Volume 19 - 21 Gennaio 2020

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La salute mentale dei richiedenti asilo e rifugiati.
Dalle linee di indirizzo sovranazionali alle proposte organizzative locali

Autori


Riassunto

Partendo da una rilettura di alcuni recenti contributi della World Health Organization Regional Office for Europe relativamente allo stato di salute, e in particolare di salute mentale, dei migranti e dei richiedenti asilo o rifugiati presenti sul territorio europeo, vengono evidenziate le politiche e le scelte organizzative e operative capaci di favorire il lavoro con questa utenza nei servizi sanitari pubblici.
Le indicazioni e le riflessioni emergenti a livello europeo possono essere tradotte e declinate a livello locale per ripensare i Servizi di salute mentale. A questo scopo appare particolarmente utile – e sinergica con le logiche della Riforma psichiatrica italiana – la prospettiva teorico-metodologica dell’etnopsichiatria clinica e di comunità. Sulla base di questa prospettiva vengono prese in considerazione le caratteristiche che possono permettere ai dispositivi di cura in salute mentale di svolgere una duplice funzione di mediazione a livello territoriale e clinico.


Summary

Based on a re-reading of some recent WHO Regional Office for Europe’s contributions about health and mental health of migrants, asylum seekers and refugees, the article analyses the international, national and local policies that can encourage the work with these users in public health services.
European analyses and suggestions can be translated at local level to improve Mental Health Services. For this purpose, it appears particularly useful – and in line with the logic of Italian Psychiatric Reform – the theoretical and methodological perspective of clinical and community ethnopsychiatry. Based on this perspective, the article discusses the characteristics that can allow mental health care devices to perform a dual function of mediation at the territorial and clinical level.


Ovunque nel mondo – sebbene in modi e forme non privi di elementi critici (1) – sono presenti organizzazioni scientifiche e non governative, stati e organismi sovranazionali che si pongono il problema della direzione da dare ai programmi globali, nazionali e locali finalizzati al miglioramento della salute e del benessere per tutti.

A livello dell’Unione Europea e dei singoli stati membri, questo problema rientra in un ripensamento dei sistemi socio-assistenziali e sanitari attraversati da profonde difficoltà dopo anni di crisi economica e di politiche non sempre volte al sostegno della capacità pubblica di risposta.

Numerosi sono i documenti che a livello globale, nazionale e locale esprimono riflessioni, indicazioni, linee guida, piani da attuare e rendere operativi nei singoli e più circoscritti territori (2).

Questa stratificazione di proposte in materia socio-sanitaria e assistenziale si manifesta negli ultimi decenni con la ridondante puntualizzazione di quali siano i criteri fondamentali per pensare e realizzare percorsi di accesso ai servizi di salute pubblici e di conseguente presa in carico di tutta la popolazione, migranti compresi.

Negli ultimi anni il focus di questa complessa argomentazione si è orientato in particolare sulle questioni di salute (fisica, mentale, sociale) della quota di popolazione richiedente asilo o titolare di protezione internazionale.

Riteniamo importante stimolare una riflessione sulla necessaria traduzione di queste indicazioni generali in scelte organizzative e in prassi operative a livello dell’organizzazione territoriale dei sistemi sanitari e dei singoli Servizi di salute mentale.


1. Uno sguardo (d)all’Europa

Rispetto al tema dell’accesso ai servizi e ai percorsi di presa in carico dei migranti in generale e dei richiedenti asilo e rifugiati nello specifico è innanzitutto utile ricordare alcuni esiti del Report on the health of refugees and migrants in the WHO European Region. No Public Health without Refugees and Migrant Health.

Si tratta di un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (3) che ha cercato di tracciare un preciso profilo di salute della popolazione migrante e rifugiata e delle risposte dei sistemi sanitari europei, partendo dalla considerazione delle migrazioni – forzate o meno – come elemento strutturale delle nostre attuali società. L’obiettivo è stato quello di fornire un resoconto, il primo di questo genere, che potesse sostenere i paesi membri nel definire i parametri e le azioni fondamentali per costruire servizi e percorsi di cura sempre più inclusivi ed efficaci, sia per la popolazione target del rapporto che per la popolazione autoctona.

Partendo dal presupposto che migranti e popolazione autoctona godono degli stessi diritti di salute, la sfida continua ad essere quella di mettere in forma e promuovere politiche e pratiche sostenibili a livello europeo, così come a livello locale, per rendere operativo e fattivo un sistema universalistico di assistenza sanitaria e protezione sociale. Alla luce delle differenze di scala considerate e delle differenze istituzionali e organizzative che ne conseguono, la situazione che si determina è una omogeneità generale dei presupposti e dei principi, e una diversificazione delle applicazioni necessariamente confrontate con il loro essere situate in specifici ambienti e contesti. Nel momento in cui occorre riaffermare principi quali l’uguaglianza e il rispetto delle libertà fondamentali, è altresì necessario riuscire a capire come tradurre questi principi in politiche e azioni fattive ed efficaci alla scala territoriale, lì dove si materializzano gli interventi volti a rispondere ai bisogni di salute (mentale) dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

L’intento del rapporto citato, a questo proposito, è quello di proporre alcune evidenze che possano essere di aiuto agli Stati membri per promuovere attivamente la salute dei migranti e dei rifugiati, tenendo in debita considerazione le peculiari determinanti di salute e vulnerabilità (ad es., vissuti nei paesi di origine o nel viaggio prima dell’arrivo in Europa, esperienze di detenzione o violenza e sfruttamento, l’impatto di nuovi ed inediti stili di vita, le complesse dinamiche di acculturazione, le condizioni di vita nel paese mèta di migrazione che possono rimanere per lungo tempo precarie e insoddisfacenti).

Il rapporto si è posto l’obiettivo di mettere in evidenza quelli che possono essere i punti critici: le politiche sovranazionali, nazionali e locali in materia di migrazione e dei diritti connessi ai vari status giuridici; le barriere finanziarie, amministrative, linguistiche e culturali; le difficoltà di comprensione di come il sistema assistenziale sia localmente organizzato e attraverso quali percorsi esso possa diventare accessibile e fruibile.

Il compito suggerito, nella cornice di questa analisi, è quello di riuscire a pre-vedere delle politiche e degli aggiustamenti strutturali che nel lungo periodo riescano ad assumere pienamente le sfide poste dai migranti e dai rifugiati ai nostri sistemi di salute pubblici.


Soffermandoci soltanto su una piccolissima selezione delle ricerche analizzate nel suddetto rapporto (che ha compreso la revisione di 13.000 documenti di letteratura scritti sul tema a partire dal 2014) può essere utile citare in particolare alcuni spunti che emergono.

In primo luogo, sono importanti alcune evidenze relative all’impatto sullo stato di salute della cornice amministrativa e legale che definisce e infine denomina le diverse tipologie di esperienza migratoria e di permanenza nel territorio europeo. Ad esempio, la migrazione forzata è connessa all’aumento del rischio di morte per disturbi cardiovascolari; i figli di richiedenti asilo e rifugiati sono interessati da più elevati tassi di mortalità perinatale; i migranti irregolari sono esposti ad un maggior rischio di esordi psicopatologici; i richiedenti asilo e i rifugiati presentano un’elevata prevalenza di Disturbi da Stress Post-Traumatico.

In secondo luogo, focalizzando ancora di più l’attenzione sui problemi di salute mentale, è possibile rintracciare nel rapporto del 2018 alcuni elementi che possiedono una validità e un consenso generali. Questi elementi possono fornire una cornice generale per l’implementazione di azioni di salute mentale di comunità nei confronti di richiedenti asilo e rifugiati:

  • 1) I fattori di rischio che possono favorire l’emersione di problematiche di salute mentale nei migranti e richiedenti asilo o rifugiati appartengono sia al contesto di origine che a tutte le fasi dello spostamento e del processo migratorio, compresa la condizione di accoglienza e il conseguente vissuto nel paese meta della migrazione.
  • 2) I concetti di salute fisica e mentale differiscono in funzione delle appartenenze culturali e di queste specificità è necessario tener conto nei percorsi di presa in carico dei migranti.
  • 3) Permangono ancora barriere generali che ostacolano o comunque si frappongono ad un corretto ed equo accesso ai servizi socio-sanitari (in primo luogo, barriere e ostacoli di natura linguistica e culturale).
  • 4) È necessario lavorare molto e in modo mirato e strategico per superare le difficoltà che ancora ostacolano la piena realizzazione di una clinica e una presa in carico centrata sul paziente (migrante, richiedente asilo o rifugiato).

Questi quattro punti di generale condivisione, tra i molti altri possibili, possono rappresentare una sorta di indice per orientare la nostra riflessione e le nostre considerazioni al fine di commentare ulteriormente l’oggetto del presente contributo: ovvero lo sviluppo di sistemi di salute pubblici capaci di un lavoro clinico e comunitario con richiedenti asilo e rifugiati che sia culturalmente sensibile e attento alle questioni geopolitiche (4; 5; 6).


2. Salute mentale e dispositivi di cura

Per arrivare a discutere lo sviluppo di servizi di salute mentale capaci di rispondere ai bisogni di salute mentale presi in considerazione, è comunque opportuno effettuare un giro lungo approfondendo i quattro punti più sopra esplicitati alla luce anche di ulteriori contributi provenienti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’European Knowledge Hub on Health and Migration (Hub europeo della conoscenza su salute e migrazione); in particolare la Guida Tecnica denominata Mental health promotion and mental health care in refugees and migrants del 2018.

Questa Guida Tecnica (7) è stata realizzata per raccogliere e sistematizzare le più importanti e principali raccomandazioni e gli esiti delle ricerche sulla promozione della salute mentale e i relativi percorsi di cura in Europa, con l’obiettivo di sostenere i Paesi membri nello sviluppo di politiche socio-sanitarie adeguate alle sfide poste dalle migrazioni.

Il presupposto è che buone politiche nazionali e buoni piani locali di attuazione di tali politiche possano aiutare i migranti, così come la popolazione autoctona, a promuovere il migliore stato di salute mentale possibile.


I fattori di rischio che possono favorire l’emersione di problematiche di salute mentale nei migranti e richiedenti asilo o rifugiati appartengono sia al contesto di origine che a tutte le fasi dello spostamento e del processo migratorio, compresa la condizione di accoglienza e il conseguente vissuto nel paese meta della migrazione.

Molte ricerche sul tema, così come l’approfondimento delle biografie in sede clinica e psicoterapeutica, ci mostrano come ogni singolo segmento della vita del migrante possa essere detentore di fattori di rischio determinanti e influenti sul suo stato di salute mentale.

In prima battuta, la vita nel paese di origine (fase prima della partenza) può aver esposto la persona a guerre e persecuzioni o a imponenti difficoltà economiche e sociali. Queste ultime possono essere connesse a specifiche identità e ruoli sociali che hanno reso la persona oggetto di processi di marginalizzazione o stigmatizzazione, ovvero di violenze strutturali (8) o decisamente fisiche e intenzionali (9). È in questa fase che si possono rintracciare le coordinate di possibili eventi traumatici all’origine della decisione o della necessità di lasciare il paese.

In seconda battuta, e nello specifico per coloro che tendenzialmente chiederanno asilo politico in Europa, il viaggio e l’attraversamento di numerosi paesi prima dell’arrivo in un “porto sicuro” possono rappresentare un ulteriore e importante fattore di rischio (ad esempio, eventi potenzialmente letali o cadere vittime del traffico di esseri umani).

Anche la fase dell’arrivo e il conseguente periodo di insediamento (con le dinamiche comunemente dette di acculturazione e integrazione) possono rappresentare periodi difficili e fattori di ulteriore e possibile peggioramento della condizione di vulnerabilità psicologica (condizioni di vita precarie, isolamento sociale e disoccupazione, problematiche relative all’iter della richiesta di asilo e all’inserimento nel mondo dell’accoglienza).

Occupandoci da tempo del trauma e di una clinica del trauma in chiave etnopsichiatrica, abbiamo familiarizzato con la necessità di convocare nel setting clinico la dimensione geopolitica. La piega istituzionale e geopolitica creatasi intorno ai richiedenti asilo e rifugiati ha portato all’espansione logaritmica di un sistema di accoglienza venutosi infine a configurare come una macchina biopolitica volta alla realizzazione di una specifica antropopoiesi (10). Tutto ciò ha portato alla necessità di declinare al plurale questa dimensione, convocando la molteplicità delle geopolitiche possibili. Questa declinazione al plurale ci permette di considerare le questioni politiche, istituzionali e sociali non soltanto, e non esclusivamente, del paese di origine ma anche del paese di accoglienza, articolando in un rapporto dialogico la narrazione della storia pregressa e degli avvenimenti (spesso traumatici) precedenti l’arrivo in Italia, con la storia attuale e con ciò che avviene nella contemporaneità dell’accoglienza istituzionalizzata.

La dimensione geopolitica nazionale e locale, così come la gestione territoriale dei singoli progetti di accoglienza, sono elementi agenti e attivi capaci di influire in senso protettivo o dannoso sulla stessa condizione di salute mentale di chi vi abita, trasformando la dimensione psicopatologica personale e dei gruppi e, contemporaneamente, dando vita a nuovi fenomeni culturali e sociali.

Sono un esempio di questo ultimo tipo i cambiamenti negli orientamenti politico-normativi e amministrativi che hanno interessato il sistema dell’accoglienza del nostro paese a partire dal 2018, con le conseguenti ricadute non soltanto a livello culturale, sociale e istituzionale ma anche sulla dimensione (socio)psico(pato)logica di chi è incluso o escluso dal sistema di accoglienza.

Allo stesso modo, e parallelamente, un accesso “facile vs difficile” o “risolutivo vs non risolutivo” ai servizi socio-sanitari pubblici (in termini di pertinenza e adeguatezza della presa in carico), può influire in senso protettivo o dannoso sulla condizione di salute mentale di migranti e richiedenti asilo o rifugiati.

Secondo la Guida Tecnica, “la mancanza di integrazione sociale, in particolare l’isolamento sociale e la disoccupazione, è collegata con la maggiore prevalenza di disturbi mentali nei rifugiati e nei migranti. Se l’esclusione sociale è anche un fattore predittivo delle difficoltà di salute mentale nella popolazione generale dei paesi ospitanti, rifugiati e migranti hanno un compito particolarmente difficile nel processo di integrazione in un nuovo paese e in una nuova cultura. Inoltre, possono essere colpiti da atteggiamenti negativi, pregiudizi o addirittura discriminazione, che potrebbero minare e ostacolare i loro sforzi per l’integrazione. L’esclusione sociale è un fattore di rischio per i disturbi mentali che è modificabile e può essere affrontato attraverso opportuni interventi preventivi” (7, p. 11)(nota 1).

Il problema dell’accesso ai servizi socio-sanitari pubblici da parte dei migranti e l’adeguatezza delle prese in carico che ne conseguono sono questioni profondamente intrecciate ad un discorso sull’inclusione, che essa sia di tipo sociale o istituzionale, declinata sul piano teorico e del diritto come sul piano operativo e delle prassi.


I concetti di salute fisica e mentale differiscono in funzione delle appartenenze culturali e di queste specificità è necessario tener conto nei percorsi di presa in carico dei migranti.

La condizione di salute mentale delle persone accolte nei nostri territori è senza dubbio il frutto di una combinazione di più determinanti. Una simile considerazione, tuttavia, non basta per comprendere la natura della sofferenza psichica e la forma che questa assume.

Lo sguardo etnopsichiatrico permette di cogliere, effettivamente, la cifra distintiva delle forme di sofferenza umana, ritenendo che queste si articolino e manifestino a partire da specifiche appartenenze, affiliazioni e attaccamenti originari (ethos culturale) (11; 12; 13). Un discorso operativo sulle pratiche di inclusione, secondo il ragionamento appena proposto, dovrà necessariamente permettere a queste appartenenze, affiliazioni e attaccamenti di diventare oggetti di interesse clinico nei percorsi di presa in carico dispiegabili, ad esempio, nei servizi pubblici di salute mentale. Più complessivamente, si pone la necessità di considerare il principio metodologico – oltre che etico – per cui il sentimento di appartenenza non può essere svilito né accantonato nel momento in cui si valutano i diritti alla protezione internazionale o nazionale o si ipotizzano percorsi di inclusione e integrazione sociale, così come percorsi terapeutico-riabilitativi. Si ripropone in altra forma quanto più sopra sottolineato: e cioè, l’inclusione di oggetti inediti nei setting clinici viene a configurarsi come ulteriore questione geo-politica. Aprire uno spazio di ascolto e di azione tecnica a partire dalle appartenenze e dagli attaccamenti degli altri (ad esempio la lingua, le visioni della salute e della malattia, le etiologie e le terapeutiche, le divinità e le forze invisibili) significa aprire le porte ai mondi delle teorie e delle pratiche competitive e alternative; significa anche riposizionare le nostre stesse teorie psicologiche e psichiatriche. Queste ultime si ritrovano immerse in uno spazio di confronto e di negoziazione più complesso e articolato ma, al contempo, più pertinente e potenzialmente più efficace per co-costruire un senso per la sofferenza dell’altro e, insieme all’altro, orientare la presa in carico in una dimensione sostenibile e condivisibile.


La convocazione nella scena clinica di questi oggetti inediti richiede alcuni accorgimenti metodologici generali. In primo luogo, è necessario che si dispieghi la potenzialità di dispositivi clinici profondamente inclusivi e partecipativi, capaci di un doppio movimento. Da un lato, capaci di accogliere al proprio interno e dialogare con le intenzionalità geopolitiche – nel senso sopra esplicitato – espresse dagli attori del sistema di accoglienza. D’altro, di integrarsi in un’azione più ampia e comunitaria di dialogo e confronto con queste altre intenzionalità che comunque hanno effetti sulla salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati (dispositivo clinico esperto in mediazioni di sistema).

In secondo luogo, è necessario poter installare nei dispositivi clinici dei procedimenti atti a elicitare e far emergere le qualità singolari e modali dei pazienti richiedenti asilo e rifugiati. Questo è possibile riconoscendo alla lingua di origine un posto determinante e, con essa e per suo tramite, ai gruppi umani ai quali la lingua rimanda (dispositivo di mediazione etnoclinica).

L’adozione complementare di questi due accorgimenti metodologici conferisce alle dimensioni culturali e geopolitiche un posto centrale nell’operatività dei Servizi, mutando l’assetto generale e specifico dei più diffusi setting di presa in carico e aprendo la scena clinica e territoriale ad altre discipline e ad altri professionisti non tradizionalmente definibili come “professionisti della salute” (14). Stiamo parlando di discipline quali ad esempio l’antropologia culturale, la sociologia delle migrazioni, l’etnografia e di professionisti quali, in particolare, l’antropologo e il mediatore linguistico culturale o, ancor meglio, mediatore etnoclinico.

La figura del mediatore linguistico-culturale è ormai presente da tempo nei servizi sanitari. È invece ancora sconosciuta la possibilità di implementare strutturalmente altre discipline e professionisti (come gli antropologi culturali) nell’ambito delle équipe multiprofessionali dei Servizi di salute mentale. Questa possibilità fino ad ora è stata resa possibile solo attraverso progetti ad hoc rivolti ai migranti forzati o economici. Si riscontrano tuttavia una serie di resistenze all’utilizzo di queste figure nell’ambito della salute mentale. Queste resistenze, da una parte, derivano da fattori organizzativi: maggiori difficoltà nella programmazione delle attività e degli interventi; difficoltà nel mantenimento della continuità di mediazione da parte della stessa persona soprattutto col protrarsi della cura; altalenante formazione e competenza dei mediatori linguistico-culturali rispetto alla clinica psicologica e psichiatrica; temporalità limitata dei progetti ad hoc. Altre resistenze invece sono di ordine prettamente professionale, come se l’introduzione di altre figure nello spazio clinico determinasse un “deterioramento” di un qualche tipo dei setting usuali e conosciuti. In questi casi, in ultima istanza, si pone un problema connesso agli attaccamenti degli stessi operatori ai propri riferimenti teorici e metodologici e agli effetti su questi attaccamenti derivanti dall’incontro con l’altro. I processi culturali e relazionali che si attivano possono essere letti come fenomeni acculturativi di tipo antagonistico. Questi fenomeni si dispiegano lungo una vasta gamma di possibilità che vanno dalla chiusura rispetto all’altro derivante da un timore di contaminazione, fino all’assimilazione all’altro infiltrata dal brivido o dal timore della confusione. La sfida – che concerne ad un tempo la metodologia generale, il posizionamento professionale di ciascun clinico e i vincoli e problemi di ogni singolo incontro – consiste nell’individuare una postura epistemica che permetta di prendere in considerazione l’essere straniero dell’altro (15), senza il timore di perdere i propri attaccamenti.

Pensare la clinica e l’attività territoriale in questa prospettiva, e promuovere una corrispondente presa in carico di migranti e rifugiati con problematiche di salute mentale, permette di sviluppare concretamente l’obiettivo dell’inclusione, e di rispondere in maniera articolata al problema delle barriere e degli ostacoli che ancora esistono nell’accesso e nell’adeguata fruizione dei servizi pubblici, così come al problema dell’inquadramento diagnostico e del trattamento psicologico, psicoterapeutico e psichiatrico di questo tipo di utenza.


Permangono ancora barriere generali che non favoriscono un corretto ed equo accesso ai servizi socio-sanitari, in particolare di natura linguistica e culturale.

Rispetto all’ambito della salute mentale è interessante quanto puntualizzato dalla Guida Tecnica: “Vari studi hanno dimostrato che i rifugiati e altri migranti possono incontrare ostacoli all’accesso alle cure per la salute mentale (...) Questo può ritardare il trattamento, portando potenzialmente a ulteriori complicazioni dei disturbi mentali (…). Alcune di queste barriere sono comuni ad altri servizi sanitari (ad es. mancanza di conoscenza dei diritti all’assistenza). Altri ostacoli sono più specifici per le cure di salute mentale e sono collegati a diversi modi di esprimere le difficoltà psicologiche, a volte attraverso disturbi fisici o facendo ricorso a spiegazioni soprannaturali, oppure sono collegati alle paure per la discriminazione subita da alcuni migranti con problemi di salute mentale. Ciò rende meno probabile che alcuni di loro accedano ai servizi di salute mentale e ricevano trattamenti adeguati e tempestivi” (7, p. 14).

In questo importante documento promosso dall’European Knowledge Hub on Health and Migration si raccomanda una particolare attenzione a ciò che succede nel corso delle prese in carico, quando migranti e rifugiati riescono ad accedere o sono intercettati dai servizi di salute mentale.


È a questo proposito che si individua in una buona e positiva relazione terapeutica la possibilità di adesione al trattamento e di efficacia dell’intervento; le “difficoltà linguistiche, le credenze e aspettative culturali” possono ostacolare la costruzione di una buona e positiva relazione terapeutica. È anche evidenziato come il processo diagnostico sia fondamentalmente basato sulla comunicazione orale, così come anche i percorsi psicoterapeutici e clinici in generale. Fraintendimenti e “malintesi tra pazienti, interpreti e clinici possono rendere il processo diagnostico più difficile e meno accurato, causando una sottostima o una sovrastima delle difficoltà psicologiche del paziente valutato, oltre a influenzare negativamente l’efficacia dei trattamenti psicologici. (…così come…) credenze specifiche sui fenomeni mentali e sul disagio psicologico (ad esempio spiegazioni soprannaturali o manifestazioni fisiche del disagio psicologico) possono rendere il processo diagnostico più complicato e l’adesione al trattamento da parte dei pazienti più problematica” (7, pp. 17-18).

È espressamente raccomandato, nella cornice di questo contributo, l’uso strutturale di servizi di interpretariato di alta qualità, che possano sostenere e aiutare a costruire delle efficaci alleanze terapeutiche e relazioni paziente-clinico.

Gli effetti positivi di questa prassi (il lavoro clinico con mediatori/interpreti ben formati) sono apprezzabili sia nel processo diagnostico che nel trattamento psicologico-psichiatrico.

È anche espressamente raccomandato che ai medici e agli operatori coinvolti sia proposta una formazione specifica su come lavorare inserendo la traduzione e l’interpretariato nelle loro prassi. È raccomandata infine una formazione sugli aspetti culturali, con l’obiettivo di meglio comprendere i diversi modelli esplicativi attraverso i quali i pazienti stranieri parlano della loro sofferenza.


Tra le varie indicazioni emerse da una lettura approfondita di questo quaderno tecnico riteniamo che sia centrale l’invito a dotare i servizi pubblici di professionalità competenti, nonché prevedere azioni specifiche di mediazione tra migranti e servizi di salute mentale:

“I programmi di formazione possono aiutare i clinici a comprendere e valutare le problematiche di salute mentale tenendo conto dei diversi modelli culturali esplicativi dei sintomi clinici. Questo training può essere presente all’interno dei curricula di formazione di base dei professionisti della salute mentale o (rinforzata attraverso ulteriori corsi di formazione). Garantire che i servizi di salute mentale abbiano uno staff multiculturale può essere anche un modo per promuovere la consapevolezza culturale e aiutare a comunicare la comprensione delle differenze culturali all’interno di riunioni di équipe. Mediatori culturali e altri professionisti in contatto con i migranti potrebbero inoltre beneficiare di una formazione su come comunicare e mediare le relazioni tra migranti e servizi di salute mentale” (7, p. 19).

E ancora: “I clinici dovrebbero essere consapevoli dei diritti all’assistenza sanitaria dei rifugiati e dei migranti. Dovrebbero anche essere competenti e esperti nella diagnosi e nella gestione di inusuali rappresentazioni dei disturbi mentali, e capire le dinamiche connesse alle differenti strutture familiari e sociali” (7, p. 23).


È necessario lavorare molto e in modo mirato e strategico per superare le difficoltà che ancora ostacolano la piena realizzazione di una clinica e una presa in carico “centrata sul paziente” (migrante, richiedente asilo o rifugiato).

Ormai diffusamente, in molti documenti e rapporti redatti a livello europeo o più generalmente a livello internazionale, quest’ultimo punto è collegato alla necessità di orientarsi alla costruzione di culturally sensitive health systems (sistemi sanitari culturalmente sensibili/orientati).

Costruire sistemi e dispositivi di presa in carico centrati sul paziente, o più generalmente sulla persona, origina la conseguente necessità di insistere sull’importanza delle competenze transculturali e di un agire culturalmente sensibile ed orientato; aspetti entrambi propedeutici alla piena realizzazione di un equo e adeguato accesso ai sistemi di presa in carico di questa quota di popolazione.

Abbiamo visto come anche a livello europeo sia indicata e promossa la formazione del personale sanitario affinché gli operatori dei più disparati settori possano riuscire a svolgere le loro attività ordinarie in modo competente dal punto di vista inter/trans-culturale e, più genericamente, secondo modalità che siano culturalmente sensibili e orientate. Così come è essenziale e vitale, nonché insistentemente raccomandata, la presenza strutturata di mediatori linguistico-culturali ben integrati nei percorsi di presa in carico dei migranti.

In alcuni stati membri la partecipazione diretta di migranti nei servizi sanitari e nei luoghi di decisione delle politiche sanitarie è un metodo utilizzato per garantire e promuovere competenze interculturali e una sensibilità di base alla diversità culturale.

In definitiva, l’invito ormai da assumere come compito strutturale appare quello di rivedere profondamente i servizi socio-sanitari e assistenziali in chiave interculturale, transculturale e orientata alla com-prensione della diversità dei mondi; questo è non solo possibile ma assolutamente necessario a tutti i livelli e in tutti gli aspetti concorrenti a definire i percorsi di cura: dalle politiche sanitarie, alla formazione dei medici e composizione delle équipe di lavoro, all’utilizzo di metodi partecipativi che permettano a migranti e rifugiati stessi di contribuire alla realizzazione di un’assistenza centrata fattivamente sul paziente.

A partire dalla nostra prospettiva ed esperienza di settore ci sembra che questo sforzo si debba orientare ad assumere pienamente i seguenti presupposti, in parte già introdotti e brevemente discussi:

  • 1) ridefinire pratiche e setting clinici in funzione del peculiare partner di lavoro (il paziente migrante) che ci sollecita a posizionarci in quanto operatori della salute mentale secondo uno specifico inquadramento teorico e metodologico (che sia valutabile in termini di pertinenza ed efficacia);
  • 2) considerare centrale la questione dell’alterità culturale e di come essa possa diventare il perno del percorso terapeutico (a partire da una clinica che faccia delle appartenenze, delle affiliazioni e degli attaccamenti originari un ambito di interesse primario);
  • 3) promuovere, conseguentemente, una pratica terapeutica che metta al riparo il clinico dall’essere orientato esclusivamente dalle sue teorie e che, invece, consenta all’altro di manifestarsi e rendersi presente per “ciò che è”, evitando così operazioni in un certo qual modo violente che rischiano di deprivare la persona delle sue specifiche appartenenze ed affiliazioni;
  • 4) permettere, infine, una ridistribuzione tecnicamente governata dei poteri e dei saperi, facendo della moltiplicazione dei riferimenti, delle professionalità e delle lingue il centro di complesse operazioni di mediazione.

La pratica clinica ci insegna, a questo proposito, che forse solo in questo modo è possibile instaurare davvero un’alleanza terapeutica con la persona: ovvero a partire dai suoi stessi assunti identitari, riconoscendolo pienamente come appartenente ad uno specifico gruppo umano e ponendo al centro del discorso clinico gli ordini morali locali.


3. Etnopsichiatria per i servizi pubblici

Dopo l’analisi effettuata è possibile riprendere sinteticamente i contributi emersi e rivolti allo sviluppo e al miglioramento dei sistemi di salute pubblici; contributi che afferiscono ad una prospettiva generale inquadrabile come etnopsichiatria clinica e di comunità (16).

Andando oltre l’ormai datato e riduttivo dibattito tra servizi dedicati e non, ci sentiamo di condividere la strada orientata a diffondere nei servizi pubblici di salute mentale una prospettiva volta allo sviluppo collettivo e corale di pratiche cliniche culturalmente orientate (17). Questo ci ha portato nel tempo a investire energie in progetti che permettessero la cooperazione e la collaborazione tra gli operatori dei servizi pubblici e reti di professionalità competenti costituite in laboratori aperti e inclusivi di riflessione teorica e pratica clinica (18; 19). L’intento complessivo è sempre stato quello di contribuire tecnicamente alla co-costruzione di pratiche di presa in carico sempre più pertinenti e adeguate.

Ci è sembrato appropriato e condivisibile l’invito da parte delle fonti europee citate all’integrazione strutturale di percorsi formativi per gli operatori sanitari che sensibilizzino e aumentino le competenze sui temi argomentati, in particolare sull’utilizzo pressoché ordinario di forme di mediazione linguistica e culturale.

A questo proposito riteniamo che la prospettiva teorica e le prassi cliniche di ispirazione etnopsichiatrica possano fornire la giusta cornice e il giusto inquadramento metodologico per raccogliere le sfide poste dall’accesso ai servizi di salute mentale della popolazione migrante in generale e richiedente asilo o rifugiata nello specifico. In questo ambito di azione – forse più che in altri – le metodologie di interazione clinica, già impostate secondo una strategia di mediazione linguistica e culturale, devono necessariamente coordinarsi con una generale metodologia di salute mentale di comunità fondata su una mediazione fra sistemi istituzionali e sociali (20; 21).

Ciò che è in gioco, facendo riferimento a quanto precedentemente commentato, è la possibilità di essere accurati ed efficaci sul piano sia diagnostico che terapeutico, riconoscendo profondamente all’Altro (proveniente da un altrove geografico e culturale) il senso del suo appartenere e del suo essere situato. Ciò non significa appiattire e ridurre l’altro alla sua sola dimensione storica passata, ma riconoscere nel suo divenire e nella trasformazione della sua identità una tensione dialogica che chiama in causa l’attualità come le origini, il “qui e ora” come il “là e allora”, il visibile e l’invisibile, i nuclei attivi e generativi di identità che transitano tra le generazioni e i mondi, l’impatto articolato delle dimensioni geopolitiche declinate al plurale e co-presenti, interagendo in forme inedite e speciali, nel configurare le molteplici e possibili forme di sofferenza. Questo riconoscimento dell’essere straniero dell’altro dovrebbe allargarsi alle pratiche minute e quotidiane, così come alle strategie generali, del sistema istituzionale di accoglienza, forse troppo spesso e troppo coerentemente orientato – nelle sue strategie di integrazione – alla riconduzione all’uno della molteplicità con cui interagisce.


Note

1) Traduzione dall’inglese all’italiano a cura degli autori del presente articolo.


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3) World Health Organization. Report on the health of refugees and migrants in the WHO European Region. No Public Health without Refugees and Migrant Health. World Health Organization Regional Office for Europe: Copenhagen; 2018. http://www.euro.who.int/en/publications/abstracts/report-on-the-health-of-refugees-and-migrants-in-the-who-european-region-no-public-health-without-refugee-and-migrant-health-2018

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