Volume 19 - 21 Gennaio 2020

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Il cavaliere della non rotella. Teatro povero di Monticchiello

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Riassunto

Nel 1989 Monticchiello e il suo Teatro povero accolsero dei malati di mente provenienti dall’ospedale Psichiatrico di Siena. Dopo numerosi incontri si decise di fare uno spettacolo perché è attraverso questa modalità che la comunità di Monticchiello è solita esprimersi. Lo psichiatra Dott. Vieri Marzi seguì l’operazione e si riuscì nell’impresa con uno spettacolo dal titolo “Il cavaliere della non rotella”.


Summary

In 1989 Monticchiello and its Teatro Povero welcomed some mentally ill patients coming from the Psychiatric Hospital of Siena. After several meetings it was decided to stage a show because it is through the show that Monticchiello community usually expresses itself. The psychiatrist Vieri Marzi followed the operation closely and the show was staged with the title “Il cavaliere della non rotella”.


Mi è capitato decine di volte di partecipare a convegni dove si parlava di teatro ma mai a un convegno che avesse come tema la salute mentale. Nel 1989 fu scelto Monticchiello per accogliere dei malati di mente che uscivano dall'ospedale psichiatrico di Siena e diventavano così cittadini di questa piccola comunità. Il fatto ci preoccupava un po' perché non sapevamo quale fosse la reazione delle persone non abituate ad avere contatti quotidiani con chi soffriva di malattie mentali, anche perché l'offerta di accoglienza era stata rifiutata da più parti.

Noi non la rifiutammo anche perché l'orientamento dell'esperienza culturale e teatrale che facevamo con l’autodramma (e cioè la drammatizzazione della vicenda quotidiana della vita) ci obbligava ad affrontarla. Ripeto non solo perché volevamo sapere quale fosse la reazione delle persone di Monticchiello, ma soprattutto perché se fosse stata rifiutata sarebbe stata la negazione di tutto quello che avevamo fatto precedentemente; sarebbe stata la negazione del lavoro svolto. Quindi era nostro dovere, al di là della sfida e della curiosità, incontrare persone con disagio mentale così forte. Dico così forte perché venivano da Siena ed erano stati tutti in manicomio perlomeno per 40 anni e avevano subito la terribile esperienza dell’elettroshock per cui avevano gravi mancanze oltre a quelle di carattere ereditario. E quindi la curiosità, l'impegno, l'ansia che ci accompagnava fu fortissima.

Allora scegliemmo di affrontare il problema con il teatro e d’accordo con il prof. Vieri Marzi venimmo qua all'Ospedale psichiatrico una volta alla settimana per diversi mesi a incontrare queste persone. Ci dettero una stanza alla Facoltà di Lettere e Filosofia, dove incontravamo il mattino o il pomeriggio queste 5-6 poi 8 persone e con le quali ci mettevamo intorno ad un tavolino accompagnati dagli psichiatri e dagli infermieri a disegnare. Gli incontri duravano delle ore, nel più assoluto silenzio.

Io ricordo ancora i nomi di queste persone, dapprima erano 5. C'erano tre fratelli, due fratelli e una sorella Elda, Eldo e Gino (credo che venissero da intorno Chiusi), c'era Roberto, poi c'era Alberto. Erano malati di mente e mi ricordo benissimo i caratteri di tutti loro. Alberto non parlava mai, fumava continuamente sigarette a testa bassa. Me lo ricordo come se fosse ora e dal suo comportamento si capiva benissimo il suo rovello sedato. Elda non parlò mai, in tutti quegli anni, 10, una volta sola mi disse una cosa che poi vi dirò. Eldo, il più loquace, aveva una capacità artistica espressa attraverso l'invenzione di un mondo che lui chiamava “mondo oasi” e che aveva disegnato in una cartellina: quel mondo era raffigurato da una sfera dentro la quale c'era tutto quello che era bello, tutto il resto non c'era. Ed era un'intuizione felicissima.

Io avevo letto, poco prima, e studiato all’Università, la teoria di Weber, che teorizzava che un luogo potesse essere autonomo a condizione che potesse avere all'interno un fiume che lo attraversava. E il mondo oasi di Eldo era così. Era una sfera attraversata da un fiume per cui gli domandai, ma per scherzo. "Ma tu la conosci la teoria di Weber?". Lui si irrigidì, mi guardò e mi disse: "Ma dove sta di casa?" Era spiazzante. Però era l'unico con cui si potesse parlare. Gino, l'altro fratello, cercava sempre una sigaretta, non faceva altro. Roberto invece raccontava sempre che d'inverno gli buttavano in testa un lenzuolo inzuppato d'acqua gelida che lo costringeva a dire "Ah" in maniera da poter ricevere la terapia che non voleva.

Questi sono alcuni cenni relativi agli aspetti caratteriali di queste persone che poi in dieci anni non hanno mai dato fastidio, mai. Abbiamo fatto feste da ballo, ci siamo incontrati a pranzo, a cena, ognuno di loro con il carattere che ho raccontato poc'anzi ma sempre così anche perché questi incontri servivano a conoscerli, per capire quali erano, a parte le fisionomie, le abitudini relazionali che non c'erano, c’era il silenzio che comunque era un racconto, un racconto forte. E da lì capimmo come si poteva affrontare questo nuovo spettacolo, perché questo era il problema dal momento che il teatro era la modalità con cui la comunità del paese si interrogava e si esprimeva davanti al pubblico, di fronte al mondo tra virgolette, anche se era un mondo vicino e non solo lontano. E allora venivamo qui, a parlare con loro.

Io ricordo che avevo portato con me mio figlio Francesco che aveva 8 anni perché vedesse altre persone, diverse da quelle cui era abituato, i famigliari, gli amici e lui veniva, guardava e non chiedeva niente. Stava lì. Così pian piano venne fuori una scaletta; solo che io avevo bisogno di una spalla scientifica che accettasse quella interpretazione della malattia mentale ma soprattutto tenesse conto del contatto umano, della normalità seppure modificata dalle terapie, di un contatto umano libero, perché lì erano liberi. Si c'erano gli infermieri ma da dove risiedevano loro al centro del paese passavano 150-200 metri che percorrevano sempre da soli e dove incontravano sempre gente a cui si rivolgevano magari per chiedere una sigaretta e comunque rispondevano al saluto soltanto con un cenno della testa.

Allora incontrai Vieri Marzi all'ospedale di Montepulciano. Mi ricordo ancora questa figura alta, magrissima, con due occhi acuti a cui raccontai la scaletta dello spettacolo; gliela lessi. Stette in silenzio per una manciata di secondi: mi aspettavo che mi dicesse "Ma va". Invece no, si alzò in piedi e mi disse "Facciamolo, facciamolo". Io dissi "Ma parliamone". E lui "Fate. Fate, fate". Il problema 'era quello di affrontare drammaturgicamente quella storia e la scelta fu quella di invitarli ad uno spettacolo fatto in loro onore.

Così scegliemmo il tema della libertà che ci era particolarmente caro. Scegliemmo il fatto della resistenza, del 1944 quando ci fu la famosa battaglia contro i fascisti mandati dal prefetto Chiurco a fare un rastrellamento e che furono cacciati dai 30 partigiani che stavano lassù. Scegliemmo così il tema della libertà. Utilizzammo un testo già scritto e rappresentato nel 1969, dove i partigiani parlavano di libertà, in un momento di allentamento della tensione, nascosti in un bosco, vicino al paese; parlavano di libertà coi loro diversi orientamenti politici perché era questa la realtà in quel momento. E il tema della libertà era fortissimamente sentito da tutti loro, da quelli veri (che erano ancora tutti vivi) e che fu trasferito sul testo.

Parlammo però anche della realtà di un'altra malattia mentale, quella di un mezzadro che negli anni 50 si era nascosto sul tetto del podere e che non voleva più scendere perché aspettava che gli venissero fuori le ali e solo allora sarebbe sceso. Quindi due aspetti della malattia mentale molto vicini fra loro ma trattati in modo diverso dal punto di vista umano perché il malato del podere stava sul tetto e i suoi familiari stavano giù e gli parlavano, mentre per quanto riguardava gli altri era completamente diverso perché venivano da famiglie che erano state costrette a ricoverarli in un ospedale psichiatrico.

Alla ‘prima’ tutto andò bene se non che uno degli interpreti dello spettacolo (uno degli attori che interpretavano i matti, ma comportamento previsto dal copione) si mise a fare una cosa che si presumeva avrebbe potuto fare uno di coloro che stavano seduti di fronte al palcoscenico: prese un martello e ad un tratto cominciò a sbatacchiarlo sulle tavole del palcoscenico rompendo l’equilibrio della scena, provocando disorientamento. Gli attori che interpretavano i partigiani lo zittirono brutalmente così mentre si parlava di libertà si concretizzò un’azione teatrale interrotta. Gli ammalati veri, in platea, reagirono negativamente perché quel fatto dava noia anche a loro perché capivano che era un elemento disturbante tant'è vero che in quel momento i cinque "finti" matti (adopero questo termine che era di uso comune) dovettero soccombere perché i partigiani, credendo che fossero il nemico, cominciarono a sparare uccidendoli. E i cinque matti veri non capivano che cosa succedeva perché avevano capito che gli altri cinque erano l'immagine speculare di loro. Il problema era qui: venivano ammazzati negandogli la libertà.

Così si arriva alla questione del finale. Io ero per lasciarlo così. Vieri no, disse no perché un segnale di speranza bisognava darlo. Mi ricordo che tre giorni prima della prima, alle cinque di mattina, stavamo ancora girando per il paese insieme a lui cercando una soluzione. Lui me ne proponeva tre quattro, cinque per volta, tutte irrealizzabili secondo me dal punto di vista della linea drammaturgica. Non convincevano non solo me ma anche i miei collaboratori che erano Marco Del Ciondolo, Vittorio Innocenti, Mari Rosa Ceselin che tra l'altro insegnava qui alla Facoltà di Lettere e con cui ci scambiavamo continuamente i nostri messaggi. Finchè Vieri disse alle cinque del mattino: "Facciamo che uno di loro si rialza e tira su un edifico, una casa”. Facciamolo. E poi? Li facciamo rialzare tutti. E poi? Accendiamo un fuoco. D'accordo. E così facemmo. Avevamo trovato un equilibrio che ci sembrava irraggiungibile, che ci sembrava retorico e forse lo era. Ma perlomeno era l'unica soluzione non negativa che ci orientava a risolvere un problema di accoglienza e di percezione della realtà che avrebbe potuto portare anche a situazioni difficoltose, noi non lo sapevamo, a situazioni reattive da parte della gente e che ci avrebbe creato difficoltà.

Ma tutto questo non accadde e lo spettacolo fu accolto molto bene. Infatti alla fine con gli psichiatri presenti e ce n’erano tanti, ci mettemmo a fare una tavola rotonda lì nella sede del teatro e andammo avanti per un bel po' fino all'alba della mattina dopo discutendo tutto quello che aveva detto lo spettacolo, i significati, quelli evidenti, quelli meno evidenti, le difficoltà, quello che avevamo sofferto, l'ansia, la tensione, il desiderio di avere un risultato positivo per tutti, compresi loro. E questo fu un sentimento che ci accompagnò per tutto il periodo delle prove. Iniziavamo a gennaio e andavamo in scena a luglio, quindi sei o sette mesi di questa apertura nei confronti della comunità e così in quel momento si capì che il problema non c'era; che l’ unico problema poteva essere nostro nell'accoglierli in un certo modo o in un altro. Ben vengano alcuni conflitti, se ci fossero stati… li avremo accolti sul piano umano. Ma nessuna delle persone del paese disse "lo non voglio", Nessuno, nemmeno uno e questo ci confortò veramente. Concludo, ma forse volevo dire anche altre cose che mi sfuggono …Ecco…in uno degli incontri che facemmo nella sala Palmerini, mi pare fosse una grande sala con grandi vetrate, dove c’erano trecento persone dell’ospedale, appena entrati mi sentii dare una grande sberla ma così forte che mi buttò quasi in terra. Mi voltai e c’era una signora che mi disse “Eh, hai visto se ti ho fatto una carezza!”. “Eh, sì” E capii che era quello il contatto…Poi una delle volte che venni qui a parlare con loro e disegnare non portai mio figlio. Non mi ricordo perché, forse era a scuola. E venne Elda che non aveva mai parlato, mai. E che mi disse: “Ma Francesco dov’è?” Capii allora tutto quello che c’era da capire in quel silenzio.


Dimenticavo il titolo “Cavalieri della non rotella”. Non si sapeva che titolo dare. Era accaduto che qualche settimana prima era venuto a Monticchiello un signore che veniva da un altro ospedale psichiatrico, forse di Arezzo, che si chiamava Spadi, era un maestro elementare che aveva scritto un libro il cui titolo era “La mia vita più non posso”. Mi chiamò dopo la presentazione del libro e mi disse “Vieni qua, ma lo sai perché a noi matti ci chiamano gente che non ha una rotella?” “Non lo so” “Perché non è che a noi ci manca una rotella, è che noi possediamo una non rotella”. Era il 1989.