Volume 23 - 10 Maggio 2022

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Con gli occhi della Psicolinguistica

Autrice

Ricevuto il 27 novembre 2021 – Accettato il 5 dicembre 2021



Riassunto

L’esecuzione, in quanto distinta dalla competenza, viene qui esplorata quale terreno di indagine della Psicolinguistica, focalizzando in particolare i processi messi in atto nel produrre e percepire le unità del linguaggio, compresi i disturbi, nella grammatica adulta, nello sviluppo del linguaggio in età evolutiva e nel decadimento nell’età anziana.


Abstract

The performance, as opposed to competence, is explored as the field of Psycholinguistics, focusing on the processes carried out when producing and perceiving linguistic units, including their disorders, with respect to the adult grammar, the evolution of children’s language and the linguistic decline in the elderly.



Partiamo dalla ormai nota distinzione chomskyana fra competenza ed esecuzione. Se la prima identifica il sistema innato di conoscenze - inconsce ed inaccessibili all’introspezione - che i soggetti di una medesima comunità condividono e grazie al quale sono in grado di parlare e capire la lingua in uso, l’esecuzione individua i processi effettivi che hanno luogo nella mente/cervello del parlante quando mette in atto tale competenza per produrre o capire parole, frasi e testi. La Linguistica intesa come studio scientifico del linguaggio si propone di elaborare ipotesi che possano configurarsi come un modello della competenza linguistica del parlante, mentre il terreno proprio della Psicolinguistica è quello dell’esecuzione e spazia dai processi in atto nei diversi comportamenti relativi al sistema grammaticale adulto a quelli che possono contraddistinguere lo sviluppo del linguaggio in età evolutiva, compreso i suoi disturbi, o il decadimento linguistico in età anziana.

Da questa indicazione generale segue naturalmente che molteplici sono gli approcci mediante i quali affrontare l’oggetto di studio, ma anche in sostanza definirlo; basti considerare ad esempio come un medesimo processo possa essere visto computazionalmente o neuralmente, dunque nel primo caso astraendo dal produttore gli enunciati prodotti e analizzandoli alla luce delle previsioni traibili dalla teoria linguistica praticata, nel secondo caso valutando sia la compatibilità che l’esplicabilità neuronale delle caratteristiche linguistiche osservate, vale a dire se e in che modo potrebbero essere trattate ‘dal cervello’ le regole che, secondo la teoria, governano l’ordine seriale degli elementi linguistici senza violare requisiti di adeguatezza neurofisiologica.

Resta inoltre sullo sfondo, nel momento in cui ci occupiamo dell’esecuzione, il rapporto fra il linguaggio in quanto strumento di comunicazione specifico degli esseri umani, e la formazione delle conoscenze o saperi che sono alla base della possibilità e capacità di trattare la relazione con la realtà, il mondo esterno e l’altro da sé. Anche qui le scelte teoriche possono variare a seconda della prominenza attribuita all’aspetto linguistico o a quello culturale, privilegiando ora una concezione strettamente biologica delle facoltà mentali, ora una concezione storico-culturale, ora, infine, tentando intersezioni sulla base di concetti quale quello di co-evoluzione.

Questa premessa, per quanto scarna, per alludere alla pluralità che si raccoglie sotto il termine Psicolinguistica. Lo sguardo che qui proporrò, dunque, è uno dei possibili, quello che ho praticato nel mio percorso di ricerca sui disturbi del linguaggio.

Per quanto riguarda l’età evolutiva, per capire quali possono essere i processi che ostacolano il pieno sviluppo delle capacità linguistiche, ritengo fondamentale guardare al disturbo con occhio in un certo senso diplopico: considerare le assenze ma anche le presenze. Intendo dire che nel delimitare il deficit, e dunque ciò che ‘manca’ nel processing linguistico ad esempio del bambino autistico, il focus per qualificare il disturbo è volto ad individuare i tratti che precisano la carenza rispetto al pari età mentale; ma nel farlo, occorre spostare il focus dai ‘vuoti’ ai ‘pieni’, vale a dire guardare alle presenze come a segnali non più di una carenza ma di una potenzialità che può preludere, se sollecitata, ad uno sviluppo.

Nel caso di A. (nota 1) ad esempio, uscendo dal periodo di chiusura intorno ai quattro anni, il bambino mostrava di progredire verso il linguaggio passando esclusivamente attraverso la riproduzione ecolalica, anche differita, di enunciati ascoltati, usati prima come vere e proprie formule fisse. La lingua si presentava con caratteristiche regolari dal punto di vista fonologico, lessicale e grammaticale ma era congelata nella difficoltà di organizzare nuove forme di risposta in relazione al mutare degli stimoli ambientali. L’effetto era naturalmente quello di un ventaglio limitato di espressioni fortemente ancorate alla situazione comunicativa originaria, e dunque sottoposte al rischio forte di incomprensione da parte dell’interlocutore perché il loro significato non era determinato dal contributo semantico delle singole parole, ma era piuttosto fissato dal ‘senso’ della scena in cui le frasi erano state primariamente fruite, e perciò spesso oscuro: era una sorta di idioletto, con una semantica globale e non analitica, definita dal contesto pragmatico. Valga come esempio “blu, voglio blu”, che per A. (9 anni) significa ‘aprire’, perché è la formula che egli usa di solito quando vuole che la madre gli apra la scatola, blu, dei biscotti, ma quando lo ha detto per farsi aprire la portiera dell’automobile nessuno lo ha capito. L’interessante è che successivamente questi enunciati fissi non sono solo aumentati in quantità, sono cominciati ad apparire nell’eloquio di A. scomposti nelle unità sintagmatiche componenti, poi diversamente ricomposte, dando così origine ad un tipo di eloquio che cominciava a diventare semanticamente sempre più adeguato e ad assomigliare ad un linguaggio creativo.

Nei casi più gravi certamente si tratta di segnali meno trasparenti, opacizzati o addirittura nascosti dalla rilevanza del disturbo, ed ancor più richiedono un mutamento di punto di vista: non più il confronto esclusivo col modello ‘normale’, e dunque la comparazione per sottrazione, ma l’assunzione del comportamento linguistico oggetto di studio come modello di riferimento, una sorta di ‘grammatica’ grezza, certo da scoprire nella processualità sottostante, ma da cui trarre indicazioni per radicarvi possibili progressioni: una potenzialità da sviluppare secondo una modalità (o sistema?) fatta intravedere dalla ‘grammatica’ del bambino stesso, e non quella imposta, se pur in buona fede, dall’esterno. Questo me lo ha insegnato I. che ho incontrato a 5 anni con un limitato inventario fonetico ed una estrema inconsistenza e variabilità delle produzioni orali, fatte soprattutto di griglie melodiche di accenti; solo l’ostinazione della sua psicologa aveva impedito che lo si considerasse ormai totalmente incapace di imparare a parlare. Il grave disturbo del linguaggio sia in produzione che in percezione si qualificava per un processing uditivo (più esattamente fonologico) fortemente compromesso, dove ogni input si presentava sempre come relativamente ‘nuovo’ e dunque resistente alla formazione di invarianze, con l’effetto di impedire il consolidarsi di una qualsiasi forma di parola. Ma sotto un eloquio che appariva come rumore privo di senso e veniva interpretato come emissioni vocali casuali o stereotipe si nascondevano indizi di una possibile apertura verso il linguaggio: intervalli temporali regolari, picchi di differente intensità, modelli accentuali forte-debole, raggruppamenti prosodici dei suoni prodotti, l’intonazione, tutti segnalavano la successione di eventi espressivi nel tempo. A partire da questo indizio - la ‘musicalità’ come protolinguaggio (nota 2) - fu iniziato un percorso che, intrecciando modalità differenti (uditiva, visiva e motoria), nel giro di tre anni portò I. a scoprire e praticare il segreto della nominazione e a dare senso a quegli strani suoni che per tanto tempo non aveva capito (nota 3).

In altri termini la teoria, tutto l’insieme di conoscenze sulle regole e i principi che governano il funzionamento del linguaggio e la sua acquisizione, resta il sottotraccia, a suggerire percorsi e tentativi che però vanno resi conformi alla grammatica grezza presentata dalla lingua del disturbo, adattati o trasformati al fine di ottenere progressioni, di conseguenza possono mettere in evidenza lacune o addirittura modifiche della teoria stessa. Dai due casi fin qui presentati, ad esempio, emerge la necessità di riconsiderare il ruolo da attribuire alla musicalità e alla riproduzione ecolalica nell’apprendimento del linguaggio anche per lo sviluppo regolare. Partendo dall’assunto di jakobsoniana memoria che gli stessi principi teorici devono rendere conto sia della patologia sia del funzionamento normale delle lingue, possiamo supporre che la processualità resa evidente dal disturbo del linguaggio possa essere nella sostanza ri-considerata come la processualità implicata in generale nel corso di acquisizione di una lingua nativa, riattualizzando concetti teorici come quello di imitazione e di riproduzione analogica di strutture, e formulando una idea di sistema che fonda la propria variabilità anche, se pur non solo, sull’eredità uditiva accumulata nel rapporto col linguaggio dell’altro, nel métissage fra lingua e memoria. Diverse sono le conseguenze di questo: innanzitutto assumere un continuum tra regolarità e disturbo porta a qualificare il secondo come diversità e non come devianza. Aggiornando queste suggestioni con le recenti acquisizioni nel campo delle neuroscienze, lo sguardo si estende a cogliere i nessi tra biologia e psicologia ritrovando una materialità dei corpi e delle relazioni che per vario tempo era stata accantonata nella ricerca linguistica. Il linguaggio, visto nel suo spessore di attività psichica, trova così le proprie basi nella struttura organica dell'essere vivente entro precise interazioni interno/esterno fra gli stimoli sensoriali e gli atti motori ad essi neuralmente connessi, di conseguenza nel suo studio un approccio interdisciplinare – alla confluenza fra linguistica, psicolinguistica neurolinguistica – si impone, un metodo di lavoro al crocevia di disciplinarietà differenti (nota 4).


Quanto abbiamo delineato per la lingua del disturbo in età evolutiva da un punto di vista metodologico vale anche per altri domini che possono estendersi ad abbracciare la dimensione della narrazione; pensiamo ad esempio al caso della lingua di R., oggetto di studio entro il progetto di Parole alate (https://www.chille.it/parole-alate/). In quei testi il fenomeno più appariscente è costituito dalla presenza di neoformazioni lessicali che sicuramente rispettano le regole di formazione di parola proprie della lingua italiana ma danno luogo a voci lessicali categorialmente riconoscibili ma semanticamente oscure (es. aggressimento, rismetazione (N), permatolosa, crematico (AGG), precandano, gratuire (V)). Parliamo di un significato oscuro piuttosto che di assenza di significato perché, se non possiamo essere certi che questi testi nascano da un’intenzione comunicativa, tuttavia non possiamo negare che un’intenzione elocutiva stia alla base del loro prodursi seppur in forma probabile di soliloquio. Pertanto non possiamo escludere di dover distinguere fra un significato oscuro per chi legge ed un significato invece comprensibile per chi ha prodotto il testo. Al di là della difficoltà di comprensione, i testi di R. sono testi intenzionali, e come tali sono guidati da un fuoco informativo, nel senso che sono volti a concentrare l’attenzione e l’interesse su specifici aspetti della realtà, descritti o denunciati (spesso si lancia in duri commenti politici). In questa dimensione c’è tutto un mondo che trova nella lingua di R. il vettore di accesso al significato, con tutte le sue sfumature di in/comprensibilità. Testi non più deliranti, dunque, ma significanti, i cui processi di significazione puntano ad andare oltre la norma e a dilatare le possibilità espressive della lingua. Nell’analisi delle neo-formazioni lessicali di R. si impone un livello di osservazione interno alla struttura del testo in cui quest’ultimo fa da contesto a se stesso nel definire le specificità, le tipicità, e le originalità di lingua in quanto sono le regolarità, sistematicità, ricorsività individuate ad offrire il terreno di verifica per indicare la non casualità delle scelte linguistiche operate; ad es. in R. la scelta di determinate parole derivate, come aggressimento al posto di aggressione, è volta ad esprimere caratteri aspettuali, di azione non perfettiva, di solito prerogativa dei verbi. Esiste dunque una significazione latente, via di accesso al mondo di R. in quel periodo, da ricostruire, ma perché non affondi nell’arbitrarietà deve trovare la propria sostenibilità nella grammatica che la lingua di quei testi permette di ricostruire.

Predomina la tendenza alla proliferazione morfologica e frasale per perseverazione delle medesime forme, ed è probabilmente questa modalità di espansione del testo a provocare talvolta variazioni nella suffissazione di morfemi radicali analoghi, come mostra sia l’insieme di percettudini, percettuzioni, percettazioni, percettuazioni, percettuale, sia il brano seguente (da La nascita sull’ostacolo), dove abbiamo evidenziato in grassetto la ricorsività morfematica:


Il potere è un essere acrobatico per chi adopera lo scioglimen[to] densale che propone un sistema partecipale che attrae le sofferenze del ripartimento comunale che si percuote le sociazioni p[…] lo stretto passaggio percorsale verso i pendii lungo la censura del ripartimento sindacale governale


Sono queste caratteristiche a far ritenere plausibile l’ipotesi che sia qui in atto un simbolismo morfologico. Si tratterebbe di una forma condensata di comportamento linguistico che consente il rilascio di tensione emotiva, certo in modo inconscio ma forse anche conscio. Nell’effetto ‘sonoro’ di questa concentrazione di energia il parlante trova sia la forma per dare espressione al proprio sé sia il ponte da gettare verso la società, o quantomeno il mondo esterno circostante. Di conseguenza la referenzialità potenziale della parola usata viene ad essere non solo ibridata ma anche fortemente condizionata da tale condensazione emotiva, implicando così una dissociazione dalla dimensione della regolarità linguistica cui invece il lettore/ascoltatore è fortemente ancorato.

Siamo di nuovo di fronte ad una materialità della lingua che mette in gioco relazioni dinamiche tra forma e sostanza in una molteplicità di intrecci che impegnano chi legge in un lavoro di ricostruzione, quasi di riscrittura, del testo ai fini della sua più esaustiva comprensione. L’elemento di soggettività che entra in ogni atto di lettura per i testi di R. può diventare rischiosamente eccessivo, ma l’unico antidoto è ancora una volta il rispetto del testo, alla ricerca di indizi di significazione e di tracce del contesto storico, culturale e sociale in cui è sorta quella scelta di scrittura. Il sistema su cui un testo costruisce la propria trama di significazione è formato da una pluralità, dove alla denotazione (il detto) si aggiunge quel segno di connotazione (l’inteso dire) che, non necessario alla comprensione linguistica, è però penetrato di un sapere ineguale a seconda dell’universo di conoscenze proprio di chi legge, delle sue ‘disposizioni’ a cogliere gli intrecci fra i differenti piani di costituzione del senso. Si tratta dell’interazione fra contesti, quello di scrittura e quello di lettura: dalla rete di relazioni fra i rispettivi saperi emergono i diversi livelli di significazione del testo. Tali contesti, inoltre, possono trovarsi in dimensioni spaziali e temporali assai differenti e quindi richiedere che il piano storico (e storico-culturale) si aggiunga a quello linguistico e semiotico per l’analisi del testo (ad es. ricostruire le letture che circolavano in via Frascati per R. e cosa succedeva in quegli anni che poteva sollecitare il suo interesse a scriverne). C’è dunque, infine, una responsabilità di lettura, per i testi di R. come per la lettura in generale: ritenere che nessuna parola e nessun enunciato siano casuali ma anzi il prodotto di una scelta da parte di chi ha scritto; di conseguenza chi legge è vincolato a cogliere, nel dispiegarsi linguistico del senso, le pulsioni, il pensiero e le idee su cui si è radicato quel progetto di tessitura testuale, al di là di ogni difficoltà di comprensione.


Note

1) Il bambino mi era stato presentato come un caso interessante di autismo, la diagnosi ipotizzata dalla neuropsichiatra era di Disturbo pervasivo dello sviluppo.

2) Il linguaggio, nel suo primo presentarsi come ritmo e melodia, nel suo essere preliminarmente soprattutto musicalità, si trova ad essere come incarnato negli stessi movimenti corporei, gestuali, che accompagnano l’enunciazione verbale tanto della madre quanto del bambino. Si tratta di trovare nel rapporto empatico con l’altro da sé, nelle emozioni, la chiave per dotare di significato il mondo, e dentro il mondo di attribuire significato ad un simbolico che può svilupparsi come linguaggio e come pensiero a partire da quella ‘narratività’ che, ai suoi primordi ontogenetici, è dotata di una semantica emozionale prima che referenziale (cfr. Trevarthen C., “Musicality ant the intrinsic motive pulse: evidence from human psychobiology and infant communication”, Musicae scientiae, special Issue “Rhythms, musical narrative, and the origins of human communication”, Liege, European Society for the Cognitive Sciences of music, 1999, pp. 157-213.

3) Cfr. Brandi L., “Linguaggio e comunicazione: dis/giunzioni autistiche”, Quaderni del Dipartimento di Linguistica, 15, 2005, pp. 169-192¸ Brandi L., Bigagli A., Mantovan M., Salvadori B., Simonetti C., “Disturbi del linguaggio nell’autismo: tipi clinico-linguistici”, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, vol. 74, n. 4 ott/dic 2007, pp. 731-748.

4) Cfr. Brandi L., “Dal rumore delle cose al mondo delle parole: le vie dello sviluppo lessicale nei primi anni di vita”, Il lessico nella teoria e nella storia linguistica, a cura di M. P. Marchese e A. Nocentini, Roma, Il Calamo, 2014, pp. 49-70.