Volume 21 - 18 Dicembre 2020

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Le difficoltà del lavoro psicologico in carcere.
Un contesto iatrogeno dal quale si può apprendere?

Autore

http://www.museothyssen.org/en/thyssen/ficha_obra/3
La chiave dei campi, Renè Magritte, 1936



Riassunto

L’articolo nasce dal desiderio di far uscire il carcere dalla posizione marginale nella quale è confinato e mettere in circolo riflessioni sulla salute mentale in un contesto così estremo, in quanto a relazioni con l’esterno. Al centro l’esperienza professionale soggettiva di una psicologa clinica: dall’ingresso in carcere, alla ricerca di una collocazione di senso, agli interrogativi sulla possibilità di portare un contributo specifico, all’uscita come scelta per ripensare un’identità professionale dello psicologo in un’istituzione totale. L’intento è quello di mettere a fuoco nodi problematici e proporre ipotesi migliorative sulle quali aprire un confronto.


Summary

The article originates from the desire to remove prison from its confined marginal position in which it is confined and spread reflections on mental health in such an extreme context, in terms of relations with the outside. At the center the subjective professional experience of a clinical psychologist: from the entrance to prison, to the research of a logical position, the questions about the chances of giving a specific contribution and the final outlet as a choice to rethink the professional identity of the psychologist in the context of a total institution. The intention is to focus on problematic issues and suggest improvement hypotheses from which open a comparison.


1. Premessa

Questo articolo prende avvio dal desiderio di riflettere sul contributo della psicologia in carcere, a partire da un’esperienza professionale soggettiva. Dunque passo direttamente alla prima persona e al punto di vista psicologico clinico, specifico della mia formazione. Con questo intendo un approccio basato sullo studio di sistemi umani individuali e collettivi, in termini di salute, che si avvicina alle disfunzioni per accoglierle, analizzarle e comprenderle, insieme alle persone coinvolte, per pensare a possibili evoluzioni. La psicologia clinica mi ha portato ad interessarmi di fenomeni sociali e in particolare di problemi di rapporto tra soggetti e loro contesti di vita.

Come libera professionista ho scelto di associare l'attività psicoterapica presso il mio studio con il lavoro psicologico in un'istituzione estrema, quale è il carcere.

Due mondi agli antipodi.

Due tipologie di utenti (etim. latina utens, participio presente di uti = usare), ovvero di coloro che usufruiscono di un servizio e/o di un'offerta di cura: in seguito ad una domanda di aiuto portata liberamente al professionista scelto, nel primo caso; in conseguenza all'arresto e alle procedure organizzative dell'istituto, nel secondo. Per lo più donne, borghesi, con livello culturale medio-alto e possibilità economiche, in studio; uomini, in gran parte di estrazione culturale bassa e provenienti da situazioni di marginalità sociale, in carcere.

In questo scritto mi soffermerò su quest’ultima esperienza professionale. Per un ampio spazio di tempo - da marzo 2014 a marzo 2020 – ho tenuto in mente i due ambiti di lavoro, che hanno fatto da controcanto l'uno all'altro.

Ciò mi ha dato la riprova di come il contesto sia una potente chiave di lettura di quanto succede nella situazione del colloquio clinico: ne influenza profondamente l’andamento, sia per l’utente che per lo psicologo. Segna percezioni, fantasie, emozioni di entrambi. Focalizzare l’attenzione sulla persona, su ciò che porta in quanto ad aspettative, su come si rappresenta la realtà in relazione ai propri bisogni, fa da antidoto al rischio di imprigionamento nei propri modelli disciplinari. L’autoreferenzialità è monoculare, riduce il campo visivo e le possibilità di comprendere gli eventi.

In carcere molte persone detenute non sanno nemmeno chi sia uno psicologo e perché debbano essere chiamati al colloquio, magari mentre fanno la doccia o giocano a calcio. Anche un operatore può trovarsi disorientato in un contesto estraniante quale quello carcerario.

Per di più una donna, psicologa dell’ASL, in un carcere maschile, a Pistoia, dove si aspettava lo psicologo da lungo tempo.

Io "nuova giunta" ad attivare un Servizio per "nuovi giunti", ovvero per coloro che giungono in carcere subito dopo l’arresto e devono - lo prevede il codice di diritto penitenziario - sostenere un colloquio psicologico, finalizzato alla valutazione del rischio suicidario, per di più in tempi molto stretti.

Dedico il primo anno ad organizzare il Presidio Nuovi Giunti ma, prima dello scadere del mio contratto, riesco a realizzare un progetto che dà compiutezza al mio mandato: un piccolo gruppo di detenuti con l’obiettivo di riflettere su di sé e di attivare scambi con gli altri, a partire dalle suggestioni di un film.

In un secondo anno, di rinnovo del contratto, cerco ancor più di evadere da una stanza che rischia di diventare un “colloquificio” per entrare nel cuore del funzionamento organizzativo. Predispongo uno spazio di gruppo dedicato agli agenti di polizia penitenziaria, in quanto sono i soggetti più a stretto contatto con la realtà del carcere. L’obiettivo è spostare l’accento dalle problematiche di rapporto con i detenuti per attivare un confronto sulle difficoltà della loro professione e di rapporto con l'area sanitaria, in particolare psicologica.

Esco dal carcere per circa due anni, partecipo ad una nuova selezione e rientro con destinazione a due Istituti limitrofi: Pistoia e Prato, diversissimi per dimensioni e tipologia, per certi versi complementari.

Questa volta riesco con ancor più difficoltà, ma con più esperienza alle spalle, a mettere in piedi, nel carcere di Pistoia, più piccolo e a misura d’uomo, un gruppo di detenuti sul fine pena. In altre parole attivo un accompagnamento al fuori, momento critico quanto l'ingresso, ma con pochi investimenti sia da parte delle istituzioni penitenziarie che di quelle sanitarie.

Pur avendo l'opportunità di proseguire, decido di lasciare il carcere, anche io, come i membri del gruppo che via via vengono scarcerati: troppi i vincoli professionali interni. L’idea è quella di esplorare, all’esterno, se sia possibile progettare qualcosa di efficace sul tema del reinserimento sociale.

Nell'ultimo anno, per completare il quadro, ho svolto sostituzioni presso il SerD interno al carcere di Prato. Cambio Servizio, cambio il rapporto con l’ASL, cambio istituto, ma la situazione professionale è ancor più critica in quanto a parcellizzazione di interventi. L'ulteriore elemento della dipendenza e della doppia diagnosi, in mancanza di un progetto organizzativo integrante e lungimirante, non fa che elevare il livello di conflittualità e di conseguente malessere tra operatori. Concludo il ciclo di sostituzioni e lascio il carcere proprio in concomitanza con il lockdown di marzo-maggio 2020.

Penso che in qualche modo anche il momento storico attuale, dominato dal covid-19 e da continue negoziazioni tra esigenze socio-sanitarie generali e libertà personali, mi abbia sollecitato a riflettere, a distanza di tempo, sull’esperienza di lavoro in carcere, superando reticenze nel condividere alcuni pensieri.


2. Lo Psicologo ASL in carcere

L'attività in un istituto penitenziario, per uno psicologo ASL, significa avere formalmente un'appartenenza all'Azienda Sanitaria. Nella quotidianità si trova in una posizione solitaria, a lavorare con contratti annuali libero professionali o come specialista ambulatoriale CUN (Convensioni Uniche Nazionali), con unica sede il carcere, mai presso la propria azienda. Il che significa, nell’operatività, disporre di un potere contrattuale molto debole con l’organizzazione penitenziaria.

Il carcere rappresenta un mondo a sé, anche per i percorsi della salute.

Capire chi sono i propri responsabili è la prima impresa per uno psicologo.

C'è un referente aziendale per l'assistenza sanitaria di comunità, in quanto un Istituto penitenziario fa parte del territorio; un dirigente medico dell'infermeria; un responsabile per la salute mentale in carcere; un dirigente ad hoc per il rischio suicidario vista l'alta frequenza del fenomeno; infine, in quei mesi, nasce una SOC (Struttura Organizzativa Complessa) per la riabilitazione di pazienti psichiatrici autori di reato con l'intento di costruire collegamenti inter-istituzionali.

Tutto cambia molto rapidamente e non appena si definisce un team dirigenziale, un'organizzazione del lavoro e un relativo protocollo ne entra in funzione un altro, che mette in discussione quello precedente. Data la difficoltà e la marginalità del contesto, il turn over, anche a livello dirigenziale è molto elevato.

Sembra per tutti - dirigenti, operatori e detenuti - un luogo di passaggio nel quale prevale la frammentazione sull'obiettivo comune dichiarato: rieducare e reinserire socialmente, dunque integrare con progetti che tengano nel tempo. Ciò che avviene appare, piuttosto, in linea con una struttura fatta di muri e cancelli, che funziona a compartimenti stagni, per aree e sezioni che poco o nulla comunicano tra di loro.

Ad uno sguardo più approfondito questo procedere per scissioni è tipico di una cultura riduzionistica e individualistica che, a tutt'oggi, appare trasversalmente dominante a livello della politica così come delle Istituzioni. Dunque governa anche l'Infermeria, a dimostrazione che l'area sanitaria non è un'isola a sé, come spesso si desidera.

Parlare di salute psichica in un contesto di privazione di libertà personali e di relazioni significative a fronte di una convivenza forzata in camere di detenzione (modo edulcorato di chiamare le celle nel linguaggio del Ministero della Giustizia) degradate e sovraffollate, appare una sfida al limite.

L'impostazione dell’attività dello Psicologo richiesta dall’organizzazione è di matrice strettamente medica, ovvero diretta al singolo, visto come portatore di un disagio personale, come se fosse fuori dal carcere.

La scissione tra persona detenuta e contesto è fortissima nella cultura restrittiva. La separatezza iniziale dalla società, si ritrova anche nella difficoltà dei detenuti di instaurare buone relazioni interne e in quella degli operatori a fare rete.

È un progetto, quello del lavoro psicologico, un po' tutto da costruire in un'ottica di complessità che tenga presente più livelli: da quello più immediato di relazione con i detenuti, a quello di facilitazione del rapporto tra le varie aree dell'organizzazione carceraria, a quello, forse ad oggi più carente, di dialogo con la stessa dirigenza sanitaria. All’interno del carcere sembra che l’organizzazione ASL evapori, perda di consistenza, d’identità e ciò può essere interpretato come un asservirsi, al di là delle intenzioni, all'organizzazione penitenziaria.

Ciò che manca è proprio una chiarificazione a monte, tra le parti, su cosa ci si aspetti che produca un servizio psicologico in carcere e quali siano, di conseguenza, le funzioni dello Psicologo che ne fa parte.

È necessario esplicitare, nei contesti dove si prendono decisioni organizzative, le cornici di riferimento teoriche e metodologiche utilizzate, confrontarsi su ciò che è possibile o non è possibile fare, altrimenti allo psicologo vengono inoltrate richieste d’intervento irrealistiche.

Così si trova a muoversi su sabbie mobili pericolose, con doppi mandati paralizzanti, messaggi confusivi, oggetti di lavoro ambigui, che alimentano il senso di impotenza e diventano addirittura controproducenti.

Ad esempio la prevenzione del rischio suicidario - prima richiesta stringente allo psicologo ASL - è un mandato, oltre che complesso, anche controverso. Non è chiaro a quale teoria si riferisca: se a principi di prevenzione in un ambito di salute intesa come benessere (concetto di matrice costruttivista) o in un ambito di sicurezza in senso stretto (evitamento dell'agito, in un’ottica comportamentista).

Se non si tiene vivo il confronto su cosa s'intenda per salute, per prevenzione e per rischio si vengono a creare smagliature nel sistema che lasciano spazio per il dis-controllo di impulsi aggressivi e, a volte, atti dimostrativi di singoli soggetti hanno epiloghi irreversibili.

I temi dell'autolesionismo e del suicidio sono potenti, rispetto ai vissuti che innescano negli operatori e potrebbero diventare una leva di approfondimento. Lo psicologo può fare tanto in termini di studio e di promozione di iniziative informative, formative e riflessive.


3. Un contesto deprimente

Ogni istituto penitenziario è un mondo a sé e tanto fa il direttore nel determinarne l'organizzazione, la cura dell’ambiente e il clima. Lavora a stretto contatto con il comandante della polizia penitenziaria, entrambi quasi sempre con una formazione giuridica, dipendono dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (DAP). Quanto stingere le maglie della sicurezza, rinforzare la struttura piramidale e alimentare l'impostazione militare, dipende molto dalle loro visioni del carcere e dalle reciproche sintonie.

Il tema del potere, di come vengono interpretati i ruoli di responsabilità è cruciale: se in senso autoritario o dialogico.

La responsabilità è assunta o scaricata? È vista solo come un peso o anche come un importante esercizio di discrezionalità? Che livello di corresponsabilità si può costruire tra le varie professioni?

Si chiede allo psicologo, con un unico colloquio d'ingresso, di indicare la miglior ubicazione nelle sezioni della persona in ingresso e quale sia il livello di sorveglianza che gli agenti debbano applicare (è differenziata in: grande, grandissima, a vista). Mentre, per contro, se non chiede espressamente al direttore di conoscere gli spazi di detenzione, può lavorare senza aver mai visto una camera, la cucina, la palestra, il cortile. Non viene coinvolto nella vita dell'Istituto, nemmeno per iniziative formali: la visita del prefetto, il pranzo di Natale preparato dai detenuti, il concerto di qualche gruppo musicale o la rappresentazione teatrale, esito del corso di teatro.

Ancora: perché l'area trattamentale sceglie con il direttore il tema della giungla per dipingere le pareti della stanza dei colloqui tra i detenuti e i loro familiari? Che messaggio si veicola? È solo una scelta estetica o può diventare un'occasione di confronto sul senso di ciò che si fa?

Se gli operatori della salute mentale vengono cooptati sui bisogni della sicurezza, indotti a prestazioni assistenziali o chiamati solo in caso di emergenze, il carcere continua ad essere, per loro, un contesto di poco appeal nelle scelte professionali.

Mi accorgo, scrivendo, come si parli più di bisogni “della sicurezza”, una funzione organizzativo-normativa, che “di sicurezza”, un bene del detenuto e del personale.

Paradossalmente il margine d'azione dello psicologo sulla costruzione di percorsi individuali o di gruppo finalizzati al prendersi cura delle persone detenute è molto stretto, così come la psicoterapia non è prevista neppure nel mandato della ASL.

Dunque la salute psicologica, in ambito penitenziario, è un argomento molto discusso nel dibattito culturale, ma poco investito in termini di risorse, di azioni e di gestione a livello della politica.

Ai confini delle città, fuori dalla vista, il carcere diventa un luogo spersonalizzante anche per gli operatori, una realtà, in un certo, senso straniante.

Lasciare la propria borsa e il proprio cellulare nell'armadietto della portineria, rappresenta un gesto di spoliazione, che può avvicinare operatori e detenuti. Date queste condizioni, diventa ancor più importante che per i primi siano previsti rinforzi istituzionali alle dimensioni professionali e aperture ri-ossigenanti verso l’esterno, per sostenere l’asimmetria.

Altrimenti, sconosciuto per lo più all'esperienza diretta dei cittadini e anche di addetti ai lavori (ci si laurea in giurisprudenza senza aver messo mai piede in un istituto penitenziario), il carcere rimane avvolto da un'aura cupa di mistero, che spesso sfocia in senso di minaccia e paura che alimenta chiusura e separatezza.

Anche l’intento di apertura del carcere al SNN, avviata nel 2008, rischia fortemente di essere fagocitata dal modello dell’istituzione totale. Infatti tale operazione non è ancora compiuta nella pratica e forse nelle menti delle persone (operatori e detenuti). Quella che per l’area sanitaria doveva essere un'opportunità per offrire prestazioni di qualità più elevata, coincidendo con la crisi finanziaria, in realtà si traduce in una perdita di potere economico e gestionale rientrando nei tagli di budget e nella conseguente riduzione di servizi offerti.

Le visite - nelle quali rientrano i colloqui psicologici - vengono conteggiate come singole prestazioni dal Centro Unico Prenotazioni. Se da una parte aumentano i numeri a favore dell'accreditamento dei Servizi, dall'altra si estremizza l’aspetto procedurale del lavoro psicologico all’interno e si appesantiscono ulteriormente le liste d'attesa della ASL, all’esterno, nelle quali rientrano anche i detenuti.

Per un dentista o un oculista bisogna aspettare almeno un anno, con la differenza che chi è in carcere non può accedere ad ambulatori privati, neppure convenzionati.

Ci si trova così, come psicologi, anche a svolgere colloqui "di sostegno" al mal di denti, o ci si adopera per problematiche inerenti l'organizzazione sanitaria, mentre un secondo colloquio d'ingresso è visto come un “di più” offerto al detenuto e un gruppo con obiettivo riflessivo non è contemplato tra le prestazioni psicologiche.

Le carceri, soprattutto quelle di grandi dimensioni, si confermano purtroppo come luoghi di incuria, rispetto alla quale sembra che non si possa fare niente, come se si fosse tutti imbrigliati da un contesto che, per una legge di assimilazione, livella verso il basso e imprigiona potenzialità evolutive.

La lotta per gli spazi, conosciuta in ambito sanitario per carenza di stanze a disposizione degli operatori, qui è estrema.

Anche l'ambiente spoglio, degradato, i cattivi odori, rimandano a dimensioni distruttive. L'aggressività appare, di fatto, un tratto dominante del funzionamento organizzativo che a volte sembra riprodurre il conflitto sociale sul quale l'istituzione penitenziaria ha il mandato di intervenire.

In conclusione, in assenza di un forte coordinamento centrale a livello dirigenziale tra DAP e ASL, sembrano ripetersi questioni divisive più che testimonianze di una possibile collaborazione costruttiva tra dimensioni diverse.

Contesto deprimente e uso del potere come forma prevalentemente di scollegamento, si alimentano reciprocamente.


4. Rifugio nell'appartenenza professionale o ritiro

Il potere agito, in termini di isolamento e controllo, prevale, dunque, su un potere pensato e condiviso come strumento di governo dei problemi, di coltivazione delle potenzialità.

Gli inevitabili conflitti che ne derivano, in un contesto rigido e blindato, si ripetono, fine a se stessi e innescano dinamiche difensive anch'esse estreme, che a volte si trasformano in veri e propri baluardi di resistenza. Si osservano - a livello di singoli operatori - ritiri, comportamenti evitanti o duelli corpo a corpo a suon di carte bollate, che decretano vincitori e perdenti. È facile appellarsi a dimensioni ideologiche fortemente legate all'appartenenza professionale più che al senso del lavoro e schierarsi per contrapposizioni, a rinforzo di identità deboli.

Un primo elemento distintivo è chi indossa una divisa e chi no.

Possederla, magari con un'arma d'ordinanza, rappresenta un aspetto molto significativo da un punto di vista simbolico. Gli agenti di polizia penitenziaria costituiscono, anche numericamente, la base del carcere.

I medici e gli infermieri indossano il camice, un altro tipo di divisa, possono somministrare medicine, spesso psicofarmaci, un’altra arma di non poco conto.

Gli psicologi e gli educatori (funzionari giuridico pedagogici nella lingua del Ministero della Giustizia), senza divisa, giocano la propria professionalità su elementi di setting e su competenze relazionali di non immediata visibilità.

Semplificazioni eccessive nella lettura del contesto possono portare all'idea di impliciti schieramenti: le forze dell'ordine contro i detenuti, gli psicologi e gli educatori dalla loro parte.

Nell'operatività si perde di vista l'integrità della persona carcerata e conseguentemente la possibilità di costruire un percorso capace di dare senso e prospettiva, valorizzando le diverse dimensioni che la caratterizzano e quindi anche la sua esperienza carceraria.

Allo stesso modo l'agire professionale procede per singole prestazioni e per singole aree (sicurezza, sanitaria, trattamentale), piuttosto che valorizzare e integrare le differenti competenze. Sentirsi parte di un progetto comune ed esplicito, riposizionerebbe il rapporto tra operatori diversi su un piano di reciprocità e darebbe più senso al lavoro.

Del resto le varie aree, per disposizioni di legge, hanno mandati che si sovrappongono e intersecano sempre più. Lo staff - riunione settimanale di tutti gli operatori – in quest’ottica, si realizzerebbe compiutamente come dispositivo per superare le contrapposizioni e assumersi corresponsabilità nelle scelte.

La costruzione di un gruppo di lavoro, piuttosto, è in fase iniziale.

Al momento prevale un funzionamento per adempimenti burocratici. L'ultima parola è sempre quella del magistrato, fuori di lì, in tribunale. Il direttore, responsabile della sicurezza interna, vive spesso il carcere come se fosse sotto assedio e l'assetto di difesa appare l'unico possibile nell’immediato. L’esasperata attenzione alle dimensioni normative e la perdita di vista del fine della risocializzazione, alimentano quest’assetto da arroccamento.

Il giudizio è il significante principale della vita dei detenuti (tanti di loro sono in custodia cautelare) e paradossalmente lo diventa anche per gli operatori, se vivono il contesto solo come insieme di regole per conformalo al codice di diritto penitenziario.

Se da un punto di vista legislativo, ideale, si parla di rieducazione e reinserimento sociale per i detenuti, di smilitarizzazione del Corpo di Polizia Penitenziaria per gli agenti, di autonomia per gli operatori sanitari, i concetti di salute e sicurezza applicati nell’operatività continuano ad essere frutto di semplificazioni e finiscono per garantire, in primo luogo, l'inattaccabilità degli enti d'appartenenza. L’attenzione si focalizza sul contenitore, più che sul contenuto e sul prodotto del lavoro di tante persone. Di fronte a questa richiesta implicita di spostamento del mandato professionale, ciascuno costruisce la propria divisa, che funge da protezione, per conservare anche solo un po' della propria identità.

Mi colpiva, a questo proposito, come gli agenti indossassero calzini colorati, diversissimi da quelli dati in dotazione o scarpe più comode per i propri piedi o, i più giovani, nascondessero un tatuaggio, insomma personalizzassero la propria divisa.

Questo a testimonianza dell'insopprimibilità delle dimensioni soggettive e di come la divisa rappresenti un'appartenenza professionale che fa da salvaguardia e omologa, ma può finire per cancellare l’unicità di ciascuno.

Il rischio, per diversificarsi, è scadere in rivendicazioni sindacali, ritirarsi negli ordini professionali e adeguarsi pedissequamente ai codici deontologici, l’aderire a società scientifiche settoriali che, nel frattempo, proliferano.

Per uno psicologo, dentro un'area sanitaria interna al carcere, ma fuori di fatto dal sistema più ampio della salute mentale, dunque con legami deboli a livello organizzativo, diventa pressoché impossibile svolgere la propria funzione specifica.

Come il sottotenente Drogo nel “Deserto dei tartari” di Buzzati si trova a fronteggiare un nemico ipotetico. Investire tutte le energie per presidiare comportamenti autolesivi e anticonservativi, messo che sia possibile, può dare un certo potere, consentire di assumere una divisa, ma, più profondamente significa coltivare illusioni.

La peculiarità dello psicologo clinico è piuttosto quella di mettersi in ascolto della realtà esterna e interna e aiutare gli altri a farlo, intercettare situazioni contestuali di disagio, analizzarle per arrivare alla radice di problemi e proporre interventi a più livelli, congruenti e realizzabili. Quando i fenomeni sono altamente complessi, ad origine multifattoriale, è utile lavorare "lateralmente", costruire rinforzi intorno alle risorse. Nello specifico contrastare l’aspetto deprimente e fagocitante del contesto con iniziative rivitalizzanti per sé e per gli altri. In altre parole generare possibilità, usare del potere in termini costruttivi.

Operatori mortificati professionalmente non possono essere di aiuto. L’esito, molto frequente, è che prima o poi la frustrazione professionale si esprima in un conflitto con le altre figure professionali, anche della stessa area, che paralizza l’operatività. Alternativa estrema è recedere dall'incarico.


5. Carcere e lockdown: due esperienze contigue

Diamo per assodato che, nell'emergenza, chiudere sia l'unica possibilità.

La clausura non scelta, in tempi di pandemia è stata individuata come miglior strategia per salvaguardare la salute fisica delle persone, soprattutto quelle più fragili e del sistema sanitario nel suo complesso.

In un certo senso possiamo vedere anche il carcere come uno strumento per bloccare escalation di pericolosità nella vita di persone e nella società, per evitare gravi “infezioni”.

Utilizzando l'esperienza del lockdown di marzo-maggio 2020 possiamo riflettere su come ci siamo sentiti, distanziati fisicamente/socialmente, chiusi nelle nostre vite. Su come siano emerse diversità enormi tra situazione e situazione all’interno delle case, anche quelle affacciate sul pianerottolo dello stesso condominio.

Dovevamo diventare tutti esseri migliori. Come se bastasse fermarsi per  sviluppare capacità introspettive e far nascere nuovi progetti; come se fosse possibile automaticamente trasformare un blocco in un'occasione.

Ci siamo accorti, piuttosto, quanto questo, che per certi versi può essere utilizzato come un esperimento di psicologia sociale, abbia fatto da lente d'ingrandimento su disfunzioni pre-esistenti di individui, gruppi e organizzazioni e contemporaneamente abbia messo in luce anche punti sui quali far forza.

È ciò che succede in carcere.

In situazioni di deprivazione sociale si alimenta frustrazione, si stressano i legami, fino anche a spezzarli, in altre parole si produce sofferenza.

Ci si può fermare a identificarla come patologia oppure può diventare una leva di cambiamento. Dipende da come si utilizza e dagli incontri che si fanno.

Penso si possano mettere in gioco risorse se si hanno già: se si sono interiorizzate buone relazioni e sicurezze affettive. Altrimenti, in casi meno fortunati, viene da chiedersi: si può crescere senza gli altri?

In assenza di supporti affettivi, di alternative visibili, nell'incertezza del futuro, più frequentemente ci si disorienta e deprime.

A livello dei singoli, con il lockdown, è aumentata la richiesta di psicofarmaci e d'aiuto ai servizi di salute mentale, proprio come in carcere. Il ritiro diventa una piaga sociale, reinserirsi nel lavoro e nelle relazioni un’operazione non facile.

A livello collettivo aumentano i conflitti, le fantasie di controllo da parte di poteri nascosti e gli scontri con le istituzioni.

Sovrapporre l’esperienza di carcere a quella del lockdown è eccessivo, ma forse possiamo cogliere una certa contiguità.

Lievito e farina, sono stati i prodotti preziosi e introvabili che siamo andati a ricercare sugli scaffali dei supermercati. Ingredienti base, insieme all'acqua, capaci di generare altro.

Il pane veniva prodotto e venduto ogni giorno, ma farlo in casa aveva assunto un significato simbolico. Come ricercare tradizioni culturali rassicuranti, assaporare i profumi familiari che escono dal nostro forno, ricordarsi che siamo ancora capaci di fare, e che poi, nelle differenze culturali, c'è un cibo che piace a tutti.

Nel produrre cibo sperimentiamo di essere autonomi e soprattutto vivi.

Il cucinare, anche in carcere, è spesso un punto di ripartenza.

Preparare da mangiare, all'interno delle camere, è un modo di recuperare autodeterminazione, come posizione psicologica tra dipendenza e indipendenza.

Ci si svincola dal carrello che distribuisce il cibo, sentito come non buono e portato in orari a favore dell’organizzazione, ma lontanissimi da quelli familiari. Un cibo uguale per tutti, che indifferenzia, mentre il cucinare in camera alimenta l’individuazione: si può ancora scegliere, un po' trasgredire (etim. latina trans gredi = andare oltre). Il contatto con il fuori, mantenuto a livello di immaginazione attraverso il preparare da mangiare, rappresenta un significativo elemento di protezione dalla spersonalizzazione che l’istituzione totale alimenta.

Mi ha sempre colpito come i detenuti riescano a fare torte margherite, usando gli armadietti come forni, più soffici di quelle delle mamme. Così come mi è rimasta in mente la follia organizzativa che mette a lavorare in cucina il detenuto marocchino, mussulmano, proprio nel mese del ramadan o come il peperoncino sia previsto nello spaccio interno, solo nelle dosi per preparare spaghetti aglio e olio all’italiana, mentre per gli africani, molto presenti, servono confezioni di ben altre dimensioni.

Al di là delle differenze culturali, cucinare è un atto universalmente significativo perché si prepara convivialità. A tavola le distanze si riducono, si è tutti intorno allo stesso tavolo, per lo stesso motivo.

Forse è proprio necessario ripartire da ingredienti base sui quali è cresciuta la nostra democrazia, su conquiste di solidarietà realizzate in tempi lunghi e archiviate, velocemente, come assodate. È necessario riprendere in mano autori e teorie che danno valore al pensiero dialogico, come antidoto ad una cultura, quella dominante, che ha fatto del controllo razionale la propria bandiera.

Senza circolazione di un po' di piacere, rimangono dimensioni punitive che sviliscono il potenziale umano. Questo lo abbiamo scoperto anche nel lockdown.

La paura, che inizialmente tiene vicini, lascia il posto alla rabbia distruttiva, che allontana e alla rassegnazione che cancella la speranza: il futuro è lasciato in mano al caso.

Disagio delle persone, malessere professionale degli operatori e disorientamento dei governanti vanno in corto circuito e generano situazioni iatrogene.

Mentre è possibile, in situazioni estreme, individuare ingredienti generativi, scongiurare il pericolo di un atteggiamento nichilista, scoprire il coraggio di riconoscere che c’è bisogno dell’altro e costruire, tra dipendenze e indipendenze, situazioni costruttive di inter-dipendenza, nelle quali si può produttivamente collocare l’intervento dello psicologo.


6. Una realtà immaginata che va oltre quella concreta

Il dipinto, in apertura, di René Magritte, pittore surrealista belga della prima metà del '900, ha accompagnato me e i detenuti nel lavoro in carcere.

L'ho scelto, comperato, concretamente appeso nella stanza dell'infermeria: ha abbellito l'ambiente e è diventato un’immagine sulla quale le persone potevano proiettare fantasie, utilizzarlo durante il colloquio clinico. Un elemento di novità portato da fuori, che ha superato i controlli e le reticenze, suscitato curiosità e anche facili ironie.

I vetri rotti sui quali sono riprodotti spezzoni del paesaggio retrostante servono, per me, a rappresentare la messa in dubbio di un rapporto concreto tra sé e la realtà, a favore delle emozioni, come grado più profondo e vero di comprensione dell'esistente, fuori dal controllo esercitato dalla ragione.

Quanto è possibile immaginare il fuori, da una condizione di reclusione?

I vetri rotti vanno raccolti e riparati o si può cambiare lo sguardo, andare oltre l’immediato e scoprire scenari, anche nella propria vita, che non si erano mai visti?

È necessario collegare il presente, che in carcere rischia di essere un tempo sospeso, con il passato e il futuro e ricollocare l'esperienza di detenzione nella propria storia. Guardare il fuori in modo meno distruttivo.

Le recidive del 75% ci danno un indice, invece, di come la detenzione non riesca a produrre persone migliori.

Gli inciampi nel proprio percorso di vita quasi mai si superano da soli, senza qualcuno che ci dia una mano a rialzarci. La funzione dello psicologo è quella di intercettare i segnali impliciti di richiesta d’aiuto e accoglierli. Del resto nessuno, che non sia troppo disturbato, può star bene in un ambiente ristretto.

L'obiettivo non è facilitare l'adattamento alla situazione di detenzione, ma accompagnare le persone a attraversare il disadattamento (al carcere ma anche alle regole della convivenza civile) per un nuovo progetto di vita fuori di lì.

Ciò che si può fare è lavorare con tutta una fascia intermedia di persone che non sono a rischio di suicidio, dipendenti da sostanze, né esprimono psicopatologie franche o comportamenti aberranti ma che, messe in condizioni di potersi esprimere liberamente, proprio in un contesto difficile, mostrano risorse inaspettate. Alcuni sembra non aspettino altro che essere ascoltati, almeno una volta nella vita, anche solo per un colloquio. Chiudere una porta, per delimitare uno spazio di accoglienza, costruire un setting psicologico, risultano operazioni di per sé terapeutiche.

Offrono la possibilità, ad un detenuto, di essere riconosciuto come soggetto, di sperimentare cosa significa pensare al posto di un agire determinato da routine mentali e da contesti di vita viziati, di imparare ad ascoltarsi.

In conclusione, se il fine condiviso da Ministeri della Giustizia e della Salute è la risocializzazione di un cittadino che ha commesso un reato, si può pensare di offrire un Servizio psicologico all'istituzione penitenziaria piuttosto che esserne al servizio.

A tal fine sono necessarie alcune condizioni organizzative di base.

In primo luogo è importante riconnettere lo Psicologo con il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL e l'Unità Funzionale Complessa di Salute Mentale, ovvero recuperare le dimensioni istituzionali di riferimento. Il far parte di un gruppo di lavoro ampio, non solo di una categoria professionale o di un settore di lavoro - nello specifico quello carcerario - fornisce una protezione identitaria più solida.

È necessario ottenere, in un contesto così ostico, un forte mandato istituzionale sanitario.

In secondo luogo è auspicabile la costruzione di spazi di pensiero sul carcere, fuori dal carcere, per individuare, creativamente, nuovi progetti. Dentro un’istituzione totale è difficile pensare, in quanto si è risucchiati dal ripetere. Le chiusure del contesto sembrano rarefare anche i processi mentali, mentre sono necessarie visioni poliedriche, lettura dei problemi da punti di vista professionali diversi, esperienze messe a punto altrove.

Rimanendo affettivamente sull'immagine di Magritte, si tratta di guardare oltre, a partire da ciò che si rompe, per cercare collegamenti sempre più stretti tra realtà interna ed esterna a sé.

In ultimo è necessario, per operazioni così complesse, porre il carcere all'attenzione di Enti e Istituzioni in modo più coordinato: Regione, ASL, Società della Salute, Comuni, Cooperative sociali, Associazioni.

Il detenuto è, prima di tutto, un cittadino membro di una società democratica, utente di una serie di Servizi.

Attualmente vengono arrestati giovani stranieri, spesso senza permesso di soggiorno, richiedenti asilo che interrompono progetti di riconoscimento del loro status, nuovi poveri, senzatetto, anziani e, sempre più, persone con problemi di dipendenza. Il carcere diventa un condensato di problematiche sociali sulle quali è urgente un atteggiamento collettivo di ricerca che porti a risposte più soddisfacenti. Risposte che gli istituti penitenziari dal loro interno, restando chiusi, non possono dare, al di là dell’impegno di singoli e gruppi.

Mi piace concludere con una frase tratta dalla conferenza che René Magritte tenne nel 1938 al Muséè Royal des Beaux-Arts d’Anversa, intitolata “La condizione umana” per dare voce ad un ciclo di sue opere nelle quali è compresa anche “La chiave dei campi”. La sua visione è quella di ogni uomo, costretto a vedere il mondo solo attraverso la propria esperienza, ma consapevole delle tante possibilità che la realtà nasconde: "Tutte queste cose ignorate che pervengono alla luce mi fanno credere che la nostra felicità dipenda anch'essa da un enigma associato all'uomo e che il nostro solo dovere sia quello di sforzarci di conoscerlo".


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