Volume 19 - 21 Gennaio 2020

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“Dal Gruppo Grande al Grande Gruppo”
La trasformazione nella mente ampliada del villaggio “La Grazia”

Autori

Ad Ago,
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Riassunto

Questo lavoro vuole rappresentare un esempio di buona prassi nell’integrazione tra il Dipartimento di Salute Mentale (MDSM Caltagirone) e la Comunità Terapeutica Assistita (La Grazia Caltagirone) attraverso lo strumento del Gruppo Multifamiliare. Dopo una sintetica descrizione della storia e dei riferimenti teorici del Gruppo Multifamiliare (GMF), si narra il percorso di crescita del gruppo dalla prospettiva emotiva e partecipativa nell’arco dei primi 12 incontri, osservando i movimenti- evolutivi del gruppo nella sua interezza, avendo uno sguardo specifico al percorso dello staff dal punto di vista dei supervisori.
Parole chiave: gruppo, multifamiliare, comunità, persone, operatori, esperienza, emozioni, processo, evoluzione, coconduttori, supervisori.


Summary

This work aims to represent an example of good practice in the integration between the Department of Mental Health (MDSM Caltagirone) and the Assisted Therapeutic Community (CTA La Grazia at Caltagirone) through the instrument of the Multifamily Group. After a brief description of the history and theoretical references of the Multifamily Group (GMF), we narrate the path of growth of the group. We examinated the emotional and participatory perspective during the first 12 meetings, observing the evolution of the whole group. Finally we analyzed also the growth of the staff from the point of view of the supervisors.


L’origine del Gruppo Multifamiliare risale al 1958 quando, in Argentina, il Dott. Jorge Garcia Badaracco, psichiatria e psicoanalista, iniziò a organizzare degli incontri settimanali con i pazienti psicotici gravi della sezione maschile dell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires. Successivamente furono invitati a partecipare al gruppo gli operatori che lavoravano nel reparto psichiatrico ed in seguito anche i parenti di alcuni pazienti, per discutere dei loro miglioramenti e della loro vita in generale, in vista delle dimissioni e del reinserimento sociale.

L’ esperimento ha avuto delle applicazioni più recenti in Italia grazie al Dott. A. Narracci, psichiatra di un DSM di Roma, il cui rapporto  con Badaracco ha permesso che  l’esperienza della psicoanalisi multifamiliare fosse inserita dal 1997 in alcune strutture terapeutiche per pazienti psicotici e borderline attive a Roma.

In Italia si lavora con i GMF principalmente con due orientamenti: quello di A. Narracci ad orientamento psicoanalitico e quello di A. Canevaro ad orientamento sistemico.

Attraverso le storie cliniche di più gruppi si dimostra concretamente che tipo di situazione genera un setting quale il Gruppo Multifamiliare. Innanzitutto, parlando di gruppo, si applica il concetto sistematizzato da Badaracco di ”ampliamento della mente”,  ovvero  il “pensare insieme quello che non si può pensare da soli”.

“A cambiare in tale setting è anche la modalità del trasfert che si trasforma in “transfert multipli”, ovvero corrispondenze degli altri in noi”. Secondo la tecnica della psicoanalisi multifamiliare si creerebbe quindi un contesto di “rispecchiamento metaforico” all’interno del quale molte persone interagiscono e sviluppano una rete di dialogo capace di interrompere il processo d’identificazione patogena e psicotica, la cui ragione profonda sta nell’essere bloccato in una situazione simbiotica con uno dei genitori, o con entrambi.

Nel GMF (Gruppi Multifamiliari) i familiari, i pazienti, gli operatori  creano gruppi generazionali in cui il paziente è considerato portatore di “cultura”. Da qui nasce la necessità di creare un contesto di relazioni sufficientemente ampio, che favorisca un processo di separazione dai meccanismi di interdipendenze patologiche e patogene e di emersione di virtualità sane individuali.

Il GMF viene paragonato ad un incontro di villaggio, elemento associabile a quegli ambiti tradizionali di cura in cui il gruppo partecipa fortemente alla possibilità di guarigione dell’individuo, che incarna una crisi “collettiva e universale” (De Martino). In questi tipi di incontro, le persone dichiarano la propria disponibilità a confrontarsi senza pretendere di avere ragione e, proprio in relazione a questa rinuncia, a volte raggiungono momenti di "saggezza", non solo di qualcuno in particolare ma del gruppo nel suo insieme.


I componenti di un nucleo familiare patologico, non hanno occasione nel corso della loro vita, di tirarsi fuori dalla propria situazione e di mettersi ad osservare "dall'esterno" quello che accade tra loro. Nel Gruppo Multifamiliare invece, essi si possono "rispecchiare metaforicamente" nel modo di funzionare di uno o più di uno dei nuclei familiari che si trovano di fronte e iniziare a riflettere su come imparare a non ripetere acriticamente, all'infinito, "gli stessi errori".

Quello che accade è che quest'ultimo inizia ad avere la capacità di formulare un pensiero, che si compone attraverso i contributi del pensiero di ognuno dei suoi partecipanti, sia che parli, sia che non riesca ad esprimere verbalmente le proprie opinioni. Si tratta di un pensiero complessivo, alla cui elaborazione ognuno può dare un contributo e che permette al gruppo stesso di funzionare come una "mente ampliada" (G.Badaracco).

Il processo cha qui a seguire tenteremo di narrare si è svolto presso la Comunità Terapeutica “La Grazia” di Caltagirone e racconteremo i primi dodici incontri del GMF che tutt’oggi continua a svolgersi regolarmente.

Nata nel 1980 come Casa di Riposo per dimessi dagli Ospedali psichiatrici, nel 1987 “LA GRAZIA” diviene una C.T.R. (Comunità Terapeutico-Riabilitativa) mettendo in atto programmi riabilitativi in convenzione con i Dipartimenti per la Salute Mentale delle AA.UU.SS.LL. invianti.

Alla fine degli anni ‘80, soprattutto per opera di due psicoanalisti, vengono poste le basi di una prassi operativa che, nei suoi assunti di base, si è mantenuta fino ad oggi: superamento della logica manicomiale, partecipazione democratica, attenzione permanente ai vissuti (di ospiti ed operatori) ed ai significati degli accadimenti (“culture of enquiry” – T.Main), centralità della relazione terapeutica, integrazione territoriale.

Le basi teoriche da cui prende avvio la storia della Comunità sono la Democratic Therapeutic Community (DTC), essa rappresenta una tradizione di ricerca in salute mentale nata durante la seconda guerra mondiale, in un ospedale militare inglese (Main, 1946), principalmente per il trattamento ed il reinserimento dei soldati con disturbi mentali. Questo ambiente terapeutico, così come era strutturato all'interno della struttura fortemente gerarchica dell'ospedale militare, era stato progettato per facilitare la piena partecipazione di tutti i suoi membri alla vita quotidiana nel contesto di degenza, con lo scopo ufficiale di sviluppare le competenze relazionali del paziente al fine della sua piena re-inclusione nei ranghi operativi dell'esercito, durante la guerra, e della società civile in generale dopo la fine della guerra.

Secondo Maxwell Jones, la DTC forniva sia un ambiente basato sul living learning (Jones, et alt.,1952), caratterizzato da un appiattimento delle tradizionali gerarchie militari e da una negoziazione dei confini tra i ruoli professionali, sia una valorizzazione delle competenze del paziente, tanto rispetto alla modalità di convivenza quanto alla conoscenza sulla propria condizione di sofferenza mentale.

Subito dopo la guerra, una ricerca sui processi organizzativi delle DTC, identificò quattro principi metodologici:

  • la democratizzazione: una adeguato grado di condivisione del potere nel processo decisionale (rispetto a questioni cliniche ed amministrative), promosso grazie ad un rilevante appiattimento della gerarchia tra operatore e paziente;
  • il permissivismo: una tolleranza verso i comportamenti angoscianti/devianti che permetta alle difficoltà emotive di venire alla luce, consentendo così l'espressione di molteplici punti di vista per la soluzione di problemi;
  • il comunalismo: la condivisione di spazi e servizi (ad esempio la sala da pranzo), la convivenza in una dimensione di vita e di lavoro informale ( come l'uso di nomi propri e l'assenza di un linguaggio etichettante) e la trasparenza sugli obiettivi e sui metodi di trattamento, al fine di migliorare la comunicazione tra tutte le soggettività interessate;
  • il confronto con la realtà: la relazione costante ma interrogativa attraverso l'attivazione di confronti, dialoghi e riflessioni condivise e trasparenti, sugli agiti dei pazienti, per contrastare le loro difese abituali (autodistruttive) quali il diniego o l'evitamento.

Questi quattro principi caratterizzano l'istituzione della DTC come ambiente terapeutico organizzato, appunto, per sostenere e realizzare un processo trasformativo del funzionamento relazionale ed un processo elaborativo della sofferenza mentale dei pazienti. In altre parole è stata così descritta per la prima volta, un'organizzazione stabile, coerente e strutturata, di lavoro terapeutico in salute mentale che si presentava come un setting psicoterapeutico specifico, perchè esplicitamente rivolto alla cura della grave sofferenza mentale. Tale tipologia di setting da allora in poi verrà definita comunitaria e fungerà da modello per tutti gli altri setting di psicoterapia di comunità, che verranno successivamente sviluppati, sulla scia di questa tradizione, sia di tipo residenziali che non (Bruschetta, et al., 2015).

La DTC con la sua teoria e la sua prassi scientifica di riferimento è, infatti, ormai riconosciuta ufficialmente come il prototipo residenziale del setting di psicoterapia di comunità, in base al quale ciò che possiede esplicitamente la qualità della funzione psicoterapeutica, è l'organizzazione complessiva dell'ambiente che il setting istituisce (definendone i confini operazionali e simbolici) e non una qualche singola azione che avviene al suo interno. In quanto Comunità terapeutica può così fondarsi metodologicamente sui principi terapeutici che la moderna ricerca scientifica, sul modello della DTC (Haigh,Pearce, 2017), ha individuato alla base di ogni ambiente che può dirsi terapeutico ed evolutivo per l'essere umano. Essi sono:

  • 1)Attaccamento (il fornire una base sicura per sviluppare il sentimento di appartenenza anche attraverso l'attaccamento spontaneo a persone e figure di riferimento);
  • 2)contenimento (il mantenere chiari regole, ruoli e confini, per permettere di fare l'esperienza di trovarsi in un ambiente sicuro);
  • 3)Comunicazione (il mettersi in contatto con gli altri, aprendosi alla diversità, per cercare una comprensione reciproca tanto dei problemi comuni quanto di quelli personali);
  • 4)Coinvolgimento (il sentirsi parte e partecipe di tutto quello che accade in comunità, per sviluppare il sentimento di cittadinanza nella partecipazione alla vita sociale);
  • 5)Agency (il sentirsi competente e responsabile delle proprie azioni per la propria vita e per quella della comunità, per sostenere il personale percorso di recovery).

La C.T.A. La Grazia è ubicata nel territorio di Caltagirone in prossimità della Riserva Orientata del Bosco di Santo Pietro, in una antica villa patrizia ristrutturata e ampliata, circondata da verde. All'esterno, la Fattoria Pedagogica si declina in un parco attrezzato, un agrumeto, un frutteto, un uliveto, un campo in erba di calcio a cinque,un orto e ricoveri degli animali, cingono la Comunità. La Comunità ospita 40 pazienti, suddivisi in due moduli: intensivo – estensivo e socio – riabilitativo, pazienti con diagnosi di psicosi e dist. Bordeline.


Il GMF condotto presso la nostra comunità è iniziato l’11 aprile 2017. I conduttori, formatesi preventivamente ed in itinere presso l’Asp di CT, sono stati lo psichiatra e direttore sanitario, dr. A. Muscarà e la pedagogista, dott.ssa P. Affettuoso; a supporto, per l’avvio del gruppo ed in itinere, con funzione di supervisione, vi è stata la presenza di 2 operatori del DSM di Caltagirone, dott F. Robertazzo (psicologo) e sig.ra G. Renda ( C.P.S.I.); inoltre il gruppo degli operatori nel suo insieme ha fruito della formazione di 3 giorni intensivi condotta dalla dott.ssa M. Venier (psicologa) e dal dr. M. D’Alema (psichiatra) del servizio di salute mentale di Roma.

I familiari tutti invitati a partecipare al Gruppo, hanno mantenuto una presenza costante del 60% circa; tenendo conto che il 9% circa di pazienti non ha familiari o ha tutori.

Il Gruppo si è incontrato una volta al mese con sospensione nel solo mese di agosto; ogni incontro della durata di 1,30 h è così organizzato: a) partecipanti: pazienti, familiari, operatori, due conduttori e supervisori; b) riunione di post- gruppo, della durata di 1 h, a cui partecipano tutti gli operatori insieme ai conduttori e supervisori; c) infine riunione di staff dei conduttori con i supervisori, della durata di 30’.

Parole chiave: gratitudine, aspettativa, significato, emozione, conoscenza, novità, partecipazione, cura, malattia, desiderio, accoglienza, convivenza, separazione, kairòs, gruppo, serenità, condivisione, speranza, fuga dal dolore, stigma, pregiudizio, lacrime.

Il GMF nel suo procedere ha percorso le tappe evolutive, che vanno da una fase di forti sensazioni, principalmente corporee, ma anche psicologiche, in cui l’interesse è di essere soddisfatti rispetto a “cosa sento, dove mi trovo”. Specchio di ciò sono le parole/emozioni espresse alla fine di ogni incontro dai partecipanti, come: conoscenza, desiderio, accoglienza, separazione, gratitudine nei confronti della CTA, aspettativa di guarigione ed infine l’interrogarsi sul significato del gruppo.


Tali fasi si inquadrano bene in uno dei concetti di gruppo espressi da Bion: “Il gruppo esiste sin dove arriva la mia voce”, dove indica un aspetto sensoriale del gruppo. E’ evidente il rimando al tema del “contenitore” il “setting “ cioè struttura, disposizione, regole, contratto, tempo.

Il gruppo, in queste fasi iniziali, si preoccupa soprattutto della sopravvivenza, di stabilire i confini e di mantenere costante la partecipazione con l’infusione della speranza e di cercare somiglianze con i sintomi e problemi. Inoltre l’altruismo si presenta sotto forma di suggerimenti o di dare aiuto, facendo domande e dando attenzione, e la coesione di gruppo, invece, assume la forma di sostegno, accettazione e l’interrelazione tra la stima di gruppo e l’autostima.

Le fasi successive a cui si è giunti sono rappresentate da un altro concetto bioniano di gruppo: “Il gruppo esiste sempre”, cioè non c’è separazione tra psicologia individuale e psicologia di gruppo, ed espresse dalle parole/emozioni: significato della cura, senso del tempo “kairòs”, stigma, pregiudizio, condivisione, partecipazione. E’ al V incontro che comincia a fare capolino la parola “gruppo” piuttosto che riunione, riferita agli incontri, e su sollecitazione del supervisore ci si comincia a chiedere se questo sia “un gruppo grande o un grande gruppo?”

Successivamente all’attuazione della coesione di gruppo, si verifica l’autosvelamento, il confronto ed il conflitto, perché il processo di apprendimento interpersonale si realizzi, producendo un cambiamento comportamentale e psicologico. L’interazione, l’esplorazione interpersonale, la catarsi, la comprensione di sé e la coesione di gruppo, sono la condizione essenziale di un efficace terapia di gruppo a lungo termine. Tale evoluzione la si può evincere da alcune frasi, espresse durante gli ultimi incontri, da alcuni pazienti, come: “ C.P.: qualcuno riesce a consigliarmi? Come bisogna relazionarsi di fronte ai problemi e all'aggressività degli altri? Mi sento aggredito e oggetto di un tentativo di dominazione da parte dei miei genitori!;.... C.C. è possibile curare un cervello chiuso?... S.L. In comunità ci sono le mansioni di campagna ma, farle, non è solo una questione di pulizia è anche un lavaggio mentale! Una sorta di rafforzamento interiore;...A.S. Ma se io sto male come faccio a capire le cose?;...S.P. Siamo tutti presenti tranne la mia famiglia...io vivo in questo mondo ma non faccio parte di questo mondo!;...A.S. Spero nel futuro! Sto morendo, mi manca mia moglie ed i miei figli, i miei nipoti. Sono stanco...ho fumato una sigaretta ma non ho visto i miei figli andare sul prato!;...M.S. Io ho la sensazione di essere una aliena. Sono stata assassinata da i miei fratelli,...a casa mia io non potevo parlare e non si poteva socializzare!;...M.A.M. Cerco un gruppo con altri nomi e altre facce!”

L’ evoluzione, lenta ma costante, del GMF, ha fatto sì che pazienti, che all’inizio erano molto chiusi e resistenti, hanno poi iniziato a parlare di sé, manifestare le loro paure e i loro pensieri negativi aprendosi ad un maggiore ascolto, grazie al rispecchiamento negli altri ed ai trasfert che ricevevano dagli altri partecipanti. Contemporaneamente anche i familiari di costoro, realizzavano un cambiamento, sia di atteggiamento, da protettivo o distante a comprensivo e attivo, che di comportamento, diventando collaborativo e partecipativo con cambio di visione di prospettiva futura. Questi piccoli ma continui cambiamenti nei nuclei familiari, hanno determinato, in tutto il gruppo, che si realizzasse la “Mente di Gruppo“ o “ Mente Ampliata “ di Badaracco, da cui discende la creazione di solidarietà, sollecitazione riflessiva ed analitica e l’apertura a nuove possibilità e prospettive di vita.

Il gruppo nel suo “procedere” ha vissuto, per l’arrivo di nuovi nuclei familiari, momenti di lieve regressione ad aspetti delle prime fasi, ma di breve durata proprio grazie al funzionamento come “mente gruppale “ che ha reagito al rischio di possibili scissioni in tante menti.


Anche il gruppo degli operatori (G.O.) evolve come il GMF.

Un cambiamento significativo ha attraversato il gruppo degli operatori, soprattutto per merito della partecipazione ai post-gruppo. Questi incontri hanno un’impostazione di riflessioni su tre livelli: I- le emozioni vissute nel GMF; II- l’analisi clinica sui pazienti e le loro famiglie: III- le riflessioni tecniche (criticità e proposte relative alla conduzione). Le riflessioni sulle esperienze vissute nel GMF, ha favorito, in ognuno la possibilità di ri-connettersi o di riconoscere le proprie personali risonanze emotive e familiari così da elaborarle per una maggiore e migliore consapevolezza di sé, che è stata utile per apprendere che si poteva “esserci” come persone, senza il bisogno di “marcarne” il ruolo, all’interno del GMF.

Tutto questo perché anche in questo gruppo si attivano e realizzano i meccanismi di: “disidentificazione,”; “gli altri in noi” e “la virtualità sana”, in cui ognuno mette in campo aspetti di sé che non sapeva di possedere. L’essere portatore, inoltre, di una esperienza e formazione diversa è la forza creativa ed evolutiva di tale gruppo, dove la diversità viene condivisa poiché espressa senza essere interrotti, giudicati e soprattutto essendo ascoltati: tre semplici regole della conduzione di un gruppo di psicoanalisi multifamiliare.

Rispetto ai “supervisori” va detto che anche loro sono “cresciuti” sia come persone, arricchendosi di “emozioni” che nei due gruppi (GMF e GO) sono state manifestate, che come “operatori esperti” avendo feedback positivi e testimonianza del fatto di essere riusciti a creare l’”alleanza di supervisione” necessaria a trasmettere i valori etici dell’”alleanza terapeutica” che si realizza nel GMF. I valori di rispetto, autenticità, sostegno, comprensione ed ascolto attento che man mano emergevano più forti e costanti negli incontri di supervisione, erano sempre più presenti negli incontri di GMF, a tal punto che si era sempre più persone partecipanti che figure con ruolo di operatore.

In fine, si può concludere facendo propria l’espressione di Badaracco riferita agli incontri: “l’esperienza ... ha apportato conoscenze generali sugli esseri umani nelle loro diverse dimensioni: ............ e nelle diverse forme di espressione ....., ossia nelle relazioni umane, nell’intersoggettività, nelle interdipendenze reciproche tra mente e corpo,......... nel conflitto interno e nel conflitto con l’altro, ... etc”. Ad oggi si può dire che il gruppo multifamiliare sta procedendo da “gruppo grande” a “grande gruppo /ampliato”.


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