Dimensioni psicopatologiche e vissuto soggettivo nell’uso di sostanze: un’ipotesi di lavoro
Autori
1 Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università di Firenze
2 S.O.D. Psichiatria, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze
* Contatto: Dott. Giulio D’Anna
Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze
Largo Brambilla, 3 – 50134 Firenze
Mail:
Dichiarazione sul conflitto di interessi
Gli autori dichiarano l’assenza di conflitti di interessi circa il presente lavoro.
Ricevuto il 4 novembre 2021 – Accettato il 20 novembre 2021
Riassunto
Una percentuale rilevante di utenti dei servizi psichiatrici fa uso di sostanze. Tuttavia, la valutazione di questo aspetto rischia di essere principalmente orientata a definire la competenza di intervento specialistico (psichiatrico o tossicologico), nonché di portare a una banalizzazione clinica dove le manifestazioni psicopatologiche sono ricondotte alla proprietà intrinseche delle sostanze intossicanti, soprattutto nell’acuzie.
Di contro, un’indagine psicopatologica dimensionale potrebbe far luce su putativi fattori biopsicosociali che sostengono l’uso della sostanza, sulle modalità di impiego della stessa, e sul significato attribuitovi da parte del paziente: ciò costituirebbe una preziosa fonte di informazione sul disturbo psichiatrico di base (spesso un disturbo di personalità), e in senso lato sulla sofferenza della persona. Ad esempio, l’individuazione di diverse forme di craving (e quindi di ricerca della sostanza) e l’analisi di dimensioni correlate a condotte a rischio (quali disregolazione emotiva, impulsività, ricerca di stati di eccitamento o lenimento di una condizione di sofferenza preesistente) possono migliorare la comprensione dei vissuti del paziente (anche quando non sia stata chiaramente formulata una richiesta di aiuto ai sanitari), e permettere di condividere con questo un’ipotesi sul significato dell’uso della sostanza.
Tale valutazione può poi tradursi nella scelta di interventi psicoterapici e/o farmacologici capaci di incidere sulle aree psicopatologiche coinvolte, e quindi sull’assunzione della sostanza. Inoltre, rendendo dignità al vissuto del paziente, un’indagine accurata e un dialogo non stigmatizzante sull’uso di sostanze possono migliorare l’alleanza terapeutica e mettere la persona al centro del percorso di cura, evitando il rischio di un atteggiamento deresponsabilizzante per il paziente e di un’impostazione semplificatoria dove il focus sulla sostanza e sul ciclo di intossicazione-astinenza dominano l’orizzonte terapeutico.
Abstract
Substance use is common among the patients of mental health facilities. However, the evaluation of this aspect appears to be mostly aimed at defining the need to plan a toxicological rather than a psychiatric intervention, and it leads to a clinical oversimplification in which psychopathology is seen as a consequence of the intrinsic properties of intoxicating drugs, especially in acute episodes of illness.
Conversely, a dimensional psychopathological investigation may shed light on putative biopsychosocial factors underlying substance use, on the modes of drug consumption, and on its perceived meaning in patients’ perspective: this would represent a valuable source of information on the underlying psychiatric disorder (often a personality disorder), and on the associated distress. For instance, the characterisation of different forms of craving (and, therefore, of the drug-seeking conduct), together with the assessment of psychopathological areas relevant to at-risk behaviour (such as emotion dysregulation, impulsiveness, the pursuit of manic states, or the management of pre-extant suffering) may improve the understanding of patients’ subjective experience, and it allows to share a hypothesis on the meaning of substance use.
This evaluation may help in the choice of targeted psychotherapy or pharmacological interventions which address the involved psychopathological areas and the substance use itself. Moreover, by giving value to patients’ experience, a thorough investigation and a non-stigmatising dialogue on substance use may improve therapeutic alliance and put the patient at the centre of the intervention, thus avoiding the risk of discharging patients of their active role, and the risk of giving excessive importance to the substance itself and to the sequential phases of intoxication and abstinence – which become too often the most highlighted aspects of the therapeutic setting.
1. Una classificazione semplice per una clinica complessa
L’uso problematico di sostanze, illecite o di prescrizione, risulta piuttosto frequente tra gli utenti dei servizi di salute mentale, riguardando fino ad un terzo dei soggetti che richiedono un ricovero specialistico [1]. Tuttavia, il suo inquadramento risulta per molti versi non esauriente e di limitata utilità a causa di fattori culturali e legati all’organizzazione dei servizi [2].
Nel corso degli anni, il rapporto tra utilizzo di sostanze e disturbo psichiatrico è stato variamente concettualizzato in termini di secondarietà dell’uno o dell’altro, ma più in generale è stata ammessa la possibilità di una coesistenza delle due condizioni (la cosiddetta “doppia diagnosi”). Tale visione rischia tuttavia di produrre una “giustapposizione di disturbi” spesso clinicamente infondata, che oltretutto esime i curanti dal riflettere sull’interdipendenza e sulla frequente unitarietà dei due fenomeni nella pianificazione dell’assistenza. Tale visione frammentaria è avvalorata non solo dalla corrente nosografia, ma anche da una consolidata prassi assistenziale in cui l’organizzazione dei servizi sanitari di Psichiatria e Tossicologia rischia di generare un senso di “duplicazione del disturbo” [3]. Di contro, l’erogazione di cure altamente integrate e coerenti può aumentare la qualità della presa in carico [4] e intercettare la realtà individuale dell’utente, che verosimilmente si sente portatore di un unico problema – per quanto articolato [2].
Il rischio di una semplificazione indebita dell’uso di sostanze viene anche dal DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) [5], dove è stata abolita la distinzione tra abuso e dipendenza, collocando la gravità di un generico “disturbo da uso” di una determinata sostanza lungo un continuum basato su un gruppo eterogeneo di criteri fisiologici, psicologici e comportamentali privi di gerarchia – così da produrre un’omologazione diagnostica di utenti profondamente diversi tra loro.
Nel manuale però vi è un ulteriore elemento di novità, potenzialmente generativo: l’introduzione del criterio del craving, definibile come un intenso desiderio di assumere una determinata sostanza. Ciò che è peculiare di questo criterio rispetto agli altri, è che il suo sussistere è compatibile con la remissione del disturbo [5]. In altre parole, si ammette che il craving possa essere presente indipendentemente dall’azione fisiologica della sostanza e dal corteo cognitivo, emotivo e comportamentale che configura il relativo disturbo. Tuttavia, negli ultimi anni la ricerca si è concentrata prevalentemente sulla neurobiologia del craving [6] piuttosto che su una sua “dissezione psicopatologica” centrata sull’individuo [7]. Per questo motivo, la spendibilità nella pratica clinica di questo costrutto rischia di essere modesta – soprattutto se presentato nella nota cornice ateoretica del DSM-5.
2. Allargare il campo: suggestioni per una pratica clinica poliedrica
Un approccio maggiormente integrato prevede l’applicazione del consolidato modello biopsicosociale all’uso di sostanze nel paziente psichiatrico, così da creare uno spazio di indagine per i fattori individuali ed ecologici che influenzano la condotta di utilizzo [8] e il disturbo psichiatrico stesso [9]. Questo permetterebbe di dare maggiore dignità clinica al craving inteso come innesco e guida rispetto al consumo di una sostanza.
Tra i fattori personali, la letteratura internazionale sta ad esempio evidenziando in modo crescente la presenza di stili di attaccamento insicuro o francamente disorganizzato in chi usa sostanze [10,11], creando un ponte – probabilmente percorribile nella pratica clinica – che coinvolga in primis la psicoterapia dei disturbi di personalità e dei relativi scompensi [12]. Riguardo i fattori sociali, una pletora di studi mostra come la disponibilità della sostanza e il contesto di utilizzo varino enormemente tra culture e sottoculture, ma anche come la stessa sostanza sembri avere un potenziale di dipendenza solo in parte mediato dalle proprietà farmacologiche [13] – e di questo dovranno tener conto anche i più convinti riduzionisti. A ponte tra i fattori individuali ed ambientali si trovano poi elementi interpersonali di mantenimento dell’uso [14] e di mancata cessazione dello stesso – come suggestivamente proposto nel concetto di “biopsychosocial entanglement” [11] – che rendono opportuno l’interfacciarsi sistematicamente con le risorse istituzionali e professionali di supporto sociale, nonché il valutare l’opportunità di moduli di psicoterapia interpersonale [15].
Quale che sia la cornice teorica di riferimento cui aderiscono – e già quanto appena accennato attinge da diverse impostazioni – i professionisti della salute mentale devono poi confrontarsi in misura crescente con la diffusione di nuove sostanze e di inediti pattern di utilizzo delle stesse. Infatti, la crescente disponibilità e la relativa accettabilità in alcuni contesti socioculturali delle sostanze d’abuso stimolanti, disinibenti o pro-dissociative hanno reso il fenomeno sempre più evidente sul piano delle emergenze comportamentali, ma hanno anche reso più complessi e sfaccettati i quadri psicopatologici associati – sia negli stati di intossicazione, che in quelli intercritici [16]. Questo sancisce un importante punto di discontinuità rispetto alla maggiore “prevedibilità clinica” correlata all’uso di oppioidi illeciti o di prescrizione, di alcol e di altri sedativi, e di conseguenza rende più spesso necessaria la valutazione psichiatrica urgente per stati di intossicazione o di astinenza.
In questo complesso quadro, la non rilevabilità ai normali screening tossicologici di numerose ed eterogenee sostanze circolanti come le novel psychoactive substances (NPS) [17], nonché la sopra accennata storica divisione di competenze e ruoli tra Psichiatria e Tossicologia – tuttora in divenire sul piano assistenziale e organizzativo – rischiano di generare un senso di impotenza terapeutica e una vasta “terra di nessuno” dove l’utente rischia di scomparire, salvo poi riaffiorare in Pronto Soccorso per un’emergenza comportamentale – contesto nel quale risulta difficile impostare una riflessione sui determinanti prossimali (e ottimisticamente distali) di tale evento.
Eppure, dietro la stessa emergenza comportamentale, via finale comune dell’accesso ai servizi, possono trovarsi quadri psicopatologici profondamente eterogenei. Questi meritano certamente una valutazione approfondita già in acuzie, compatibilmente con l’accessibilità del paziente alla valutazione ed i dati a disposizione. A nostro avviso, però, la suggestiva ipotesi della ricerca di un “significato d’uso” di una sostanza, spesso bollata come ingenua o di scarsa utilità, dovrebbe entrare a far parte di fruttuoso dialogo con l’utente già nell’immediato post-acuzie. Essendo tale significato per definizione personale, ascoltarlo senza interpretarlo rende il paziente un attivo portatore dei propri vissuti, e permette quindi di porre su un piano cooperativo le fasi precoci della relazione terapeutica e la pianificazione del progetto di cura (shared decision-making) [18]. Inoltre, permette di comunicare un senso di interesse per una condizione frequentemente soggetta a stigma e a dinamiche espulsive, così da restituire un senso di dignità all’utente [19] e generare quella che Fonagy chiama “fiducia epistemica” intesa come condivisione di narrazione e significati in un contesto psicoterapico [20].
3. Aspetti pratici
Senza la pretesa di essere esaustivi in questa sede, come tradurre operativamente queste suggestioni? Premettiamo che quanto detto dovrebbe iniziare nell’immediato post-acuzie, i.e. nelle fasi finali di un ricovero protratto in ambiente specialistico, o sin dalle prime valutazioni ambulatoriali. Soprattutto in principio, ciò ha uno scopo orientativo-conoscitivo e di genesi di un’alleanza terapeutica.
In primo luogo, riteniamo opportuno effettuare una valutazione psichiatrica che dia particolare importanza all’indagine dimensionale dei disturbi di personalità, poiché se è vero che le sostanze spesso mimano in modo più eclatante molti quadri dell’ex Asse I in acuto, è pur vero che la modulazione emotiva, cognitiva e comportamentale attraverso le sostanze si struttura spesso come coping disfunzionale nel corso del tempo, parallelamente all’attestarsi di caratteristiche di tratto, in particolare nei giovani adulti.
Un altro elemento nucleare nelle prime valutazioni dovrebbe essere l’analisi dell’ambiente e delle relazioni del paziente, con una specifica attenzione alle sostanze impiegate: la discussione esplicita con l’utente di fattori come la reperibilità della sostanza nell’ambiente di vita, la tipologia d’uso (p.e. sociale-ricreazionale o solitaria-criptica), nonché l’accettabilità del consumo nel contesto sociale di riferimento, sono solo alcuni esempi di informazioni dirimenti sullo stile di utilizzo e sul rapporto con la psicopatologia di base – che, ripetiamo, comprende frequentemente tratti di personalità disfunzionali. Si noti che attraverso la curiosità per il contenitore sociale e per le abitudini di vita dell’utente si può effettuare una ricostruzione indiretta di quantità, qualità, tempi e contesto di utilizzo di una sostanza d’abuso: in questo modo si evita di banalizzare il riscontro di una positività alle sostanze, e si arriva spesso a desumere, chiedendo poi conferma al paziente, l’entità dell’impiego senza la necessità di effettuare un’indagine diretta che può suonare facilmente inquisitoria.
Già in questa fase suggeriamo che sia avviata una valutazione multiprofessionale e multidisciplinare modulata sui bisogni dell’utente, e che la dualità di un eventuale intervento psichiatrico e tossicologico sia associata alla esplicita restituzione congiunta di un’immagine integrata e integrante della sofferenza del paziente. In pratica riteniamo utile che quest’ultimo incontri contemporaneamente, in almeno un’occasione, le diverse professionalità mediche coinvolte, così da illustrare – al riparo da ambiguità e contraddizioni – competenze e limiti dei rispettivi interventi, precisando che il problema individuale è gestito da più figure professionali per caratteristiche organizzative dei servizi. La presenza eventuale di ulteriori operatori sanitari potrà contribuire a diluire questa dicotomia e ad evitare triangolazioni disfunzionali di significato incidentale o francamente manipolatorio, nella speranza che in futuro vengano a costituirsi équipes multidisciplinari [2,4]. In ogni caso, il gruppo curante dovrà poi riunirsi periodicamente per condividere lo sviluppo del progetto terapeutico.
A stretto giro, una volta che siano stati chiariti questi elementi che potremmo definire “architettonici” (presenza di un disturbo psichiatrico e/o di tratti di personalità disfunzionali che entrano in relazione con l’uso della sostanza; caratterizzazione del microambiente relazionale, sociale e culturale dell’utente; definizione dell’équipe e discussione esplicita delle rispettive competenze), dovrebbe essere scelta per il paziente una figura di riferimento. Questa, auspicabilmente ma non necessariamente con una formazione di tipo psicoterapico, dovrebbe avviare un dialogo longitudinale sul significato e sui modi d’uso della sostanza, con il fine implicito di rinforzare l’alleanza terapeutica e condividere il progetto di cura [18-20]. Assimilabile alla figura del case manager, costui userà la riflessione sull’uso della sostanza come strumento relazionale e di condivisione del significato della sofferenza e quindi delle implicazioni terapeutiche: per essere generativo, il dialogo dovrebbe pertanto incentrarsi sugli aspetti discrepanti, egodistonici dell’impiego delle sostanze.
Tale indagine può avvenire mediante colloquio libero o con l’ausilio di scale psicometriche indaganti dimensioni psicopatologiche transnosografiche implicate nelle condotte a rischio – uso di sostanze incluso. Tra queste spiccano a nostro avviso la disregolazione emotiva (Difficulties in Emotion Regulation Scale [21]), l’impulsività (UPPS Impulsive Behavior Scale [22]) e la vulnerabilità alla dissociazione (Dissociative Experiences Scale [23]). Queste dimensioni hanno componenti di tratto e di stato, pertanto possono essere informative anche nel contesto di un follow-up longitudinale che copra sia un ciclo di intossicazione-astinenza (incluso l’evento di primo accesso, quando possibile), sia la fase intercritica (idealmente in un setting ambulatoriale post-acuzie).
Ulteriore ausilio psicometrico è l’uso di una scala che caratterizzi la spinta all’uso di una sostanza, come nel caso del Craving Typology Questionnaire [24]. Questo, inizialmente proposto per l’uso di alcol, descrive tre dimensioni del craving: reward craving, relief craving, obsessive craving. Si tratta di elementi profondamente diversi tra loro, ipoteticamente estendibili non solo al consumo di altre sostanze, ma anche alle dipendenze comportamentali: al primo può afferire il sensation seeking; al secondo uno stile autoterapico che può essere anche iatrogeno (si pensi all’uso di nicotina, che lenisce gli effetti extrapiramidali dei neurolettici ed accelera il metabolismo di alcuni di essi); al terzo una serie di condizioni in cui una specifica mediazione cognitiva è meno ovvia ma verosimilmente significativa [25]. Definire simili punti cardinali va a costituire una “bussola psicopatologica” clinicamente preziosa di cui lo psichiatra è per formazione la figura più idonea a supervisionare una lettura che orienti i successivi interventi psicoterapici e farmacologici.
Attraverso questi passaggi, il paziente sconosciuto ai servizi e che sia positivo allo screening urinario per stimolanti potrà più facilmente essere colto nella sua complessità, che spazia dal declinarsi di una grave depressione atipica con uso autoterapico e verosimilmente egodistonico della sostanza, alla ricerca della maniacalità in una diatesi bipolare in fase di deflessione timica, passando per condotte di omologazione sociale che possono preludere a episodi dell’umore gravi in soggetti predisposti con facile accesso alle sostanze. Allo stesso modo, il misuso di sedativi come alcol e ansiolitici di prescrizione può placare l’ansia sociale (cfr. relief craving), agire da “solvente sociale” con finalità di sensation seeking e disinibizione, o lenire stati di disregolazione emotiva di vario significato (cfr. supra), ma anche esperienze terrifiche e angosciose che spesso non sono comunicate in modo esplicito dal paziente – come nel caso di esordi psicotici o di stati dissociativi (si pensi al disturbo di personalità borderline e al disturbo post-traumatico da stress). Ma di “buone ragioni per stare male”, per parafrasare impropriamente l’impostazione evoluzionistica di Randolph M. Nesse, ce ne sono di infinite e meno ovvie, fino al caso di un paziente con grave disturbo ossessivo compulsivo, positivo agli oppioidi al momento ricovero, che a domanda diretta comunicò di aver iniziato ad usarli come diversione di una terapia analgesica non tanto per gli “sgradevoli effetti psichici” (sic), quanto perché la stipsi da essi indotta, incidentalmente sperimentata, gli garantiva di non dover usare il bagno dell’ufficio in orario di lavoro – cosa che lo avrebbe esposto a un’esacerbazione delle ossessioni di contaminazione e dei rituali di pulizia. Di qui l’importanza di formulare sempre una richiesta esplicita di condivisione delle modalità di uso della sostanza e del significato attribuitovi. Difficilmente queste indagini appesantiscono la normale pratica clinica; di contro una loro sistematizzazione può agevolare la risoluzione di “enigmi psicopatologici” su cui farmaci e atteggiamenti prescrittivi o paternalistici hanno scarso potere.
4. Verso un intervento dimensionale
Ricapitolando, oltre agli elementi nucleari tipici di una valutazione multiprofessionale in salute mentale, esistono una serie di competenze che con vario livello di padronanza possono essere spese dagli operatori per caratterizzare l’uso di sostanze e le caratteristiche individuali sottese [4]. Tra queste spiccano la valutazione qualitativa e quantitativa delle modalità di assunzione della sostanza, la condivisione dialogica dei motivi riferiti dal paziente per l’uso della stessa, e la valutazione con ausilio di scale psicometriche di dimensioni transnosografiche di rilievo. Tutto ciò permette di rendere maggiormente “derivabile” un comportamento di cui si rischia di perdere lo straordinario potere informativo, e quindi decisionale [3].
Ad esempio, la presenza di alcune dimensioni psicopatologiche giustifica la proposta di precisi interventi psicoterapici, e non è un caso che l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR, nata per l’elaborazione di eventi traumatici e psicopatologia dissociativa) sia stata recentemente ritenuta in grado di incidere sull’uso di alcune sostanze [26]. Allo stesso modo, moduli di psicoterapia in soggetti già seguiti a livello individuale o gruppale per un disturbo di personalità possono agire in modo specifico sulla disregolazione emotiva [12], mentre interventi cognitivo-comportamentali possono favorire la remissione secondaria di quadri psicopatologici in cui l’uso di sostanza ha finalità autoterapica [27].
Sul fronte farmacologico, poiché le diverse classi di molecole mostrano proprietà marcatamente eterogenee a parità di indicazione clinica, sarà cura dello psichiatra prescrivere – non off-label, ma sulla base del disturbo psichiatrico primario – farmaci benefici sul profilo tossicologico (si pensi alle putative proprietà anti-craving di alcuni stabilizzanti dell’umore e antipsicotici), o quantomeno non dannosi (primum non nocere, come nel caso della disforia soggettiva indotta da alcuni neurolettici e di farmaci che generano acatisia o sedazione marcata, rischiando di innescare come reazione nell’utente una serie di comportamenti tossicofilici con fine autoterapico) [28-30]. Non si tratta di cadere nella pericolosa ed eticamente infondata pretesa di creare indicazioni psicoterapiche o farmacologiche precise per disturbi di fatto non codificati – rischiando di effettuare prescrizioni off-label e di proporre a spese dell’utente e del servizio sanitario terapie di efficacia non comprovata – quanto di incidere in modo più raffinato, dimensionale, su sfaccettature psicopatologiche non ulteriormente riducibili, pena la perdita dell’orizzonte di cura.
Riprendendo il principio gerarchico di Jaspers, l’uso di sostanze spesso è visto come una forma di “organicità” che scotomizza la possibilità di ogni riflessione psicopatologica, al punto da esonerare il clinico da un’approfondita valutazione in tal senso. Se questo è accettabile in acuto per intossicazioni che configurano un vero e proprio “psicoma” – che con buona approssimazione si può ritenere “esogeno”, estraneo alla personalità e al normale funzionamento dell’individuo – negli altri casi è più utile collocare in una prospettiva dimensionale i correlati biologici, psicologici e sociali che portano un individuo a usare sostanze. Questa collocazione “in parallelo” rende spazio al vissuto del paziente, crea la possibilità di una riflessione psicopatologicamente orientata, e permette di formulare un’ipotesi di intervento in un campo che, volente o nolente, vedrà la psichiatria sempre più coinvolta negli anni a venire.
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