Volume 24 - 9 Settembre 2022

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Questioni di salute mentale in epoca COVID. L'esperienza del Servizio pubblico di salute mentale di Prato

Autori

Ricevuto il 01/02/22 – Accettato il 21/02/22



Riassunto

Partendo da una critica delle logiche comunicative (in quanto basate su un’attitudine bellicosa) e organizzative (in quanto centrate eccessivamente sulla risposta ospedaliera), il testo propone le opzioni strategiche e operative per i Servizi sanitari derivanti dalla prospettiva della salute mentale di comunità. In particolare, il testo si concentra sull’esperienza del Servizio di salute mentale di Prato, raccontando le iniziative e le attività progettate e avviate al fine di preservarne l’operatività territoriale nelle varie fasi dell’urgenza pandemica e rispondere agli specifici problemi psicologici e psichiatrici che ne sono seguiti.


Abstract

Starting by a criticism about the comunicative (being based on a warlike behavior) and organizational (being centered mainly on a hospital service) logic, the text offers the strategical and operative options for Health services resulting by the prospective of the community’s mental health.
In particular, the text focuses on the experience of the Prato’s Mental Health Service, sharing the initiatives and the designed activities, initiated to maintain the territorial operability in the various phases of the pandemic emergency and to respond to the specific psychological and psychiatric problems that have followed.


Pandemia, traumi collettivi e risposta sanitaria

La diffusione del SARS-COV-2 è stato un evento traumatico a livello individuale, ma soprattutto a livello collettivo. L’evento ha colto di sorpresa nonostante fosse già previsto e in qualche modo affrontato come ipotesi realistica nel mondo scientifico e politico-istituzionale. Quammen, nel suo ormai noto libro divulgativo Spillover (2014), descriveva l’impatto sanitario, economico e sociale di alcune epidemie prodotte da virus dotati di bene altra virulenza, seppure con una ridotta portata d’azione (Ebola, SARS). L’evento pandemico causato da un nuovo virus era dunque ampiamente previsto, ma mancava un’elaborazione culturale capace di fornire gli strumenti difensivi (interni ed esterni, psicorelazionali e socioistituzionali), per evitare la paralisi – il freezing, si potrebbe dire adottando termini psicotraumatici – che ha invece travolto scienziati e politici, organizzazioni scientifiche e istituzioni nazionali e internazionali, nei primi momenti dell’innesco epidemico. Questa mancata elaborazione si è potuta osservare, a posteriori, nelle incertezze e soprattutto nelle inerzie di istituzioni nazionali e internazionali che hanno consentito inizialmente la rapida diffusione globale del virus e determinato l’assenza di sistemi di protezione individuali (la Francia addirittura aveva appena finito di eliminare le scorte nazionali di mascherine poco prima dell’inizio della pandemia). Le vicende di Bergamo e della Lombardia possono ben evidenziare l’effetto traumatico (si dovrebbe dire politraumatico) della pandemia.

L’evolversi della crisi pandemica ha mostrato che non è nell’azione solitaria di un eroe culturale (uno scienziato solitario o una nazione solitaria) che si trova la risposta al virus ma nella collaborazione più larga possibile fra stati, istituzioni e ricercatori, capaci a loro volta di coinvolgere e rendere partecipi le comunità locali e virtuali nello sforzo collettivo. Si deve anzi sottolineare come nel concreto questa collaborazione sia stata sempre sottesa, in misura maggiore o minore, da interessi geopolitici o economico-commerciali mentre poteva essere migliore e quindi più efficace. Allo stesso modo non è stata sufficiente la collaborazione fra stati e fra istituzioni a livello internazionale (neanche se si considera l’ambito più limitato e formalmente definito dell’Unione Europea). Ogni Paese ha infatti affrontato l’emergenza in corso in base alle proprie capacità e approntando misure locali di protezione, prevenzione e cura, non tenendo conto della diffusività globale e delle varianti che attualmente scandiscono il decorso della pandemia, rimbalzando fra paesi – anche prossimi – che presentano differenziali anche consistenti fra la severità delle misure di contrasto.

L’atteggiamento collettivo, improntato al sospetto e alla bellicosità, si è inizialmente indirizzato verso il virus in sé, per poi dirigersi inesorabilmente verso altri presunti nemici. In alcuni casi questi nemici erano individuati seguendo le linee di faglia dei conflitti geopolitici globali, in altri invece quelle che articolano il rapporto con l’alterità: quella esterna (gli inglesi, i brasiliani, i nigeriani, e così via, responsabili individuati dell’ultima variante) e quella interna (migranti e marginali di vario tipo).

La storia della pandemia da COVID-19 ha mostrato che abbiamo bisogno di collaborazione, di scambi, di alleanze. In poche parole, non abbiamo bisogno di entrare in guerra (neanche con il virus a ben vedere), ma abbiamo bisogno di continuare e rafforzare la politica. Abbiamo bisogno di individuare amici e non nemici e di costruire alleanze (cfr. Cardamone, Da Prato, Zorzetto, 2020; R. Barone, M. Cirignotta, A. Volpe, 2021).

L’atteggiamento bellicoso ha mostrato un altro limite: ha provocato il riflesso difensivo dell’arroccamento. Seguendo questa logica, inizialmente, si è puntato a predisporre una risposta ospedaliera. Si pensava in questo modo di concentrare le risorse difensive nel luogo tecnologicamente più dotato, ottenendo di fatto l’effetto opposto, tanto che sono stati, almeno inizialmente, proprio gli ospedali (vedi Bergamo e Codogno), a rappresentare i luoghi di contagio e diffusione del virus. In realtà si è poi visto chele prime risposte difensive, dotate di ampia efficacia e ampiamente disponibili, sono il distanziamento, le mascherine e l’igiene delle mani.

Adottare una risposta politica al virus (cioè una risposta basata sulla costruzione di alleanze), avrebbe portato invece, e ancora deve portare, ad adottare una risposta territoriale e decentrata: “anti-concentrazionaria” si potrebbe dire. Una risposta basata sulla promozione locale delle responsabilità individuali, collettive e istituzionali nei confronti della salute collettiva, attraverso l’alleanza fra enti locali, servizi territoriali, operatori sociosanitari e comunità.

Il SAR-CoV-2 provoca una malattia sistemica che può condurre a morte, soprattutto se presenti fattori di rischio quali età, concomitanti patologie respiratorie, cardiache, vascolari e metaboliche. Ma non solo, è stato capace di colpire il sistema sanitario nella sua capacità di rispondere ai bisogni di salute generale della popolazione e più in generale ha profondamente modificato le abituali regole di convivenza e socializzazione innescando riflessi politici peculiari.

L’insipienza progettuale, l’impreparazione operativa o lo stato dei processi decisionali dei sistemi statali (autoritari e democratici) hanno permesso alle specifiche modalità di esistenza di questo virus di mettere in crisi il funzionamento e la funzionalità dei sistemi istituzionali (sanitari in particolare) e la vita associata degli esseri umani, in tutti i suoi aspetti: relazioni amorose, familiari e amicali, relazioni produttive ed economiche, relazioni di cura, relazioni politiche.

Esiste a questo riguardo un altro versante problematico dell’adozione di un assetto guerrafondaio. Si tratta della conseguenza di una simile postura aggressiva sul soggetto collettivo stesso chiamato ad assumerla. Essere in guerra, materialmente e/o metaforicamente, vuol dire apprestarsi collettivamente ad agire in una certa maniera e predispone specifiche modalità emotive e cognitive a livello individuale e collettivo. La postura mentale da “stato di guerra”, protratto se non permanente, corre il grande rischio di ridursi ad una trasformazione degli assetti mentali, sociali, culturali e politici della popolazione in guerra, nel senso di una gerarchizzazione dei rapporti e dell’esaltazione dell’atto di parola unilaterale (comando), solo apparentemente più efficiente ed efficace nel rispondere alla minaccia, soprattutto alzando lo sguardo oltre l’orizzonte temporale immediato.

La risposta al coronavirus non richiede altri mezzi rispetto alla politica. Al contrario richiede un sovrappiù di politica locale e globale. Ciò significa che occorre passare da un atteggiamento bellicoso e dall’uso di metafore conseguenti (entrambi tesi contro il nemico), ad un atteggiamento politico con le conseguenti metafore tese a ricercare l’amicizia: e cioè le alleanze (locali e globali) e il coordinamento di intenti e di azioni in vista di un fine comune. Riteniamo che l’attività politica di costruzione di alleanze sia il bene primario da promuovere per preservare la salute mentale collettiva e individuale. La politica, da questo punto di vista, costituisce anche il mezzo per ritrovare un’identità, individuale e collettiva, capace di essere dialogante e aperta. In questo modo ci sembra possibile contrastare gli effetti della perturbazione virale che ci ha così profondamente scosso.

Passare da una reazione bellicosa ad una strategia politica di risposta al SARS-CoV-2 significa anche cambiare il registro emotivo e la strategia comunicativa adottati a livello sociale.

Occorre notare infatti che le logiche emotive e comunicative prevalenti hanno ulteriormente stimolato un sentimento di unità nazionale sempre pronto a sconfinare in afflato nazionalista, esagerando in modo idealizzante oltretutto un eroismo sanitario che più semplicemente traduceva lo spirito di servizio pubblico (spesso vilipeso in passato). Monitorando i circuiti virtuali durante la quarantena di primavera, si è assistito al mutamento della valenza di balconi e finestre da luoghi dell’incontro “a distanza” attraverso cui celebrare l’unità nazionale alimentata dalle più svariate musiche, a luoghi del controllo e della delazione dell’altro. Progressivamente questo capovolgimento di valenza ha finito per coinvolgere anche la professione sanitaria e, più in generale le scienze, deformate artatamente come funzioni subalterne o addirittura il motore ideologico di un ipotetico governo marziale dell’esistente. Occorre anche qui riprendere pazientemente una funzione di cura dell’umano capace di restituire alle professioni sanitarie e alle scienze la loro funzione essenziale nell’ambito di una politica partecipata di difesa e promozione della salute.


Scenari globali della salute mentale

I giornali e gli organismi di informazione hanno riportato costantemente le ricerche e le analisi compiute a livello nazionale e internazionale concernenti l’impatto della pandemia (diffusione virale, misure biopolitiche ed effetti socioeconomici) sulla salute mentale a livello di popolazione.

Molta risonanza sugli organi di stampa ha avuto una ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) intitolata “The impact of COVID-19 on mental, neurological and substance use services: results of a rapidassessment”. La ricerca è stata condotta fra il giugno e l’agosto 2020 ed ha valutato l’impatto della pandemia sui servizi di salute mentale in 130 paesi aderenti. I risultati mostrano come nella quasi totalità dei casi il contesto pandemico abbia prodotto una drastica riduzione delle prestazioni sanitarie, se non una più o meno totale chiusura dei servizi. Nel rapporto le interruzioni delle prestazioni in salute mentale sono imputate, da un lato, a fattori relativi alla domanda (riduzione dell’accesso degli utenti ai servizi per una serie di fattori reali, emotivi o di percezione: difficoltà percepite o reali di movimento durante il lockdown, timori di uscire di casa, ecc.), dall’altro, a fattori relativi all’offerta (cancellazione della possibilità di usufruire di determinate prestazioni sanitarie, ridistribuzione del personale nei reparti COVID, insufficiente dotazione tecnologica per svolgere prestazioni a distanza, insufficienti dotazioni di strumenti di protezione, ecc.).

Il rapporto illustra anche le principali strategie utilizzate a livello internazionale per evitare o almeno contenere la riduzione o l’interruzione dei servizi in salute mentale. Tra queste:

  • passaggio dalle consultazioni in presenza al teleconsulto, istituzione di linee telefoniche per il supporto psicosociale e il controllo psichiatrico,
  • misure di prevenzione della diffusione virale nei servizi di salute mentale,
  • interventi di auto-aiuto psicologico in formato digitale,
  • selezione delle priorità in funzione della gravità dei problemi di salute mentale,
  • formazione al supporto psicosociale per gli operatori sanitari COVID-19,
  • dimissione o ridistribuzione dei pazienti per alleviare il peso sulle strutture (es. SPDC),
  • acquisizione di nuove risorse umane.

Complessivamente l’OMS, così come altri organismi nazionali e internazionali hanno segnalato la necessità di inserire la salute mentale nelle strategie emergenziali di risposta alla pandemia.


Il lavoro del Servizio di Salute Mentale di Prato

In questa sede ci sembra importante condividere quanto promosso dall’Unità Funzionale Complessa Salute Mentale Adulti di Prato al fine di far fronte alla specifica dinamica pandemica del nostro territorio nel corso del tempo: dal primo lockdown alle successive ondate di diffusione virale.

Gli obiettivi che si è cercato di perseguire sono stati:

  • assicurare la continuità terapeutica, assistenziale e riabilitativa del Servizio
  • garantire la salute degli operatori del Servizio e delle persone che accedono ai locali del Servizio
  • contribuire alla tenuta complessiva del Sistema Sanitario locale
  • rispondere alle specifiche esigenze di salute mentale derivanti dal conteso pandemico

Sono state programmate e messe in atto tutta una serie di azioni al fine di perseguire gli obiettivi prefissati.

In primo luogo, è stato redatto un annesso al regolamento del Servizio di Salute Mentale con le indicazioni organizzative ed operative specifiche da adottare nel corso dell’emergenza pandemica (dall’uso dei dispositivi, alle regole di utilizzo dei vari luoghi dell’attività terapeutico-assistenziale, alle indicazioni sulle possibilità e sulle modalità di erogazione delle prestazioni).

In secondo luogo, si è provveduto all’adeguamento del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) alle esigenze di contrasto della diffusione del Covid-19 anche con protocolli operativi specifici.

Particolare impegno, inoltre, è stato profuso al fine di mantenere una costante attenzione ed un supporto continuo alle persone inserite nelle strutture residenziali, semiresidenziali e dell’abitare supportato. È stato attuato un monitoraggio costante delle procedure e delle situazioni specifiche delle strutture convenzionate.

Soprattutto, infine, è stato compiuto uno sforzo per dare risposte nuove ai bisogni di salute mentale emergenti e per comprendere gli effetti a breve e medio-lungo termine del contesto pandemico. Sul piano operativo sono stati attivati diverse tipologie di intervento psicologico in favore di target specifici. Già nella prima fase della pandemia è stato attivato da parte della nostra Unità Funzionale un supporto telefonico a favore degli operatori territoriali e delle RSA. Sempre il nostro servizio ha successivamente reso disponibili dei gruppi di defusing per gli operatori del Pronto Soccorso dell’Ospedale Santo Stefano. Nei confronti della popolazione generale sono stati predisposti dagli psicologi del Servizio interventi di supporto e psicoterapia nei confronti delle persone che hanno sperimentato lutti correlati al COVID-19 ed è stato sostenuto il servizio di supporto telefonico offerto dalle Scuole di Psicoterapia di Prato.

Sul piano della comprensione degli effetti del SARS-COV-2, è stata pensata e realizzata una ricerca multicentrica sugli effetti psicopatologici del contesto pandemico. La ricerca è stata approvata dal Comitato etico dell’Azienda USL Toscana Centro ed è attualmente in corso. La ricerca è condotta in partenariato con un Servizio di Salute Mentale di Milano e con quello di Caltagirone. Lo studio ha coinvolto un campione di oltre 450 soggetti che si sono rivolti presso i servizi di salute mentale sopracitati richiedendo una prima visita. Le dimensioni indagate sono quella depressiva, quella ansiosa e quella post-traumatica. La scelta delle tre dimensioni è in linea con quanto riscontrato dalla letteratura internazionale in precedenti emergenze infettive e disastri ecologici. Nelle prime fasi dell’emergenza compaiono, in uno stato d’animo di ansia e di allerta, risposte comportamentali con valenze anche positive di coinvolgimento sociale e sacrificio personale in un contesto spesso paragonato a quello bellico; quando termina la fase “luna di miele” e la società si scontra con la complessità del fenomeno e il gravare dei suoi effetti in termini di salute e di costi sociali si passa sovente ad una posizione di ritiro depressivo.

Infine, è stato presentato il «Progetto di ricerca-azione sulle trasformazioni prodotte dal COVID-19 nelle comunità e nelle culture locali e creazione multidisciplinare e partecipata del nuovo servizio di salute mentale comunitario e democratico» nell’ambito del Bando di Ricerca COVID-19 Toscana. Il progetto è stato valutato come finanziabile dall’apposita commissione della Regione Toscana, ma purtroppo non è rientrato fra quelli effettivamente finanziati.

Alla luce della strategia attuata sin dall’avvio pandemico, è possibile mettere in evidenza quanto osservato sino ad oggi.

Durante il primo lockdown iniziato a marzo 2020, si è registrata una riduzione delle prestazioni ambulatoriali e soprattutto riabilitative. Questa riduzione è dipesa da diversi fattori: a) riduzione della domanda dovuta alle limitazioni agli spostamenti (benché sempre permessi per motivi di salute, i timori soggettivi e le difficoltà oggettive hanno avuto un effetto di scoraggiamento della propensione a recarsi al Servizio); b) difficoltà nell’erogazione di alcune prestazioni a carattere gruppale; c) limiti tecnologici nel passaggio al teleconsulto (ad esempio, ridotta disponibilità di videocamere per le teleconferenze; indisponibilità di una specifica piattaforma capace di garantire standard adeguati di privacy); d) problemi logistici e di spazio del servizio e dei locali a disposizione (soprattutto per attività di gruppo, riunioni, ecc.); e) insufficiente adeguamento delle generali indicazioni di prevenzione e contrasto alla diffusione del virus rispetto alla specifica organizzazione spaziale e funzionale del Servizio.

Nonostante queste limitazioni, il Servizio di Salute Mentale ha potuto assicurare una serie di attività: assistenza in emergenza/urgenza in SPDC; assistenza ambulatoriale per le situazioni critiche e per la continuità terapeutica (es., terapie long acting); supporto e monitoraggio dei pazienti tramite telefonate periodiche da parte degli operatori; teleconsulto (tramite videochiamate con strumenti anche personali degli operatori); monitoraggio degli utenti che prima della pandemia beneficiavano di un inserimento nei Centri Diurni; monitoraggio della situazione dei pazienti nelle strutture residenziali, semiresidenziali e dell’abitare supportato.

Nella seconda metà del 2020, si è assistito ad una rapida e progressiva ripresa della normale operatività con solo alcune lievi limitazioni in alcune attività interne (limiti nelle riunioni in presenza, attività formativa in modalità videoconferenza, ecc.) e verso l’utenza (maggiori vincoli nelle attività di gruppo e riabilitative che comunque hanno ripreso una quasi completa funzionalità).

Questo “ritorno alla normalità” è stato consentito dall’insieme di misure sopra specificate e che sono state definite e attivate essenzialmente dalla metà di ottobre in poi.

È da sottolineare che ancora nei primi giorni di ottobre, con la nuova ondata pandemica, si sono verificati alcuni casi ravvicinati fra gli operatori del Servizio di Salute Mentale territoriale. Tuttavia, una volta predisposte e attivate le misure preventive opportune, non si sono più presentati nuovi casi di operatori affetti da COVID-19.

Durante tutto il 2021 abbiamo assistito ad una lenta e faticosa ripresa dall’emergenza sanitaria dell’anno precedente, grazie alle misure di contenimento (mascherine, distanziamento) e grazie all’avvio della campagna vaccinale. In questi giorni, tuttavia, la quarta ondata pandemica sostenuta dalla variante Omicron è tornata a ricordarci quanto il fenomeno sia costantemente dipendente da dinamiche globali. Gli ospedali si trovano di nuovo sotto pressione e nuovi sforzi di ricerca sembrano necessari sul fronte della risposta vaccinale. Parallelamente è sempre più evidente la necessità di prendersi cura della salute mentale collettiva delle popolazioni afflitte da distorsioni percettive della funzione sanitaria e delle scienze e avvinte da conflitti fra fazioni belligeranti.

La minaccia virale sta mostrando sempre più la sua capacità di influenzare, e per certi versi modificare in modo duraturo, le vite di tutti e la vita di ciascuno. Il virus ha infatti prodotto effetti negativi sull’economia individuale e familiare, oltre che su quelle nazionali e globali; ha modificato la socialità: cioè le nostre relazioni e le nostre abitudini quotidiane; non di rado ha colpito gli affetti. Queste tre condizioni hanno modificato lo stato della nostra salute mentale individuale e collettiva, diffondendo paura, risentimento e diffidenza.


Conclusioni

Col progredire della crisi pandemica e della nostra comprensione di questo fenomeno, abbiamo ri-compreso alcune cose (Fioritti et al., 2021). Le abbiamo cioè comprese di nuovo, perché già le sapevamo, essendo alla base dell’organizzazione (almeno iniziale) del nostro Sistema Sanitario Nazionale.

La pandemia ha ribadito come la salute dei singoli si fondi su quella collettiva e da questa sia garantita (e si potrebbe dire sulla salute globale, come il rimbalzo delle varianti fra paesi in “fasi pandemiche” diverse rende evidenti). D’altra parte non c’è salute collettiva senza responsabilità individuale. Rispondere ai bisogni di salute individuale e collettiva non può limitarsi ad un’azione ospedaliera. Anzi, il livello ospedaliero è forse il meno adatto quando le risposte di cura non implicano strumentazioni ingombranti e ipertecnologiche e si fondano essenzialmente su comportamenti individuali e collettivi. Oltretutto, l’accentramento ospedaliero comporta sempre il rischio di produrre concentrazione biologica: umana e virale. In queste condizioni pandemiche, al contrario, è opportuno e auspicabile che le risposte di cura siano anche, e soprattutto, decentrate e attuate “ai margini”: cioè, sul territorio. Per questo è importante ricentrare le strategie di salute sui servizi territoriali, moltiplicandone le sedi (in modo che diventino facilmente accessibili) e reintegrandone gli organici.

La pandemia ha anche reso cogente l’importanza degli obiettivi di salute mentale individuale e collettiva nelle strategie di salute pubblica. Agire per la promozione della salute mentale a livello territoriale significa, operativamente, non solo offrire dei servizi adeguati dal punto di vista delle strutture, degli organici e delle competenze tecniche. Significa anche coinvolgere e interagire con la comunità, o meglio con i molteplici gruppi (familiari e sociali; istituzionali, associativi e informali) in cui il concetto di comunità si declina e diventa attore vivo e vitale del territorio.

A questo livello, un compito centrale della salute pubblica diventa anche la promozione di una comunicazione adeguata, ovvero scientificamente valida, espressa in un registro linguistico fruibile su larga scala e con toni sobri. Il ricorso al sensazionalismo da un lato funziona come cassa di risonanza per le ansie e le fobie dei cittadini peggiorando il loro stato emotivo, dall’altro li deresponsabilizza sollevandoli dal dovere di informarsi in modo corretto e di costruirsi un’opinione sul problema. Dalla dimensione della riflessione razionale si passa a quella dell’emotività incontrollata, se vogliamo da attivi si diventa passivi. Il diritto a un’informazione responsabile è quindi uno strumento di salute che la comunità deve esigere ma anche impegnarsi a tutelare attraverso la scelta di canali (mediatici, sociali, sanitari) adeguati.


Bibliografia

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