è un insieme di strategie da mettere in atto per sostituirla alla ribellione distruttiva in modo che il paziente possa soddisfare il desiderio di ribellarsi senza distruggere se stesso e possa mantenere i propri obiettivi. Si utilizza tale tipo di abilità quando l’uso di sostanze rappresenta anche una modalità di ribellarsi.

7. Negazione adattiva consiste nell’acquisire e mettere in atto strategie allorquando per il paziente è difficile tollerare il craving. Attraverso tali strategie il paziente giunge a convincersi di non provare il desiderio della sostanza.

All’interno di questo programma, o prima di affrontare le abilità per abbandonare la dipendenza da sostanze, si possono introdurre abilità di Tolleranza della Sofferenza e di Regolazione Emotiva in base alle necessità da parte del paziente di estinguere pattern comportamentali o emotivi disfunzionali.

Tale programma si integra con il percorso di psicoeducazione sulle sostanze che viene effettuato dallo psicologo SerD.

Gli obiettivi del percorso di skills training DBT sul disturbo da dipendenza o uso di sostanze correlato ad una forte incapacità di regolazione emotiva, attraverso i diversi passaggi di acquisizione delle strategie descritte, consistono nell’estinzione del comportamento di dipendenza o dell’uso di sostanze, ossia nell’acquisizione dell’astinenza completa, nel raggiungimento dello stato di mente chiara, nel ristrutturare l’ambiente di vita. Ciò consente al paziente il mantenimento degli obiettivi di vita all’interno del processo di recovery a favore di una vita degna di essere vissuta.


Illness Management Recovery (IMR)

Per molti anni il focus del trattamento dei gravi disturbi mentali è stato la remissione e la riduzione dei sintomi e delle loro conseguenze, inclusa la prevenzione delle ricadute e dei ricoveri. Oggi gli obiettivi sono cambiati: sono passati dal miglior controllo sintomatologico possibile al raggiungimento del miglior livello di funzionamento personale e sociale e al benessere soggettivo, fino al “recovery”, inteso come recupero degli effetti disabilitanti della malattia e come benessere stabile, sia sintomatologico che psicosociale.

L'Illness Management and Recovery (IMR) è un programma evidence based, basato sul principio di condivisione con l'utenza delle decisioni di trattamento, che prevede che i pazienti psichiatrici non siano meri ricettori, ma che vengano coinvolti attivamente nella propria cura e nella definizione dei propri obiettivi e degli esiti attesi.

Tale pratica EB è la dimostrazione di quanto l’approccio alla gestione e all’auto‐gestione della malattia abbia avuto, negli ultimi anni, un notevole sviluppo anche nell’ambito di malattie mentali gravi come la schizofrenia, il disturbo bipolare e la depressione maggiore (Atkinson et al., 1996; Bäuml et al., 2007; Kopelowicz & Liberman, 1994; Colom et al., 2003; Copeland & Mead, 2004; Hogarty, 2002). Queste condizioni tendono ad essere di natura episodica, richiedendo talvolta, nelle loro fasi acute, dei ricoveri ospedalieri (Nuechterein & Dawson, 1986; Zubin et al., 1992). Molte persone, in aggiunta alla natura episodica di queste malattie, sperimentano anche dei sintomi psichiatrici persistenti, nonostante l’aderenza al trattamento farmacologico. Questi sintomi possono interferire con la qualità della vita e con il funzionamento nella vita quotidiana, contribuendo alla disabilità globale associata alla malattia mentale (Meyer, Gingerich & Mueser, 2010). Il programma Illness Management and Recovery (IMR) è stato progettato per insegnare a persone con malattie mentali gravi una serie di strategie pratiche per gestire in maniera più efficace i loro disturbi psichiatrici, mettendole quindi nelle condizioni di fare dei progressi verso il raggiungimento dei propri obiettivi di vita personali (Gingerich & Mueser, 2011). Alla base del programma IMR ci sono alcuni principi fondamentali:

  • Gli utenti definiscono la recovery: gli operatori aiutano gli utenti a definire la recovery per sé e a identificare obiettivi personalmente significativi.
  • L’informazione conferisce potere alle persone: l’educazione sulle malattie mentali è il fondamento dell’assunzione di decisioni informate.
  • La collaborazione è determinante: gli operatori aiutano gli utenti a costruire reti sociali e coinvolgere altre persone di supporto in attività che promuovono la recovery.
  • I piani di prevenzione possono aiutare a prevenire le crisi: gli utenti imparano a identificare i segni premonitori di crisi e a pianificare i passi che possono compiere per prevenire le ricadute.
  • Le strategie di gestione della malattia funzionano: gli utenti possono imparare nuove strategie che li aiutano a gestire i loro sintomi, fronteggiare lo stress e migliorare la qualità della vita.

L’IMR, pur prescindendo dalla diagnosi (nota 1), viene applicato in presenza di schizofrenia, disturbo schizoaffettivo, depressione, disturbo bipolare, disturbo di personalità borderline e dipendenza/abuso da sostanze. In questo ultimo caso l’IMR è dedicato ai pazienti che utilizzano le sostanze come strategie di coping disfunzionale per fronteggiare i sintomi del disturbo di base. Il focus di tale trattamento è sui seguenti aspetti:

  • Aiutare le persone a impostare obiettivi personali di recovery
  • Insegnare alle persone a gestire i loro sintomi psichiatrici
  • Aumentare la loro capacità di raggiungere gli obiettivi di recovery personale (come definito dall'individuo)
  • Ispirare speranza rispetto alle possibilità di recovery
  • Preparare le persone a prendere decisioni informate rispetto al loro trattamento
  • Aumentare la padronanza delle persone rispetto alla loro malattia mentale
  • Far sì che le persone possano dedicare meno tempo ad affrontare la propria malattia mentale e più tempo a godersi la vita

Nello specifico del trattamento nei confronti di pazienti con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze viene utilizzato il Modulo sei - Uso di Droghe e alcool. Questo modulo fornisce ai pazienti informazioni sugli effetti che alcool e sostanze stupefacenti hanno sulle malattie mentali, e su come la riduzione o l’interruzione dell'uso di sostanze può aiutarli a raggiungere i loro obiettivi di recovery.

Il modulo sei si declina in sei sessioni: Capire il problema dell’uso di alcol e droghe, Uso di sostanze e modello Stress-Vulnerabilità, Soppesare i pro e i contro della sobrietà, Sviluppare uno stile di vita sobrio, Fare un piano personale di sobrietà e Ripassare e mettere in pratica il piano di sobrietà personale.

I partecipanti discutono sugli effetti che possono derivare dall’utilizzo di sostanze per promuovere processi decisionali informati e coloro che scelgono di smettere di usare sostanze possono sviluppare un piano di sobrietà personalizzato in tre fasi, ognuna di loro importante per aiutarli a raggiungere i loro obiettivi.

I principali obiettivi del Modulo IMR 6 sono elencati nella tab. 2.

Tabella 2


L’influenza dell’inviante nel raggiungimento degli esiti del trattamento residenziale

Il ruolo dell’inviante è fondamentale perché l’intervento riabilitativo, attuato nelle strutture suddette, raggiunga i risultati desiderati. Senza ombra di dubbio, si può affermare che il mantenimento della relazione terapeutica con lo psichiatra ambulatoriale e il mantenimento della relazione d’aiuto con il case manager sono due tra i principali strumenti da utilizzare sia per non «perdere» il paziente sia per garantire la continuità di trattamento.

Infatti, qualora il paziente interrompa i trattamenti nei setting ospedalieri, residenziali o semiresidenziali, essendo quelli con gli invianti spesso gli unici contatti che egli continua ad accettare, si farà in modo di conservare questo riferimento terapeutico importante, che eviterà di «perdere di vista» il paziente.

D’altro canto, qualora egli si senta pronto a riprendere il ricovero e in tale proposito sia supportato dall’équipe inviante, ci saranno molte più probabilità che tale decisione sia mantenuta nel tempo.

Il mantenimento della relazione con l’équipe inviante consente al paziente di non associare un passaggio evolutivo, rappresentato dall’inizio di un nuovo trattamento, ad una perdita delle relazioni significative, che, nel caso in cui si realizzasse, gli confermerebbe che il nuovo precorso è svantaggioso, inducendolo a non intraprenderlo.

Dividiamo le funzioni dell’inviante in relazione alla fase del trattamento residenziale riabilitativo: prima dell’ingresso in residenza (tab.3), durante la permanenza nel setting residenziale (tab. 4) e alla dimissione dal trattamento residenziale (tab. 5).

Tabella 3

Tabella 4

Tabella 5

Nella tab. 6. vengono sintetizzate le strategie per costruire e mantenere un rapporto sinergico con i colleghi della residenza.

Tabella 6


Conclusioni

Il cambio di paradigma nella riabilitazione mette la persona al centro con i propri desideri e bisogni, e avvalendosi di un approccio bio-psico-sociale lo ascolta e cerca di capire la condizione di disagio. La possibilità di riprendere una prospettiva di sviluppo, di esercitare ruoli utili e validi, di scegliere e di dirigere la propria vita permette alla persona di avere una vita più funzionale e dignitosa. Nell’ottica di una riabilitazione evidence based i fattori ambientali sono una parte determinante del funzionamento. Le buone prassi per il Trattamento psicosociale per disturbi in comorbidità psichiatrica con uso di sostanze nelle strutture residenziali per persone con disturbi mentali si pone in continuità con il “Modello organizzativo integrato casi complessi” in particolare per lo sviluppo dei percorsi interdisciplinari, multidimensionali e interservizi centrati sul destinatario.

Restano però ancora irrisolte una serie di criticità, scaturite dalla sperimentazione fatta nel DAISMDP di Ferrara: il problema della ritenzione nel trattamento, dalla facilità con la quale si torna alle abitudini precedenti, correlate all’uso di sostanze, e all’eventualità che emergano gradualmemte emozioni negative verso:

  • l'appropriatezza del trattamento;
  • la relazione terapeutica;
  • i vincoli del trattamento.

Inizialmente pieni di speranza, molti pazienti che fanno uso di sostanze cominciano a provare emozioni negative come delusioni e critiche riguardo al trattamento stesso. Alcuni atteggiamenti degli operatori sono percepiti come atti di ostilità, mancanza di interesse o addirittura rifiuto e producono emozioni negative nei confronti del clinico e viene da alcuni sviluppata una crescente avversione verso i vincoli del trattamento come dover restare nel setting residenziale, frequentare i trattamenti regolarmente o parlare di temi dolorosi. L'attivazione di emozioni negative porta a un secondo fattore che favorisce il «disimpegno», caratterizzato da atteggiamenti interferenti con la continuazione del trattamento, come Ostilità e scissione (disprezzo e l'idealizzazione nei confronti dell’équipe), Competenza apparente (tentativo del paziente di convincere l’équipe che i sintomi sono scomparsi e che i problemi sono stati risolti), Evitamento esperienziale (evitare di esporsi a sentimenti e ricordi dolorosi, che è una parte inevitabile del trattamento), Supporto insufficiente da parte del servizio inviante e dei familiari, Mancata responsabilità del paziente e complicità nel «disimpegno». Quest’ultima evenienza accade quando il coinvolgimento del paziente si indebolisce e i suoi genitori possono scusarlo piuttosto che stringere un'alleanza con l’équipe, come illustrato in questo esempio: «Hanno prescritto mia figlia un periodo di prova nella residenza di un mese. È stata una decisione troppo dura. Pensavo che i professionisti avrebbero capito che forse era la sua malattia il motivo per cui non si era presentata agli appuntamenti in ambulatorio... Lo sviluppo di nuove abitudini non avviene dall'oggi al domani».

Le emozioni negative e gli atteggiamenti che interferiscono con il trattamento lasciano il posto a comportamenti chiaramente indicativi di «disimpegno».

In questa terza fase, l'intensità delle emozioni sembra diminuire, ma questa apparente tregua in realtà preannuncia un imminente abbandono del trattamento residenziale.

Una quarta criticità è rappresentata dalla generalizzazione delle abilità nella vita reale, ossia da quanto i pazienti mantengono le abilità apprese nei programmi residenziali, una volta tornati nel loro ambiente. Questo è un problema cruciale di tutti i programmi riabilitativi, in quanto una volta dimessi, diversi fattori interferiscono con l’estinzione dell’abilità. Calo di motivazione, indebolimento dei supporti, difficoltà cognitive, riduzione della consapevolezza circa il proprio problema, rimozione delle conoscenze circa la genesi della propria comorbidità, stigma sociale, difficoltà a costruire un progetto di vita alternativo alle sostanze, mantenimento della sobrietà.

Per tali motivi è fondamentale che il progetto di vita venga costruito e sperimentato mesi prima delle dimissioni dalla residenza, che siano esaminati tutti i principali fattori di stress che i pazienti incontreranno nella loro vita reale, che rispetto a questi ultimi acquisiscano abilità di coping efficaci e che i supporti garantiti durante la permanenza residenziale (familiari, amici, case manager del servizio etc.) non vengano meno ma siano a loro volta sostenuti ed incoraggiati.


Note

Nota 1: Nel senso che la diagnosi non è un fattore che viene preso in considerazione per la selezione dei pazienti che parteciperanno al trattamento, quanto piuttosto il livello di motivazione e la gravità dei deficit cognitivi.


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