Volume 24 - 9 Settembre 2022

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Un nodo di parole: normalità, stigma, diversità

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Ricevuto il 28/07/22 – Accettato il 5/08/22



Riassunto

L’articolo che segue si propone di analizzare il binomio concettuale normale/patologico e come esso si declina in una molteplicità di esseri umani mediante processi di normalizzazione. Tali processi producono, inevitabilmente, “scarti umani” e, con essi, stigma, stereotipi, pregiudizi. Gli “scarti” possono introiettare l’“anormalità” o rispondere con forza alla spinta omologatrice dei “normali”, creando nuovi paradigmi della diversità. È il caso del movimento per la neurodiversità, secondo il quale le differenze neurologiche sono ordinarie variazioni del genoma umano.


Abstract

This paper aims to analyze the binomial concept of normal/pathological and how it is declined into multiple human beings through processes of normalization. Such processes produce, inevitably, "human rejects" and, with them, stigma, stereotypes, prejudices. The "rejects" can introject "abnormality" or respond forcefully to the homogenizing thrust of the "normals," creating new paradigms of diversity. Such is the case with the neurodiversity movement, which argues diverse neurological conditions are the result of normal variations in the human genome.


1.1 Forme di umanità

[514a] […] Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da Fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da [b] poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. […] - Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti [c] di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre [515a] figure di pietra e di legno, […] credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? […] E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? [..] Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?
Platone, Libro VII de La Repubblica


In una delle sue più famose allegorie sulla conoscenza umana, Platone illustra la fallacia dell’opinione, mostrando il labile confine che separa la realtà dalla sua immaginazione (eikasía).

L’insegnamento platonico – secondo il quale non possiamo considerare come ovvie le nostre categorie di conoscenza, altrimenti rischieremmo di scambiare delle semplici ombre per veri oggetti – è alla base dell’Antropologia, disciplina che spinge a riconsiderare non solo ciò che pensiamo di conoscere, ma anche i termini con cui conosciamo (1).

Come i prigionieri della caverna, possiamo osservare ciò che ci circonda solo da un determinato punto di vista: il nostro sguardo è “orientato”, governato da categorie ed esperienze offerte dalla cultura in cui siamo immersi. Sin dalla nascita assimiliamo, per vie consce e inconsce, un complesso sistema di riferimenti che influenza le modalità con cui osserviamo le realtà esterne, quando non arriva addirittura al punto di metterci nell’impossibilità di scorgere alcunché (2). In altre parole, l’essere umano non può sottrarsi al lavoro di plasmazione della cultura che, ogni giorno, lo fa diventare un certo particolare tipo di uomo (antropo-poiesi). La cultura è dunque il legame tra ciò che gli uomini sono intrinsecamente capaci di diventare e ciò che in effetti diventano nella loro specificità (3). Ne consegue che non esiste un’unica e stabile forma di umanità, bensì le sue forme particolari, caratterizzate da progetti antropo-poietici distinti (4).

Sia che la società riconosca e includa la diversità (sistema pluralistico), sia che la neghi ed escluda (sistema totalitario), essa non sarà mai capace di contemplare tutte le differenze. Ogni forma di umanità è, infatti, soltanto una possibilità tra tante altre e – giacché la costruzione implica un assemblare, ma anche un separare – le operazioni di “antropo-poiesi” produrranno, come sottoprodotto, un numero di alterità più o meno consistenti (5).

Da tale prospettiva segue che l’Altro non è soltanto la persona che appartiene a una cultura diversa, ma anche l’individuo della stessa cultura che, per scelta o accidente, è radicalmente differente (6).

Questo altro, violando le regole della società, le rende evidenti. Al contrario, quando le aspettative sono soddisfatte, le regole scompaiono sullo sfondo della vita sociale, diventando quasi invisibili.

In Occidente l’individuo anormale si è costituito a partire da tre figure: il monstrum umano, colui che rappresenta una violazione delle leggi di Dio e della società (es., ermafrodito); l’individuo che infrange le regole sociali e deve essere corretto; infine, l’onanista infantile, espressione dell’irregolarità sessuale. Da queste figure storiche l’anormale ha ereditato, rispettivamente, la mostruosità, la correggibilità e la causa esplicativa delle peggiori anomalie (7).


1.2 Processo di normalizzazione

Normale significa perpendicolare e deriva da norma, termine latino che traduce squadra, ciò che serve a rendere dritto. Produrre normalità, normalizzare, vuol dire raddrizzare ciò che è deviato o storto, ciò che resiste all’applicazione di una regola (8). La norma è, di conseguenza, sempre legata a una tecnica di intervento, trasformazione e correzione, ovvero a un progetto normativo. Tutte le società hanno creato ruoli e luoghi deputati a produrre la normalità e a neutralizzare l’anormalità, avvertita come forza contraria al lavoro di costruzione e di ordinamento della cultura (9). In Occidente il potere di normalizzazione (produttivo e inventivo piuttosto che repressivo) si ispira a due grandi modelli di controllo dell’anormalità: l’esclusione dei lebbrosi dalla comunità, pratica sociale che comportava l’allontanamento, il rifiuto e il disconoscimento dei malati (distinzione della popolazione in due gruppi e marginalizzazione di uno di essi); l’inclusione degli appestati, con cui invece si circoscriveva un determinato territorio per poi procedere a una classificazione degli individui e alla loro sorveglianza permanente (suddivisione per piccole differenze e osservazione). Come ha spiegato Foucault, il passaggio da un modello all’altro corrisponde all’invenzione delle tecnologie positive di potere, alla normalizzazione, che ha prodotto i suoi effetti soprattutto negli ambiti dell’educazione (con le scuole normali) e della medicina (con gli ospedali). A partire dal XIX secolo, i due modelli di esclusione e inclusione si sono fusi nel modello disciplinare. Quest’ultimo, comunque si presenti, risulta sempre ispirato da due istanze: la divisione binaria (il normale e l’anormale) e l’imposizione della “norma” con i meccanismi che la regolano.


1.3 Distinzione tra normale e patologico

Se il bisogno di istituire norme è condiviso dalle diverse culture, il confine tra normalità e anormalità varia, tuttavia, da contesto a contesto.

Già nel 1934 una serie di casi etnografici dimostrava come ciò che era ritenuto anormale dalla cultura occidentale costituiva invece la struttura portante di altre società. Per esempio, i Kwakiutl della costa pacifica settentrionale del Nord America sarebbero stati ritenuti patologicamente megalomani da un osservatore esterno: durante i potlatch o in occasione di particolari eventi, quali la nascita o il matrimonio di un figlio, si autoesaltavano senza ritegno e denigravano gli avversari per consolidare il proprio prestigio; inoltre, alla morte di un parente reagivano togliendo la vita a un’altra persona, sebbene totalmente estranea al lutto (10).

Il giudizio di normalità o anormalità è anche legato al periodo storico. Per esempio, nel caso di una persona che si senta “influenzata” da un’altra, il tratto patologico risiede nel fatto che il suo dramma psichico individuale è inattuale e inautentico rispetto al suo ambiente culturale, non potendo essere riscattato da tradizioni accettate e accreditate pubblicamente. Un caso di tali tradizioni è rappresentato dall’istituto della fattura e della controfattura, che costituiva l’orizzonte rappresentativo nel quale la crisi di un contadino lucano del secolo scorso avrebbe trovato il suo momento di arresto, configurazione e reintegrazione culturale (11).

Tracciare il confine tra normale e anormale non è nemmeno possibile ricorrendo alla teoria dell’adattamento dell’individuo alla società, per cui il comportamento deviante diventerebbe l’incapacità di assumere norme e regole di una cultura. Ciò significherebbe, infatti, negare l’esistenza di società talmente malate da dover essere proprio malati per adattarvisi (12). Per esempio, nel processo che lo vedeva imputato per crimini contro l’umanità, il funzionario nazista Adolf Eichmann appariva come una persona normale, “banale”, dedita al lavoro, in cerca di una promozione, soddisfatta di riordinare numeri, anche se non astratti ma riferiti a persone da sterminare (13).

Dagli esempi precedenti si ricava che ogni società stabilisce una soglia tra normalità e anormalità, la quale si evolve a seconda delle configurazioni che ciascuna di esse assume nel tempo. Collegato a tale soglia è il grado di tolleranza nei confronti delle deviazioni: scelto un particolare modello di normalità, la comunità ordina e raggruppa ciò che è coerente e ciò che non lo è rispetto al tipo ideale prestabilito. Ciò produce un effetto iterativo (looping effect): le persone classificate in un certo modo modificano i propri comportamenti, i quali a loro volta influenzano le stesse classificazioni in un’interattività circolare tra categorizzazioni scientifiche e catalogazioni sociologiche. Vengono così creati determinati tipi di persone (making up people) che, in un certo senso, non esistevano prima (14).


1.4 Stereotipi, pregiudizi, stigma e identità

Come si ricava dall’etimologia del termine (stereos=rigido; typos=impronta), lo stereotipo è un’immagine, grossolana e rigida, in grado di riprodurre il pregiudizio (giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati empirici) riferito a persone o gruppi sociali (15).

Stereotipi e pregiudizi possono tradursi in comportamenti discriminatori e stigma. Nella Grecia antica, quest’ultimo indicava i segni, incisi con il coltello o impressi a fuoco, sul corpo di uno schiavo, di un traditore o di una persona da evitare. Ancora oggi indica una caratteristica individuale in grado di focalizzare l’attenzione degli osservatori e di alienare la persona. Lo stigma costituisce una frattura tra l’identità sociale virtuale (quella che discende dalle attese e pretese dell’osservatore e, dunque, dai suoi stereotipi e pregiudizi) e l’identità sociale attualizzata della persona osservata (la categoria che è legittimo assegnarle). Quando tale frattura è evidente o conosciuta, finisce per deformare l’identità sociale dello stigmatizzato, che spesso impara a interiorizzare il punto di vista degli altri. Lo stigma, perciò, non riguarda tanto un insieme di individui concreti, quanto piuttosto un processo sociale complesso in cui il normale e lo stigmatizzato sono prospettive che si producono in virtù di regole concordate per quanto, spesso, implicite (16).

Queste prospettive rendono nettamente demarcata la linea di separazione tra “normali” e “anormali”, mentre attenuano le differenze tra questi ultimi, sebbene molto eterogenei.

Nella cultura occidentale, per esempio, sono raggruppati in una stessa categoria (disabili) coloro che hanno perso un arto in un incidente e quelli che soffrono di un ritardo intellettivo. Ciò è stato possibile perché siamo in un contesto in cui il valore di una persona è misurato soprattutto in base alla sua capacità di produzione. Il disabile è, di conseguenza, considerato un individuo “non utile” di cui la società deve farsi “carico”, nel tentativo di renderlo autonomo (o quasi). Il presupposto di questa visione è che i normali non abbiano bisogno di nessuno e che l’autonomia sia sempre possibile e certamente desiderabile. In altre parole, il disabile – a cui la medicina non può offrire una risposta in termini di guarigione, ma di gestione dell’abilità diminuita o perduta – dovrebbe volere ciò che la norma gli dice di desiderare ed essere grato dell’attenzione della società, accettando di comprimere la sua singolare complessità per rendere visibile soltanto la sua etichetta di anormale (17).


1.5 Nuovi paradigmi della diversità

Molte comunità di disabili rifiutano le etichette mediche e “resistono” al controllo degli esperti e delle istituzioni, creando a loro volta nuovi esperti e nuove istituzioni sulla base dell’idea “niente su di noi senza di noi”.

È il caso del movimento per la neurodiversità, secondo il quale le differenze e i deficit neurologici e cognitivi, in particolare quelli che caratterizzano lo spettro autistico, sono aspetti universali della variabilità degli esseri umani. Neurodiversità significa, perciò, “variazione nel funzionamento neurocognitivo”, un concetto ampio che include tutti: sia le persone neurodivergenti (quelle con una condizione che rende il loro funzionamento neurocognitivo significativamente diverso da un range “normale”) sia le persone neurotipiche (quelle che rientrano in quel range).

In tale prospettiva, le diversità sarebbero patologiche e disabilitanti solo quando è l’ambiente a renderle tali. Un approccio basato su un modello medico “puro” presuppone, invece, che siano i “sintomi” dell’individuo (comportamenti o tratti) a causare direttamente disfunzioni o disabilità e lavora per interrompere questa relazione lineare, prevenendo o curando la condizione.

Il termine “neurodiversità” è stato coniato nel 1998 da Judy Singer, una scienziata sociale australiana con tratti autistici. Il movimento per la neurodiversità è nato, invece, qualche anno prima, a seguito della pubblicazione, nel 1993, del saggio breve di Jim Sinclair “Don’t Mourn for Us”, considerato dagli attivisti il loro manifesto. Tra gli anni ‘80 e ‘90 erano apparse, nel mondo di lingua inglese, le prime storie sull’autismo che proponevano una “visione dall’interno” (es., le opere di Temple Grandin e Donna Williams). Tuttavia, nessuna autobiografia suggeriva che un bambino con quella diagnosi fosse qualcosa di diverso da una disgrazia per le famiglie. Sinclair, invece, contestava il presupposto culturale secondo il quale si doveva essere necessariamente “normale” per rendere felici i propri genitori. Rifiutava anche l’uso del “Person First Language”, che pone la persona prima di una diagnosi, descrivendo quali condizioni un individuo “ha” piuttosto che affermare cosa quell’individuo “è” (18). “Persona con autismo”, invece di “persona autistica”, era per Sinclair un’espressione insensata perché l’autismo non può essere separato dalla persona, essendone una parte costitutiva ed essenziale (molto più di altre caratteristiche per le quali si utilizzano, senza difficoltà, definizioni quali: persona italiana, cattolica, ecc.).

Dal 1993 il movimento per la neurodiversità ha anche avviato un processo di advocacy per orientare l’opinione pubblica e le politiche, giungendo persino a creare una lobby di pressione per perfezionare e migliorare i criteri diagnostici del DSM-5. Si tratta di un evento storicamente significativo perché, se è vero che già altre comunità avevano conseguito con successo l’eliminazione di una diagnosi (per es., omosessualità) o l’inclusione di un’altra (es., disturbo da stress post-traumatico), nessuno era ancora riuscito a influenzare i criteri diagnostici della comunità medica.


BIBLIOGRAFIA

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