GENTE VANA
Follia e pazzia di una città
Essendo uomo di teatro, l’intervento ripercorre la traccia di un possibile spettacolo. Nel racconto si intrecciano i ricordi di mio padre Livio Burroni che ha lavorato al San Niccolò dal 1945 al 1981, un po’ di storia della sua vita, e altre testimonianze letterarie e storiche che riguardano il rapporto della città di Siena con la pazzia e/o con la follia, ed è proprio sulla differenza tra questi due termini che si centra il mio racconto: “pazzia” come malattia mentale e sofferenza, “follia” come creatività fuori dagli schemi ordinari.
Being a theater man, the intervention traces the trace of a possible show. In the story are intertwined memories of my father Livio Burroni who worked at San Niccolò from 1945 to 1981, a bit 'of history of his life, and other literary and historical evidence concerning the relationship of the city of Siena with insanity and / or with madness, and it is precisely on the difference between these two terms that my story is centered: "madness" as a mental illness and suffering, "madness" as creativity outside the ordinary schemes.
PREMESSA
Ho presentato al convegno quello che vorrebbe essere una traccia di un possibile spettacolo.
Piuttosto che trascrivere alla lettera l’intervento preferisco dare qui la struttura reale che avevo davanti e sulla quale andavo narrando-improvvisando con la tecnica dello storytelling puntando gli occhi solo sulle parole in grassetto.
Si avrà quindi una struttura a quadri che intrecciano i ricordi di mio padre Livio che ha lavorato al San Niccolò dal 1945 al 1981, un po’ di storia della sua vita, e altre testimonianze letterarie e storiche che riguardano il rapporto della città di Siena con la pazzia e/o con la follia, ed è proprio sulla differenza tra questi due termini che si centra l’idea dello spettacolo: pazzia come malattia mentale e sofferenza, follia come creatività fuori dagli schemi ordinari.
La storia comincia nel medioevo, da una delle tante taverne senesi esce un ubriaco e comincia a sbraitare...
S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ’cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
E via giù con altre imprecazioni senza rispetto per il Papa, l’Imperatore e nemmeno i propri genitori. Ma si capisce che non sono imprecazioni normali di un ubriaco, perché le parole non sono a vanvera come quelle di un ubriaco vero, ma sono perfetti endecasillabi che vanno a formare uno dei sonetti più famosi della storia della letteratura italiana.
E quindi Cecco Angiolieri era pazzo? Era folle? Era un poeta?
Gente vana, gente strana questi senesi che invece di scrivere sonetti alla maniera del Dolce stil novo a donne-madonne angelicate volevano dar fuoco al mondo
Pazzia e follia... c’è una differenza?
Risponderò a questa domanda un po’ con gli occhi dello storico e un po’ con quelli di Livio e di Francesco.
Ma prima di questo ci domandiamo: quali sono i personaggi scomodi che la città vuole allontanare, rinchiudere o far fuori?
SPQS Sono Pazzi Questi Senesi Qualcuno traduce così la sigla che, a modello di quella romana, troviamo in varie parti della città. Fanno cose strane questi senesi... come il Palio a fine Ottobre...
1321 la Commedia... poi Divina
Dante, che pure aveva soggiornato e goduto della bellezza della nostra città, si inserisce letterariamente nella guerra non solo militare ma anche culturale tra Siena Firenze.
A conclusione del XIII canto del Purgatorio, la nobildonna Sapia Salvani manifesta il desiderio di far giungere sue notizie ai familiari chiedendo al Sommo Poeta di farsene ambasciatore.
E fornisce a suo modo l’indirizzo di casa:
«Tu li vedrai tra quella gente vana
che opera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’ha trovar la Diana;
ma più vi perderanno gli ammiragli».
Del resto già nell’Inferno si era detto che frivoli e sciocchi come i senesi non arrivavano ad esserlo nemmeno i francesi:
«E io dissi al poeta: Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!».
Rispondeva a Dante anche Cecco Angiolieri
Dante Alighier, i' t'averò a stancare
ch'eo so' lo pungiglion, e tu se' 'l bue
ma qui risponde anche il nostro poeta vernacolare Ghigo Giannelli con un sonetto
Nel medioevo, c’è la convinzione
Che le cose ‘unn’andassero. Unn’andavano
Se a comanda’ ci andava un mascalzone.
Ma a Siena, dove invece comandavano
dei fior di galantomini, persone
che del su’ posto ‘un se n’approfittavano,
ci si stava no bene, ma benone.
E allora tutti quelli che contavano
a Siena ci venivan volentieri,
specialmente di qui, dalla Toscana.
C’è stato anche, per di’, Dante Alighieri.
Lui poi disse che s’era gente vana.
Fi una battuta, un c’è da facci un dramma,
ma vana sarà stata la su’ mamma.
1350 nel Decameron anche Boccaccio racconta della “bessaggine de’ sanesi”.
Nella decima novella della settima giornata: il marito sorprende frate Rinaldo che si sta trastullando con la moglie madonna Agnesa, ma la lei si giustifica dicendo che l’amico frate si era precipitato a casa perché il loro piccolo figlio aveva dei “vermini in corpo” che in poco tempo sarebbero giunti al cuore, provocandone la morte. Per fortuna frate Rinaldo conosceva alcune orazioni per liberarlo dal malessere, e così il bimbo era subito guarito. Il marito abbocca alla grande e in segno di eterna riconoscenza nomina il frate come padrino del figlioletto, organizzando una festa in suo onore con “buoni vini e confetti”.
Il marito di monna Agnesa era di Fontebranda e si diceva che chi beveva a quella fonte, allora la più importante della città, diventava pazzo.
Anche io, da tante generazioni ocaiolo e fontebrandino, ne ho bevuta assai di quell’acqua direttamente o indirettamente dai miei avi e quindi mi sento in qualche maniera... autorizzato a parlare del tema della pazzia.
Ma i nemici di Siena andavano oltre: Siena di tre cose è piena Di torri di campane, di figliol di troie e di puttane
Ma anche i senesi consideravano altri, diversi o lontani da loro, dei pazzerelli.
I montierini, gli abitanti di Montieri (un borgo che faceva parte della Repubblica senese che qui aveva le miniere di argento) erano per i senesi il paese degli stolti.
Ci sono tante novelle che raccontano la loro bessaggine, come quella che per rifare il tetto della chiesa con delle forti travi di ferro e non avendo i soldi per comprarle, piantano nei campi degli aghi.
Ma gli aghi non crescono e non diventano travi e allora si va a caccia di vespe, responsabili secondo loro della mancata crescita. Quando una vespa si ferma sulla fronte di un montierino un altro prende la mira e gli spara in fronte uccidendo entrambi.
Al rientro qualcuno chiede: Allora com’è andata la caccia?
E un montierino fieramente risponde: un di noi, un di loro!
Che vita ha fatto Livio prima di entrare a lavorare all’O.P. qualche traccia della vita di Maria Piroli (mamma di Livio e dunque mia nonna). 1870 (più o meno)
I bersaglieri sono appena entrati a Porta Pia (il trombettiere immortalato in vari dipinti e nella statua attualmente davanti alla porta) era il senese Niccolò Scatoli.
Più meno in quegli anni all’orfanotrofio di Foiano della Chiana di proprietà del Santa Maria della Scala viene abbandonato un trovatello, verrà chiamato Pietro Piroli. Il nome inventato ma, come per lasciare una qualche traccia ai neonati sconosciuti, si davano iniziali uguali (mentre invece a Siena potevano chiamarsi Scala Scali Gettatelli, Innocenti a Firenze – Esposito a Napoli).
All’alba del nuovo secolo, Maria ha 9 anni, in preda alla miseria la famiglia con 7 figli al seguito tenta la fortuna e emigra in Brasile nelle sterminate piantagioni di caffè, ma anche lì la vita è durissima, dopo 5 anni il ritorno in Valdichiana.
1918 Giulio Burroni nato alle Masse di Siena (allora l’immediata periferia fuori porta romana) torna dalla Grande Guerra e riprende a fare il falegname, va a Foiano e conosce Maria, si sposano e hanno due figli Iride e Livio.
Quando i bambini sono ancora piccoli c’è la separazione dei genitori, evento abbastanza raro all’epoca e soprattutto un’onta grave per una donna.
Maria infatti torna dalla famiglia a Sinalunga ma li si fa capire che lei in quanto separata è una poco di buono. In casa per lei e i figli non c’è posto, potranno accomodarsi in due stabbioli del porcile, ovviamente senza acqua, riscaldamento e servizi igienici.
Ogni mattina all’alba Maria parte da Sinalunga e fa 5 km a piedi per andare a lavorare alla fornace, 12 ore, stesso lavoro degli uomini ma metà stipendio, Dux dixit.
Maria era una che poteva impazzire e finire al manicomio che allora accoglieva anche le ragazze madri che altrimenti sarebbero morte di fame. Maria è una che in qualche modo ce l’ha fatta, si è aggrappata alla vita e ha tirato su due figli.
Dopo due anni la famiglia torna a vivere a Siena e va ad abitare in Fontebranda.
Che speranze aveva una donna allora e prima di allora se era povera, se era in difficoltà, se non aveva un uomo accanto?
Una via di salvezza era farsi suora, al di là di possibili percorsi mistici, in convento si aveva un tetto e si mangiava, poi certo c’era da sorbirsi la non facile vita conventuale ma in certi tempi non era difficile vivere ma sopravvivere.
La storia del manicomio e i ricordi di Livio
Quando a metà ‘800 il direttore Carlo Livi rinnovò in maniera sostanziale il manicomio senese introducendo l’ergoterapia con le varie officine di fabbri, falegnami, vetrai ecc... entrò subito in contrasto con le suore.
Secondo lui con il loro atteggiamento pietistico e la missione religiosa aumentavano i deliri dei pazienti.
Ma la Società Esecutori Pie Disposizioni, proprietaria della baracca non ne volle sapere, sia perché era un’istituzione profondamente cattolica sia perché le suore costavano pochissimo mentre assumere altri infermieri al loro posto sarebbe stato per loro decisamente antieconomico.
E così Livi perse la battaglia, le suore restarono e lui andò a dirigere un altro ospedale.
La comunità delle religiose era molto numerosa e su di loro Livio raccontava storie al limite del grottesco, come quando fu scoperto un... traffico di bucce di arancio che le suore raccoglievano senza tanta cura dell’igiene dopo i pranzi dei malati e che poi rivendevano per conto proprio alle locali industrie del panforte che le candivano. Ovviamente essendo anche più di 2.000 bocche con 2.000 aranci al giorno l’affare doveva rendere assai.
Alcune di loro erano analfabete. Dopo molti anni si scoprì come una suora anziana distribuiva le terapie alla sua camerata di 30-40 malati.
Ovviamente non c’erano soltanto le cure psichiatriche ma anche le normali patologie per le malattie più vari.
La suora prendeva le pastiche di tutti i tipi e di tutte le dimensioni e colori e poi si presentava ad ogni malato con questa manciatina multicolore: allora caro, te quale vuoi? Quella rossa? Quella gialla? O quella azzurrina?
Grande scandalo invece ci fu per un clamoroso risultato elettorale.
Prima della riforma Mariotti del 1968 che dette anche ai malati i diritti civili, voto compreso, all’O.P. veniva installato un seggio speciale dove andavano a votare solo le suore di lì.
Era scontato che tutti i voti fossero regolarmente attribuiti alla Democrazia Cristiana ma un anno ci fu una clamorosa sorpresa: 1 voto al PCI.
La comunità andò in subbuglio, la notizia varcò le mura del manicomio, e le autorità religiose avviarono un’inchiesta. Pare che la povera suorina individuata come colpevole del reato (e del peccato) si fosse difesa dicendo che lei mettendo una croce sopra la falce e martello intendesse con questo fare un gesto di riprovazione, come dire: questo no! Il comunismo proprio non lo voglio!
Donne particolari
Nel medioevo e nei secoli successivi fino almeno al ‘600 se una donna era un po’... particolare o diversa dalle altre poteva anche diventare una santa ma più facilmente poteva essere bollata come strega e i roghi non mancavano e la Santa Inquisizione non scherzava per niente.
Santa Caterina da Siena beveva l’acqua dove si lavavano le ferite degli infermi al Santa Maria della Scala, aveva le visioni... o le allucinazioni?
Qual era il confine allora tra santa, strega, malata, pazza?
Che fine avrebbe fatto se non ci fosse stato Raimondo da Capua che, inviato dalla Chiesa per capire che tipa era, non avesse certificato la sua santità.
Come sarebbe stata considerata se fosse vissuta nell’800 quando i manicomi erano in funzione?
Perché al San Niccolò venivano ricoverate anche le suore che... esageravano con i percorsi mistici e gli stessi conventi cominciavano a distinguere tra fede e allucinazioni.
Allora se una donna era un po’ troppo fuori dalle regole o era una santa o era una strega.
1590 l’inquisitore di Siena denuncia per stregoneria Camilla di Bino, ricoglitrice (cioè levatrice) di Montalcino, aveva cinquanta o sessant’anni. Sei figli e vedova. Il marito morto guerra di Siena resistenza di Montalcino “nel tempo della guerra di Siena et trovandomi sei figliuolini et trovandomi senza pane et così povera che non havevo da poter sotterrar il mio marito che mi fu sotterrato per l’amor di Dio, et trovandomi disperata”.
Si diceva che i neonati che erano stati toccati da lei poi erano morti.
La Santa Inquisizione dopo la lunga caccia agli eretici ora poteva finalmente tornare a occuparsi delle streghe.
Furono torture lunghe, durissime: strappi di corda, lunghi anche mezz’ora; la terribile stanghetta (morsa di ferro o di legno con cui venivano schiacciati le caviglie o i piedi).
E allora come quasi sempre succedeva la vittima confessava forse anche imbeccata dai suoi giudici che le suggerivano le fantasiose risposte.
“Trovandomi disperata mi detti al diavolo dicendo: Diavolo, vieni per me che mi ti dò et dono in carne et in ossa, in spirito et ogni cosa, e il demonio mi era comparso in forma di huomo vestito di nero, confesso di essermi data al demonio, di averne ricevuto poteri di morte”.
Non ci fu bisogno del rogo, distrutta dalle torture in prigione Camilla morì il 15 agosto di quell’anno, dicono le cronache “... forse di sua morte naturale”.
Ma un altro personaggio abitava in quei tempi lontani le terre senesi:
Brandano, detto il pazzo di Cristo.
Bartolomeo Garosi da Petroio nacque nel 1496. Dopo una gioventù dissipata di libertinaggio e gioco, si convertì e venne a Siena dove intraprese una vita fatta di stenti, elemosine e penitenze.
Si narra che una scheggia di pietra che lo aveva colpito in fronte e in un occhio zappando il campo fosse da lui interpretato come un segno divino. Viaggiò per l'Italia, la Francia e la Spagna, predicando penitenze e profetizzando.
Si recò presso la corte pontificia, insultando e distribuendo ossa di morto ai cardinali e al papa Clemente VII.
“catturato dalla guardia svizzera ed imprigionato ma fu liberato, ma poco tempo dopo guidava da Campo de' Fiori a Castel Sant'Angelo una torma di penitenti.
La leggenda ci racconta di un primo miracolo del pellegrino senese, gettato nel Tevere dalle guardie pontificie, scampò alla morte (forse sapeva nuotare?).
Tornò dal papa Clemente VII Medici e non si risparmiò:
Bastardo sodomita, per i tuoi peccati Roma sarà distrutta. Confessati e convertiti, perché tra quattordici giorni l'ira di Dio si abbatterà su di te e sulla città...
e la profezia si avverò: il 18 aprile del 1527 ci fu il sacco di Roma.
Brandano però era considerato pazzo ma santo.
Andò peggio ad un altro senese, Bernardino Ochino (dello stesso rione di Caterina).
Nato a Siena nell’Oca (e per questo soprannominato Ochino) a 7 anni era già frate francescano, divenne poi un grande predicatore e girava per tutta la penisola.
Nel 1542 a Venezia dal pulpito denuncia la carcerazione dell'amico, frate agostiniano, Giulio della Rovere come sospetto di eresia.
invitato a Roma per chiarimenti. Sentendo il classico foco al culo dell’Inquisizione, prima di finire sul rogo, fugge in Svizzera e via via in altri paesi dove era consentita maggiore libertà religiosa. Lui fu bollato come eretico ed ebbe ovviamente minor fama della sua conterranea, se infatti chiedete a Siena chi è Bernardino Ochino pochi sapranno rispondervi.
La città e l’O.P.
Nei personali ricordi fino alla sua chiusura sul San Niccolò fiorivano molti modi di dire.
Occhio finisci al 24! ... che era il numero civico di via Roma dove aveva sede l’O.P. (oggi 56)
Occhio finisci al cancellone! Con riferimento al grande cancello in ferro battuto ancor oggi esistente.
Ma c’era anche una certa autoironia dei senesi sul loro essere un po’... pazzerelli.
Ce lo racconta questo sonetto del 1910 di Momo Giovannelli.
IL MANICOMIO
Ma ‘l nostro Manicomio è ‘l più gran vanto
de la città di Siena. Fòr di lei
più nessuna pòl dire altrettanto.
Se ‘un ci fossi ma’ stato, ‘un lo dirrei!
A mèttel’altri maniomi accanto
a questo ‘ui di Siena Dio m’accei,
è come mètte un chiù vicino a un santo...
la mi’ ‘asa al palazzo Tolommei!
E, credi, ‘un è quistione d’upinione.
E’ ‘l più bello e ‘l più grande che ci sia.
O sta’ a senti’ che razza d’estensione:
va da Porta Romana a Camullia
e da Porta San Marco a la Stazione.
- Allora è tutta Siena? – Ha ‘nteso, via!
Dietro le mura.
C’erano dei personaggi che la società senese (come altre ovviamente) non voleva che restassero all’interno del proprio consesso civile.
Quindi se eri di disturbo o eri malato o eri comunque scomodo... o c’era il lazzeretto o la prigione o la condanna a morte e quindi il cimitero.... sempre dietro le mura perché i soggetti non disturbassero e fossero isolati dal resto della società civile... anche da morti nel cimitero.... non si sa mai che qualcuno li venisse la voglia di fare il fantasma.
Poi arrivano altre mura: breve storia del manicomio
Agli inizi del 1200, viene fondata la Compagnia della Madonna sotto le Volte del piissimo Spedale di Santa Maria della Scala, detto anche dei Disciplinati.
Nel 1762 la Compagnia fonda il piccolo Ospedale de’ pazzerelli a Porta S. Marco.
Nel 1785, Granduca impose laicizza la Società Esecutori di Pie Disposizioni.
1803: in via di Fontanella nasce un secondo asilo il "Ricovero del Bigi".
6 dicembre 1818. All’interno dell’antico convento di San Niccolò si apre l’ “Ospedale dei tignosi, delle gravide occulte e dei dementi” 15 uomini e 19 donne cui si aggiunsero gli “affetti da malattia del capillizio e della pelle” e le “donne che illecito amore aveva reso madri”.
Poi dal 1869 il San Bonifazio di Firenze non accetta più ricoverati da Arezzo, Pisa e Livorno e, da queste città, i pazienti vengono indirizzati a Siena. Occorre ricostruire e ampliare perché già nel 1868 i ricoverati sono 285 e l’anno dopo raggiungono già la cifra di 467.
Poi si arriverà progressivamente fino a 2000 ospiti e più di 600 dipendenti.
Il San Niccolò chiude definitivamente il 30 settembre 1999.
Nel 1945 Livio senza un lavoro, come tantissimi nell’immediato dopoguerra, si presenta al direttore dell’O.P. D’Ormea (in carica fino al 1952). Sa che si è liberato un posto per dirigere la legatoria e lui quel mestiere lo sa fare e non ci sono altri candidati.
La risposta fu secca “No! Abbiamo saputo che lei è comunista e prima di un comunista prendiamo uno senza mani!”.
La guerra fredda era già cominciata e Livio ebbe un bel dire che non era comunista ma socialista, niente da fare.
Poi la sera si ricordò che la Zia Emilia era stata al servizio dell’allora segretario della DC, il quale scrisse un bigliettino a lapis su un pezzo di carta a quadretti: “Si certifica che il signor Livio Burroni non è iscritto al Partito Comunista” e la mattina dopo entrò in servizio dove rimase fino alla pensione nel 1981.
La legatoria era l’impegno ufficiale ma ben presto l’impegno sindacale prese il sopravvento e diventò dirigente della Fiso-Cisl (sindacato prevalentemente democristiano ma dove resisteva una minoranza socialista) prima comunale, poi provinciale e via via fino ad entrare nel direttivo nazionale.
Chi c’era allora all’O.P.
C’era un po’ di tutto, una varia umanità per vari motivi lì confinata: malati, non malati, ex malati, orfani, ragazze madri, alcolizzati ecc.
C’era anche una delle eredi della famiglia Barilla che passò lì tutta la vita senza che mai qualcuno venisse a trovarla.
C’era una ricoverata che aveva come nome di battesimo Maiala, figlia di chissà quale peccato.
Due casi che mi hanno riguardato da vicino
La storia di Vasco
Vasco Guarguaglini era uno dei giovani aiutanti della legatoria. Veniva da Massa Marittima, la mamma era una ragazza madre e lo aveva piazzato nel collegio del prete. Pare che Vasco fosse particolarmente vispo e vivace e facesse spesso arrabbiare il prete. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando salì sul campanile e si mise a suonare le campane.
Il prete allora come atto di cristiana umanità lo fece internare al San Niccolò. La madre non mosse foglia e stava in attesa del compimento dei 18 anni per riprenderselo e mandarlo a lavorare in miniera. Livio si oppose e se lo... affigliolò.
Quasi sempre la domenica era a pranzo a casa nostra e spesso veniva in vacanza con noi.
Il nuovo direttore Reale lo convocò stupito da quello strano interessamento “Ma lei signor Burroni non sarà mica omosessuale?”... in sostanza non si spiegava si potesse così tanto occuparsi degli altri.
Vasco fu dimesso e si diplomò alla scuola alberghiera di Chianciano, iniziò una nuova vita in Inghilterra a Bournemouth e quando nel 1966 nacque il primo figlio gli dette come nome Livio.
La storia di Edina
La zia di mio padre Emilia Burroni aveva sposato un vedovo con due figlie, una era Edina Ferrandi.
Da Salicotto nel 1933 a seguito del risanamento del quartiere che sloggiò metà e più degli abitanti, la famiglia si trasferì a Ravacciano.
Edina lavorava allo Sclavo e fu violentata da un dipendente, quel fatto la segnò profondamente e da allora cominciò a dare segni di squilibrio.
Ad esempio a volte si affacciava nel giardino e gridava a tutto il vicinato “lo ‘un fo nomi ma ieri sera quando il marito è andato a gioca’ a carte... quella del terzo piano ha ricevuto il macellaio... chissà che ciccia voleva la signora? Ma io ‘un fo nomi eh...”.
Insomma era diventata una che dava fastidio e rientrava nella terza opzione che dettava la legge “Pericoloso a sé e agli altri o di pubblico scandalo”.
Morti i genitori, per la sorella, il cugino e gli altri parenti Edina non esisteva più, era al manicomio quindi era come morta, scancellata dal mondo.
Anche Edina veniva spesso a pranzo da noi, e passava con noi le vacanze di Natale, di Pasqua, le vacanze al mare ecc... Insomma era diventata una di noi.
Con noi era una vecchietta tranquilla, solo ogni tanto smarriva il senso del tempo:
Gliel’ho detto sai al macellaio se lei mi pesa la carne con la carta mi fa’ paga’ la carta come la carne! Ma quando? Eh sarà stato nel 37!
Quando dopo 15 anni di manicomio fu finalmente dimessa e doveva prepararsi ad andare alla Casa di riposo lei andò nel pallone.
Mia madre consigliò di prenderla una quindicina di giorni in casa per convincerla... i quindici giorni diventarono un mese, poi un anno... e così Edina ha vissuto con noi per 22 anni... il resto della sua vita.
Ricordi particolari di Livio dell’OP
Livio, oltre alla situazione dei malati e alle battaglie sindacali, ci raccontava anche le cose curiose che succedevano, le cosidette... cose da matti.
C’era chi faceva collezioni bizzarre: cravatte, mutande (tolte direttamente all’interessata se no non valeva), merde di bove raccolte dopo il lavoro alla colonia agricola dell’Orto de’ Pecci.
A volte veniva a casa mostrandoci ricette di cucina infinite scritte sul rotolo di una calcolatrice dove c’erano almeno un centinaio di ingredienti tutti con dosi dettagliate: pepe di Cayenna grammi 23.8, zafferano centigrammi 0.36, origano pugliese grammi 7.8 ecc. ecc.
C’era chi faceva invenzioni geniali come la cartuccia ripiena di spezie che sparata su un tordo o una beccaccia lo faceva cadere a terra già cotto e speziato.
C’era quello che ogni tanto andava in crisi e minacciava Livio agitando una boccettina. “ Beva, beva... morirà all’istante perché questo non è veleno ma velenno!!! (la doppia N evidentemente secondo lui ne rafforzava l’azione)
E quando fu trasferito all’ufficio personale ci raccontava che c’era quello che oggi potremmo chiamare un computer umano. Un malato aiutava nella gestione del personale e sapeva a memoria turni, servizi, sostituzioni, malattie e ferie di tutti i 600 dipendenti.
Le battaglie per i degenti
Livio da sindacalista non si occupava solo di migliorare la qualità del lavoro dei dipendenti ma aveva profondamente a cuore anche la difesa delle condizioni di vita e della dignità dei ricoverati.
Riuscì a combinare una convenzione con la Lebole di Arezzo che passava all’O.P. i capi difettati, che erano senz’altro meglio dei vestiti sdruciti e mai stirati e perennemente fuori taglia che c’erano allora.
Ci vollero più di due anni per convincere l’economo a dotare i gabinetti di carta igienica.
Sempre molto stupito di questo per lui strano interessamento il direttore Reale sbottò con: “Lei metterebbe anche i fiori in tavola dei malati!”
“Perché no – rispose Livio - se si mettono ai tabernacoli delle tante madonnine del manicomio perché non anche agli esseri umani?!”
Storie di psichiatri
Oltre a rinchiudere le persone, il manicomio si occupava anche di curarle o le teneva solo in custodia?
La storia parrebbe dirci che fino a che il numero dei ricoverati era contenuto qualche cura si faceva o si tentava, ergoterapia, bagni caldi e freddi ecc. poi quando diventarono tanti, più di 2.000 la custodia inevitabilmente prese il sopravvento e quando arrivò Livio al San Niccolò la situazione era più o meno questa.
Allora non c’era la specializzazione in psichiatria: neurologia e psichiatria erano riunite nella Neuropsichiatria.
Si dice che chi non riusciva a trovare altre specializzazioni finiva col fare Medicina legale o Neuropsichiatria.
E a volte pare che anche gli psichiatri non fossero tutti... rifiniti.
Magari qualcuno intraprendeva quegli studi per curare se stesso o forse stando in manicomio... acquistava un grado di pazzia al giorno (era un modo di dire per sottolineare ironicamente la trasmissibilità della pazzia per chi ci lavorava).
Un medico aveva spesso crisi mistiche e i colleghi lo trovavano spesso inginocchiato davanti a uno dei tanti tabernacoli... “Su dottore... via ... si alzi...!”
Qualcuno approfittava del ruolo e faceva lavare le proprie macchine ai malati. Arrivò puntuale la denuncia di Livio al direttore alla quale seguì un lungo documento dei medici (che oltre alla macchina avevano sporca un po’ anche la coscienza) che parlava dell’utilità dell’ergoterapia.
Aiutatemi!
Livio soffriva di ipocondria. Il periodo passato a Poggibonsi dopo l’8 settembre del ‘43 fino alla Liberazione di Siena il 3 luglio del ’44, sotto la TODT (l’organizzazione nazista che ti permetteva di non andare a combattere con la milizia fascista) aveva lasciato pesantemente il segno. Quasi un anno a riparare i binari della linea Siena-Firenze sotto i bombardamenti alleati che puntavano alla distruzione della linea ferroviaria e la sensazione che ogni bomba ti sarebbe potuta cadere in testa.
“Curatemi da queste fisse!” chiedeva ogni tanto a qualche psichiatra ma la risposta era sempre la stessa: “Ma che vuoi che sia? Questi problemi ce l’hanno tutti e ci s’hanno anche noi!”.
Sigmund Freud
Nel 1899 pubblica Die Traumdeutung, L’interpretazione dei sogni e nel libro racconta un sogno fatto durante una sua visita a Siena.
Aveva sognato una doppia porta... cioè porta Romana e l’aveva interpretato come l’esodo del popolo ebraico...poi aggiunge “vicino a Porta Romana a Siena avevamo visto un grande edificio illuminato. Apprendemmo in seguito che si trattava del manicomio...”.
Se ne desume che il dottor Freud era un grande teorico ma si occupava così poco di clinica che nemmeno sapeva che a Siena c’era uno dei più grandi e importanti manicomi d’Italia.
La legge Mariotti
Si era fermi alla legge del 1904.
Prima della Riforma Mariotti del 1968 entrando in manicomio si perdeva tutto anche la capacità giuridica.
Il direttore era il padrone assoluto della vita dei ricoverati e nemmeno un familiare avrebbe potuto riprendersi uno di loro se il direttore non era d’accordo... una sorta di condanna con Fine Pena Mai... o Chissà.
Il senatore Luigi Mariotti del PSI, ministro della Sanità in 4 governi, pensa che i manicomi debbano assolutamente essere riformati e migliorati e istituisce una commissione per la legge di riforma nell’ottobre 1964 e anche Livio ne fa parte come rappresentante sindacale.
Nel settembre 1965 esce un articolo sul Corriere della sera... (secondo me dettato in buona parte da Livio che era anche amico e consigliere del ministro).
“Dolorosa situazione dei degenti in molti ospedali psichiatrici, dove il medico fa una rapida comparsa al mattino e poi sparisce per l’intera giornata, così che quegli ospedali assomigliano piuttosto a lager di sterminio germanici o a bolge dantesche”
Seguirono ovviamente le proteste dell’AMOPI Ass Medici Ospedali Psichiatrici Italiani ma alla fine nel 1968 viene approvata la legge 431 del 18 marzo.
Ricovero e dimissione volontari come negli altri ospedali.
Fine iscrizione al casellario giudiziario... il malato è malato e non delinquente.
Limite affollamento: 125 pazienti per divisione + 3 medici + 1 ass sociale + 40 infermieri.
CIM Centri Igiene Mentale sul territorio... concetti di cura, prevenzione e riabilitazione.
Equiparazione stipendi medici Op e ospedali... introduzione del tempo pieno.
Riqualificazione degli infermieri... lavoro in team.
1968 arriva il sessantotto (anche se in Italia arrivò nel ‘69)
Al di là delle tante belle idee rivoluzionarie, esistenzialismo e religione vanno a braccetto e la Sinistra marxista continua a occuparsi prevalentemente di bisogni materiali. C’è l’ineluttabilità del male e del destino, siamo nati per soffrire, la malattia mentale non esiste, i pazzi non sono pazzi ma sono solo diversi e per questo la società li rinchiude nei manicomi.
Malattia e diversità
La malattia mentale quasi sempre non è creativa ma anzi è ripetitiva, è una coazione a ripetere. La signora che batteva la testa sul muro a giornate intere quale creatività poteva avere.
E poi – si ribadiva con insistenza - chi può dire qual è la vera realtà e dunque qual è la sanità?
Ma se lo possiamo dire per tutti gli altri organi perché non possiamo dirlo anche per la mente? altrimenti cosa si cura?!
Ma se tutto è malato o tutto è sano allora tutto è diverso e quindi la malattia mentale non esiste.
Esistono i diversi e quindi di fatto lasciamo i malati veri al loro destino.
Psichiatria sempre più organicista
L’industria farmaceutica entra pesantemente nella cura psichiatrica appoggiando l’idea che tutte le malattie sono causate da squilibri organici e che quindi ci vorrà per ogni malattia (o solo per attutirne i sintomi) la pasticchina giusta.
Che ci guadagna l’industria da uno che cura con le parole? Un camice, una scrivania, un lettino?
Anche nell’O.P. arrivano gli psicofarmaci.
I malati non girellano più per il manicomio ma dormono sdraiati in qua e in là.
Le statistiche ci dicono oggi il 20% degli italiani fanno uso (abuso?) di psicofarmaci.
La legge Basaglia n.180 del 1978
L’obbiettivo non è più la riforma del manicomio ma la sua chiusura tout court.
Livio non è più nel direttivo nazionale FISO e nel 1981 va in pensione ma occupandosi da volontario della coop. Riuscita Sociale formata da ex pazienti rimane a seguire la storia dell’O.P. e la sua chiusura e non è molto d’accordo con quella legge.
Alcuni esiti poco felici della 180
Ritorno alla famiglia e rifiuto.
Gli appartamenti in affitto nei comuni, i “matti” isolati e visti male dai paesani.
Accentuarsi delle tensioni, fughe e tentativi di ritorno all’O.P.
Una riforma resa possibile anche grazie al massiccio uso di psicofarmaci che gli infermieri andavano ora a distribuire nei paesi della provincia.
Mi ricordo anch’io... quello che si prostituiva nei gabinetti per raccattare qualche euro... quello che dormiva al pronto soccorso perché non aveva casa... quello che passava le giornate a chiedere spiccioli per il Corso.
Un ragazzo giovanissimo, amico di noi di Lotta Continua che aveva già tentato il suicidio buttandosi dalla fortezza poi ricoverato (come da quel punto in poi si doveva) al reparto di psichiatria dell’ospedale per 15 giorni e che al terzo ricoverò si ammazzò davvero buttandosi dalla finestra dell’ospedale... poi un altro amico fuso da LSD e che ancora oggi vaga per la città senza aprire bocca... un altro morto per overdose.
Ma se oggi – diceva Livio – gli ex manicomi stanno diventando posti magnifici, sedi di Università o di hotel a 5 stelle perché non lo potevano diventare allora?
Ma qui il discorso si farebbe lungo e io ho provato a sintetizzarlo qualche anno fa con un’ottava sul settimanale LEFT.
Seguendo il Basaglia-pensiero
Se bastasse per vincer la pazzia
chiudere il manicomio... in modo uguale
potremmo debellare l’allergia
eliminando dentro l’ospedale
il reparto di allergologia
e per far diventar l’uomo immortale
seguendo il filo di questo pensiero
basterebbe chiudere il cimitero.
Anche i poeti senesi in vernacolo esprimevano quello che era il sentire di molti e cioè i forti dubbi su questa visione della psichiatria. Ecco un sonetto Ghigo Giannelli da “Gente vana”.
LO PSICHIATRA
Diceva lo psichiatra a un suo cliente:
“Tu pensi di esser folle? Niente affatto.”
“E allora come so’?” gli chiese il matto.
“Tu sei diversamente intelligente.
La follia, amico mio, è un concetto astratto.
Tu sei solo diverso dalla gente
che si comporta in modo differente,
ma chi può dire quale modo è esatto?”
“Chi può dirlo ‘un saprei, signor dottore”
Rispose il matto con lo sguardo perso,
“ma io stanotte, preso dal furore,
ho ucciso la mi’ moglie e il mi’ cognato”.
“Ecco, che ti dicevo, sei diverso.
Io, per esempio, mi so’ separato”:
Per finire vi racconto un’altra storia dove i senesi dimostravano di aver ben capito la differenza tra la pazzia come follia, come creatività fuori dalle regole istituzionali e la pazzia come malattia mentale e sofferenza.
Nel 1581 durante una caccia ai tori (il Palio moderno alla tonda ancora non c’era) sfila in piazza del Campo il carro allegorico del Lionfante (oggi Contrada della Torre).
Sopra una torre sta un ragazzo travestito da giovinetta che rappresenta la pazzia che vuol fuggire dalla città e i torraioli la incatenano per non farla fuggire perché senza quel tipo di pazzia la vita sarebbe stata di una noia mortale.
Ecco il testo che veniva cantato sul Carro, opera dell’accademico Desioso Insipido, al secolo Domenico Tregiani.
Questa chi che vedete è la Pazzia,
che fa far oggi queste cose belle,
che l’haviam presa che fuggiva via,
lagghando babbi, frategli, e sorelle:
s’ella scappasse so di fantasia,
che le feste che van sopra le strelle
sarien finite; onde sarebbe danno,
che finissen le feste ch’or si fanno.
Eh sì... sempre stati pazzi questi senesi... gente vana!