Lavorare in manicomio - Esperienze e memorie da un mondo ‘altro’
Silvia Folchi, Videodocumentazioni
Lavorare in manicomio è un progetto di ricerca sul lavoro nei settori tecnici e produttivi dell’Ospedale psichiatrico di Siena. Tra gli obiettivi, un video che riprende ed estende un documentario già prodotto da Videodocumentazioni nel 2007 dal titolo La vita chiusa che aveva già preso in esame il lavoro medico e infermieristico. La tecnica dell’intervista è il filo comune tra i due documentari dal punto di vista autoriale.
Working in an asylum is a research project on how the technical and productive sectors of the Psychiatric hospital of Siena worked. Among the objectives, a video that quotes and extends a documentary already produced by Videodocumentazioni in 2007 entitled La vita chiusa (The closed life) that had already examined the medical and nursing work. The technique used in the interview is the common thread between the two documentaries from the authorship point of view.
«Di norma, il lavoro sul campo postula che si lasci fisicamente la «casa» (comunque la si definisca) per viaggiare entrando e uscendo da qualche ambiente distintamente diverso. Oggi, l’ambiente può essere l’altopiano della Nuova Guinea; o può essere un vicinato, un’abitazione» (1).
Lavorare in manicomio. Esperienze e memorie da un mondo ‘altro’ è un progetto di ricerca dove il “vicinato” è l’Ospedale psichiatrico San Niccolò di Siena. Tra gli obiettivi, un video sul lavoro nei settori tecnici del San Niccolò che riprende ed estende un documentario dal titolo La vita chiusa. La vita chiusa fu a sua volta un progetto voluto da Francesca Vannozzi, docente di Storia della Medicina all’Università di Siena, che prese in esame il lavoro medico e infermieristico e che fu prodotto da Videodocumentazioni nel 2007, nell’ambito di un programma di ricerca più ampio e multidisciplinare riguardante la storia dell’istituzione manicomiale senese. La tecnica dell’intervista è il filo comune tra i due documentari dal punto di vista autoriale.
Questa ulteriore serie di interviste di Lavorare in manicomio rivolte a ex dipendenti del San Niccolò è andata infatti ad indagare il lavoro nei settori più tecnici e produttivi del villaggio manicomiale cercando di inquadrare le specializzazioni ed i livelli professionali da cui sicuramente dipendeva anche una maggiore o minore vicinanza al lavoro con i ‘matti’.Il documentario che ne è nato è stato proposto in una breve anteprima (2) al Convegno Un OP di nome San Niccolò – Storie e memorie della psichiatria senese a 40 anni dalla legge Basaglia tenutosi a Siena dal 20 al 22 settembre 2018, e sarà presentato nella versione finale il 6 dicembre 2018 in occasione della giornata conclusiva degli eventi della Memoria dei 200 anni del San Niccolò di Siena.
Costruire un lavoro di 30 minuti, con oltre 10 interviste, ha aperto una prospettiva su realtà diverse di un ospedale che conoscevamo soprattutto attraverso le carte e per lo più di periodi storici più antichi. Creare quindi una coerenza narrativa tra la storia e un passato molto più recente è stata sicuramente la sfida più grande.
Non abbiamo mai pensato ad interviste concluse, complete, compiute, perché abbiamo lasciato che ognuna vivesse di vita propria, conducendo le riprese quando possibile nei luoghi stessi delle attività lavorative degli intervistati e approfondendo anche gli aspetti più tecnici delle mansioni svolte. Le interviste sono state comunque in parte precedentemente preparate, cercando di avere più informazioni possibili sui settori lavorativi nei quali volevamo indagare e sul ruolo degli intervistati in quel settore. Ovviamente, quello che non potevano trovare nelle informazioni era il carattere delle persone che, in ogni intervista,va in qualche modo gestito con empatia, cercando di domandare o non domandare in modo esplicito a seconda della persona, utilizzando un metodo di intervista non del tutto strutturato, procedendo certe volte anche a “braccio” con domande che sono nate nel corso del dialogo eche hanno dato spunti ad argomenti interessanti da approfondire.
Considerando che gli intervistati non erano abituali frequentatori degli schermi, e ipotizzando che avrebbero guardato l’intervistatore e non la videocamera, tecnicamente abbiamo evitato le riprese di profilo che risultano estremamente impersonali e che creano un piano visuale “separato” e troppo fotografico rispetto allo spettatore, preferendo mettere sempre l’intervistato di fronte all’intervistatore e in favore di camera. Scegliendo quindi di proposito di perdere l’immagine dell’intervistatore, abbiamo avuto come vantaggio una forma di resa fotografica che meglio si adatta ad un documentario; come conseguenza, nelle riprese l’intervistato risulta al massimo “di trequarti”. Pensare al montaggio, ai tagli da fare, a cosa tenere, mentre facevamo le interviste non era immediato, ma avere un’idea guida ci ha sicuramente aiutato da subito.
Le persone intervistate, che abbiamo rintracciato a Siena con quello che possiamo chiamare il meccanismo del “passa-parola”,avevano lavorato in vari settori del San Niccolò.Abbiamo rintracciato per primo un infermiere, diventato poi fornaio e che lavorava soprattutto in dispensa Paolo Corsi (3), per il suo tramite abbiamo conosciuto un altro infermiere (in seguito ultimo mugnaio del San Niccolò) Rino Elianti. Il giorno dell’intervista che per Corsi ed Elianti avevamo organizzato insieme per prossimità logistica ed affinità del servizio (molino, forno e dispensa), si è presentato accompagnandoli anche un altro infermiere Bruno Lorenzini (poi anche lui fornaio e all’occasione pasticcere). Parlando con Enzo Grassi (Segretario generale della Società di Esecutori di Pie Disposizioni e del San Niccolò) e Goliarda Tabani (una delle assistenti sociali) sono tornati alla memoria i nomi delle suore, delle quali due vivono ancora a Siena (Suon Cecilia Neri e Suor Antonietta Piludu) e sono state disponibili a raccontare la loro esperienza all’interno del guardaroba del San Niccolò. È stato intervistato il farmacista Sergio Rinaldi che si è di nuovo infilato il camice all’interno della farmacia e ha ripercorso, con la gestualità sapiente che non solo la mente ma anche le mani non dimenticano,le procedure per alcune preparazioni farmaceutiche. E poi Dario Refi uno dei nove barbieri, nonché batterista del Complesso musicale “I Niccolini” che allietava le feste che venivano organizzate durante l’anno per i ricoverati. Marcello Nucci infermiere e poi barista, ed altri ancora. Infine, Fabio Lensini il fotografo che lavorava per la Foto Grassi di Siena che,come Società esterna, aveva l’incarico di fotografare ogni nuovo ricoverato dell’Ospedale psichiatrico. Gli intervistati erano al corrente delle finalità delle interviste, e rassicurati sul successivo utilizzo delle stesse.
Per ognuno di loro si è trattato di interviste narrative con una prima parte biografica finalizzata a conoscere le informazioni biografiche di contesto: “chi sei” e quindi la famiglia di origine (provenienza, residenza, condizione sociale), la scolarizzazione, l’ingresso nel mondo del lavoro e gli eventuali lavori svolti prima di lavorare in manicomio, la costituzione della propria famiglia, un evento significativo, ed eventualmente cosa è successo dopo quell’evento particolare per scoprire allo stesso tempo quanto l’intervistato fosse incline a raccontarsi. In questa prima parte è stato l’intervistato che ha determinato ciò che riteneva importante raccontare di sé e ciò che non lo era, poi sono arrivate le domande più precise e dirette. Porre domande in modo informale ha creato un’atmosfera tranquilla dove nessuno si è sentito in verità esaminato ed abbiamo accettato di “lasciar parlare” anche in quei casi dove la stessa cosa veniva ripetuta più volte, nella convinzione che questo ripetere potesse essere un modo per il nostro testimone di riprendere il filo di un suo percorso mentale dal quale, sempre in piena autonomia, magari aveva divagato.
E infatti, nonostante che l’ambito generale da trattare fosse preordinatamente per noi ben chiaro con una sequenza di item da seguire (più che una vera scaletta di domande sull’argomento scelto), abbiamo comunque sempre trovato insieme all’intervistato temi peculiari, che andavano a riagganciarsi coerentemente a ciò che ci interessava. L’intervista ha di conseguenza seguito il principio di articolare gli item con poche domande non soggette ad una rigida formulazione, dal momento che il nostro testimone, nel costruire il proprio discorso, poteva liberamente spaziare tra temi che emergevano alla memoria, e che magari rispondevano, anticipandole o modificandole, altre domande che una scaletta prestabilita avrebbe potuto contenere; quasi sempre quindi, la conversazione è stata lasciata scorrere e, di norma, abbiamo preferito non interromperla quasi mai, lasciando spesso l’intervistato libero di condurre un dialogo abbastanza volontario, con la sola accortezza che non diventasse una conversazione totalmente a “ruota libera”, dove ogni connessione è poi possibile; solo in un caso abbiamo utilizzato quello che in antropologia si chiama “utilizzo di domande ad imbuto”, partendo cioè da quelle più generali per poi “stringere” a quelle specifiche.
Le interviste si sono mosse tra un tema e l’altro, tra un testimone e un altro e in alcuni casi una sorta di modalità polifonica diretta ci ha permesso di unire i vari ricordi che sono diventati gli elementi della storia di un gruppo (fornai e mugnaio). Simile sistema a più voci (però “in differita”)è emerso per le interviste alle due suore che, pur incontrate infatti separatamente, si sono raccordate con precisione nei vari aspetti, compresi quelli della sfera caratteriale.
A seguire,i temi delle conversazioni hanno riguardato la collocazione lavorativa in manicomio con la data di assunzione, le eventuali tappe intermedie, la data di uscita, i ruoli svolti o la carriera. E poi le motivazioni: come si giunge alla decisione di lavorare in manicomio; scelta individuale o indirizzo condiviso con altri (familiari, amici), ragioni di urgenza economica, aspettative economiche, considerazione sociale, vicinanza o prossimità con la residenza, interesse per la condizione psichiatrica, vocazione morale e/o professionale (lo vedremo con le suore), casualità. L’eventuale formazione ricevuta all’ingresso al San Niccolò o negli anni successivi,la composizione dei gruppi di lavoro, e i ruoli svolti. Il primo giorno di lavoro al manicomio, le impressioni, le dotazioni della mansione (abbigliamento, chiavi, strumentazioni), l’istruzione sui doveri e sulle forme di controllo (orari, passaggi di consegne, meccanismi di controllo orario), l’inquadramento gerarchico formale (nell’organigramma di reparto) e informale (anzianità, gerarchia tra ruoli e reparti). Inoltre, la descrizione del reparto o del servizio in generale, le mansioni inerenti il proprio ruolo e le figure con le quali si era messi in contatto. La descrizione delle interazioni, i ricordi di persone in particolare anche per aneddoti.
Ma abbiamo anche chiesto di inquadrare il proprio lavoro/settore nel contesto del villaggio manicomiale: da dove provenivano le richieste di servizi, quali altri settori dipendevano dal contributo del settore in cui si è lavorato (il forno dal molino, il guardaroba dalla lavanderia per esempio sono i più ovvi), facendo raccontare l’organizzazione e i processi lavorativi con linguaggio anche tecnico spesso connesso a quello gergale.
Inoltre, far raccontare su eventuali collaboratori, sui colleghi: le loro attitudini individuali, le competenze, il carattere, la compatibilità, la dedizione, per focalizzare in generale com’era “lavorare per i matti”. Quale comprensione o cosa si sapeva delle diagnosi dei ricoverati, se e come si cooperava con le terapie e come ci si relazionava con i medici o con gli infermieri specializzati nella cura per ricostruire un quadro generale di cosa volesse dire lavorare in un manicomio, lasciando che gli intervistati si sentissero liberi di esprimere valutazioni e supposizioni personali anche sugli aspetti della malattia mentale alla quale erano stati vicini.
Ancora, abbiamo chiesto come si valutava l’efficacia dell’impegno lavorativo dei ricoverati alla luce dei principi ergoterapici; quali competenze, abilità si rivelavano nel lavoro degli internati; con quali modalità avveniva il loro contributo e con quale affidabilità, precisione, continuità o perizia (Poldino al molino e il sarto romano in guardaroba) e quindi com’era “lavorare con i matti”.Se si informava sull’andamento lavorativo dell’internato, se c’erano premi o punizioni. Se esisteva una forma di remunerazione per i malati cooperanti e impegnati nel lavoro (anche semplici mance). Qual era l’amministrazione economica del settore o reparto: chi organizzava, quali erano le priorità, eventuali lavori in conto terzi(lo abbiamo trovato nell’attività del guardaroba con l’affidamento a sarte senesi della confezione di giacche e pantaloni da uomo, e con il fotografo).
Infine, come si è vissuto il cambiamento introdotto dalla Legge 180,le tappe del mutamento nella gestione degli ultimi decenni di vita manicomiale (raccogliendo in questo caso soprattutto i ricordi di Andrea Friscelli psichiatra e psicoterapeuta all’Ospedale Santa Maria della Scala e attivo da molti anni nel terzo settore cittadino). In che modo le stesse tappe si fecero sentire nella vita dei reparti e/o nella gestione delle attività dei servizi, ma anche le reazioni di fronte ai cambiamenti prodotti dalla riforma dell’assistenza psichiatrica. Per concludere abbiamo accettato aneddotiche su eventi o persone particolari, storie buffe o drammatiche.
Forse molti dei degenti del San Niccolò rimangono sommersi nella memoria degli intervistati, ma le loro riflessioni ci hanno certamente raccontato la storia di tutti, anche di quelli perduti nel tempo, poiché si è raccontato del lavoro che era co-elemento della vita al manicomio. Anche perché alla fine quello che non sappiamo di tutti i ricoverati con esattezza, lo recuperiamo comunque nei ricordi dei nostri intervistati che, in qualche modo, con ciò che hanno raccontato hanno inteso anche darne conto. Abbiamo avvertito in ogni loro racconto, e il documentario lo dimostra, il sentimento di responsabilità del raccontare che scatta in loro che ancora “ci sono” nei confronti di molti colleghi e degenti che non ci sono più; sentimento che sembra spingerli quasi a ricostruire il passato con la massima precisione, fuori da ogni mistificazione o credo sociale pur rammentando spesso un contesto storicamente e in alcuni particolari periodi anche politicamente ben definito.
Nelle prime parti dei colloqui ci sono sempre brevi racconti, poi le parole iniziano a moltiplicarsi e rammentano quel microcosmo umano costretto a vivere e a lavorare spesso nel continuo confronto con una malattia che faceva paura ma anche sorridere. Nel corso delle interviste il linguaggio si è fatto preciso, senza sbavature, anche dialettale in alcuni momenti. Con precisione sono riportati eventi di cui gli intervistati sono stati protagonisti, certo così come li hanno percepiti, però nella onestà del riferimento che non è mai risultato ideologico o precostituito.
Certo dai racconti è emerso spesso uno sconforto progressivo legato ad un ambiente ed a professionalità che sarebbero da lì a breve andate a scomparire(soprattutto ricordando gli ultimi periodi che fecero seguito all’emanazione della Legge 180), ma mai con toni che potevano richiamare uno sfacelo organizzativo di quell’ente ospedaliero così importante per Siena.
Ogni intervistato ha scelto un punto di vista personalissimo, ma non cieco o ristretto e alla fine ogni racconto ha conferito una dimensione di coralità che certo rappresenta uno dei maggiori fascini che emergono dal documentario. Saltano fuori nomi, certe volte neppure quelli, ma di sicuro “quello… come si chiamava?” o “quell’altro” diventano protagonisti e si illuminano a tratti, per poi scomparire subito dopo in mezzo alla calca degli altri nomi o volti che tornano alla memoria. Alla fine non si sarebbe più smesso di elencare colleghi, degenti, medici e certe volte era l’intervistato che parlava a nome loro. Spesso sono scorsi davanti ai nostri occhi nei volti degli intervistati i ricordi di inutili sofferenze,è bastato un dettaglio per capirlo. Lo scuotere della testa, lo stringere delle labbra hanno evidenziato sconcerti o sentimenti di impotenza per certe situazioni di malattia e di prassi mediche non del tutto comprese.
Il ritmo dei ricordi è diventato a volte incalzante e le immagini che ne sono uscite sono nitide, prive di orpelli e soprattutto nessun intervistato ci è apparso compiaciuto nel sentirsi “attore”. Di sicuro perché dentro ad ogni ricordo ci sono padri, madri, fidanzate, ragazzi, bambini, brividi di freddo, le urla, la confusione, i vaneggiamenti dei malati gravi, dei più devastati dalla malattia e le parole e gli atti di quegli uomini in grado invece di conservare ancora un po’ di lucidità. Ma ci sono anche momenti di allegria e spensieratezza e ricordi a favore dell’intera comunità del San Niccolò.
(1) Clifford James, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 75.
(2) https://youtu.be/-NUdSJ4h3f4; http://vimeo.com/298824785. Il documentario nella versione finale è sottotitolato per i non udenti.
(3) Molto comune era la prassi di entrare al San Niccolò con un corso-concorso da infermiere generico per poi essere trasferiti con concorsi interni ai cosiddetti Servizi esterni, quelli cioè fuori dai reparti medici, ma all’interno del villaggio manicomiale.
Clifford James, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
Antonio Bartoli, Silvia Folchi, La vita chiusa, Videodocumentazioni, Siena, 2007.