Volume 17 - 3 Settembre 2018

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Percorsi residenziali di pazienti gravi: la retorica della valutazione e la virtuosità del "caso per caso"

Autori


Riassunto

Nell’articolo sono riportati e analizzati i dati di una recente ricerca interna (ancora in corso) effettuata presso la CRP (Comunità Riabilitativa Psico-sociale) "Il Casone" di Casacalenda, in Molise. Obiettivo di questo scritto non è quello di elencare i dati prodotti dalla ricerca promossa dalla Comunità, ma scavare nelle contraddizioni dei modelli che propongono una formalizzazione radicale dei criteri diagnostici, dei metodi valutativi, delle previsioni delle tempistiche dei percorsi. Vengono utilizzati alcuni indicatori di esito, come i drop-out e il fenomeno del revolving-door, al fine di fornirne una lettura complessa, che non si limiti alla mera elencazione di dati.


Abstract

The article reports and analyzes the data of a recent internal research (still in progress) carried out at the CRP (Psycho-social Rehabilitation Community) "Il Casone", in Molise.

The aim of this paper is not to list the data produced by the research promoted by the Community, but to delve into the contradictions of the models that propose a radical formalization. The fetishism of the data is one of the forms through which the nurse can defend himself from the anguish of the encounter with the Other, and in particular with the patient.

We will use some outcome indicators, such as the drop-outs, the revolving-door phenomenon, in order to provide a complex reading, which is not limited to the mere list of data.



Nell’articolo sono riportati e analizzati i dati di una recente ricerca interna (ancora in corso) effettuata presso la CRP (Comunità Riabilitativa Psico-sociale) "Il Casone", gestita in convenzione dalla Coop. Nardacchione, che nel 1985 inizia la sua attività accogliendo pazienti psichiatrici. La ricerca interna da cui scaturiscono le osservazioni del presente articolo sono in piena linea con le intenzioni della Comunità di sfuggire a logiche di autoreferenzialità e di concentrare la propria attenzione verso i processi interni che la contraddistinguono (1).

L’analisi dei dati, una consultazione archivistica delle cartelle cliniche dei progetti terapeutici, prende in esame i 39 ingressi avvenuti in Comunità e i 30 progetti terapeutici conclusi dal 1 gennaio 2011 al 31 luglio 2017. Le informazioni ottenute hanno permesso di effettuare riflessioni ad ampio raggio sui processi di cura e dell’interazione con la rete della salute mentale della vasta area geografica.

Tale riflessione ha come obiettivo la problematizzazione di tali parametri, che a nostro parere non possono essere acquisiti senza porre in essere una dialettica costante tra le categorie generali di valutazione e le prassi specifiche che caratterizzano la cultura terapeutica di ciascun luogo di cura reale.

Obiettivo di questo scritto non è quello di elencare i dati prodotti dalla ricerca promossa dalla Comunità, ma scavare nelle contraddizioni dei modelli che propongono una formalizzazione radicale. Il feticismo del dato è una delle forme attraverso cui il curante può difendersi dall’angoscia dell’incontro con l’Altro e in particolare con il paziente. L’aspetto fondamentale su cui insistiamo è il rapporto tra universale e particolare dentro cui si muove (o dovrebbe farlo) l’etica della terapia in generale, soprattutto in contesto istituzionale. Ciò significa che, pur lavorando su elementi di struttura, e dunque caratterizzati da una stabilità di massima (si pensi, ad esempio, alle diagnosi, ma anche alle norme di condotta che regolano la vita comune), il dispositivo terapeutico (specialmente quello di matrice psicodinamica) non può rinunciare alla particolarità del Soggetto. Ciò invita a utilizzare i dati statistici in un senso tutto particolare, “bucandone” la presunta oggettività attraverso la “distorsione” che il singolo caso apporta al sistema meramente quantitativo della statistica.

Nello specifico, utilizzeremo alcuni indicatori di esito, al fine di fornirne una lettura complessa, che non si limiti alla mera elencazione di dati e non rappresenti quindi un’adesione acritica a strumenti e modelli che sembrano imperare in questo momento storico. La riflessione di matrice psico-dinamica diviene dunque una lente attraverso cui filtrare quei dati, fornendo ad una superficie bidimensionale la profondità che solo la considerazione della singola storia di ciascun paziente può dare; come ovvio, tale prospettiva aggredisce direttamente la necessità di generalizzazione dell’epidemiologia, decostruendone i princìpi alla luce della inaggirabile questione che ogni soggetto rappresenta per un sistema o istituzione.

Ogni dato verrà trattato e discusso in considerazione di alcuni cenni a casi clinici, schegge minime di situazioni di ben più ampia portata, ma che possono essere utilizzate in questo scritto come punti di appoggio per coniugare le esigenze della valutazione e della descrizione quantitativa con il lavoro riabilitativo residenziale, all’interno del quale è difficile pensare al trattamento se non in termini di caso unico, speciale, per cui è fondamentale procedere a una particolarizzazione della storia personale come primo atto terapeutico.


1. Il problema (che si tende a semplificare) dei Drop-out

Si tratta di un indicatore che dovrebbe quantificare e valutare il numero di “fallimenti ” di un dato percorso terapeutico, gli abbandoni non previsti, i progetti non condotti a termine secondo le iniziali aspettative dei curanti. Certamente è un indicatore importante, che dà il senso di un mancato aggancio tra il desiderio del curante e la domanda del paziente.

La quota dei percorsi terapeutici interrotti è pari al 16,67% delle dimissioni totali (5 casi su 30). I dati permettono di concentrarsi sulla centralità del singolo caso. L’istituzione di cura psichiatrica deve potersi pensare come un confine mobile, che viene attraversato in maniera sempre diversa, anche se si tratta dello stesso soggetto che lo varca, e deve declinare la propria funzione curante proprio dentro una costruzione dinamica della propria identità, oltre che di quella del paziente. Accettare la chiusura di un progetto terapeutico sancita dalla scelta del diretto interessato, ad esempio, non significa solo lavorare sull’indispensabile assetto democratico della cura, ma anche e soprattutto entrare in contatto con il principio di castrazione che deve sottendere ogni tentativo terapeutico. È il caso di D., dimessa dopo una storia di permanenza presso la nostra struttura estremamente complessa. Oggi, dopo aver deciso di restare in paese, la donna è una presenza difficile da etichettare per noi che abitiamo la Comunità; D. si ferma sulla soglia, continuando a frequentare un ospite residente in struttura, talvolta dando l’impressione di cercare un nuovo ingresso, una ulteriore possibilità di sostare con noi. Anche qui, si tratta di attivare una riflessione di matrice psicoanalitica che ha a che vedere con gli spazi fisici e mentali occupabili dalla paziente, la quale non era riuscita a elaborare una domanda di aiuto e cura ma che, una volta fuori, e grazie alla mediazione di quello stesso paziente che continua a frequentare, conserva un contatto con una realtà strutturata, sfiorando la disintegrazione, ma mantenendo un piede in una dimensione di esser-ci. E' difficile esprimere quindi come un drop-out, considerato quale dato statistico d'insuccesso, possa conservare una implicita valenza terapeutica. D. non ha riconosciuto l'istituzione, ha rifiutato una prassi di tipo tecnico, ma tramite l'altro ospite continua un rapporto implicito con essa, accettando di sottoporsi a un percorso di psicoterapia con il personale del CSM di riferimento.


2. Revolving door: una “casa” a porte aperte per risposte a bisogni mutevoli

Come è noto, con questa locuzione si definiscono i rientri in struttura di pazienti già sottoposti a un trattamento riabilitativo-terapeutico residenziale. In questi 6,5 anni abbiamo registrato 39 ingressi. In 4 casi l'ingresso ha rappresentato il rientro di ospiti che nella forbice temporale analizzata avevano già effettuato un precedente percorso in Comunità. L'89,75% degli utenti sono alla prima esperienza con il nostro servizio mentre il 10,25% si configura come un rientro.

Ciò detto, anche in questo caso dobbiamo squarciare il velo del numero, azzardando anche una proiezione “politica” del senso di questo indicatore e del suo valore: cosa significa che in una struttura come la nostra ci sia una percentuale di rientri come quella descritta? Quale funzione ha e quale torsione applicare al sistema terapeutico perché un assetto del genere veicoli un ulteriore vettore di cura e limiti il rischio di coartare il paziente, in un giro infinito di passaggi tra strutture ospedaliere ed extra-ospedaliere?

È importante sottolineare la difficoltà nel designare un luogo di presa in carico per quei pazienti gravi che non trovano approdo in luoghi terapeutici che prevedono la selezione secondo criteri di psicopatologia, anagrafici e di funzionamento sociale e lavorativo. Allo stesso modo, seppur l’indicatore dei rientri in struttura rappresenti certamente un importante elemento di riflessione intorno ai fallimenti dei trattamenti di riabilitazione somministrati, dobbiamo laicamente accettare che per quella tipologia di pazienti (ma non solo) non possiamo che ragionare pensando di proporre luoghi dove il paziente possa in-scriversi, ricontrattare temporaneamente una identità, giocando con le identificazioni possibili e appropriandosi di un brandello di sé, sempre in bilico, sembiante utile ad entrare nel campo delle relazioni sociali e della quotidianità condivisa.

È il caso di G., che dopo 3 ingressi presso la nostra Comunità, sembra aver trovato un equilibrio speciale, una alternanza tra interno e esterno che ricorda il gioco freudiano del rocchetto, e l’instaurarsi di una bozza di organizzazione simbolica, assente nei momenti trascorsi nella casa materna. Quell’alternanza, instauratrice di un principio di piacere sui generis, appare come una fonte di pacificazione dall’angoscia e, clinicamente, rappresenta per noi un dato centrale nella considerazione del progetto costruito con e per la paziente. È per noi chiaro, poi, quanto la realtà esterna risulti per lei eccessivamente invasiva, tanto da non poterle garantire la costituzione di un sistema di identificazioni e quella particolare scansione tra il dentro e il fuori. Senza scivolare su una rappresentazione dell’interno in quanto luogo sicuro, utero accudente schierato contro il male che proviene dall’Altro, vorremmo invece attestarci su una funzione di sostegno al ritmo impostoci da G., in attesa che qualcosa possa modificarsi dentro un ritmo che appare tutto preso da una eterna ripetizione.


3. Le dimissioni e la continuità terapeutica: attivatori di processi post-comunitari

In 19 casi di pazienti dimessi dalla CRP, il sistema curante ha progettato percorsi di continuità terapeutica, così diversificati:

  • 3 utenti (equivalenti al 15,79% delle 19 dimissioni) hanno continuato il progetto presso la nostra Comunità a Media Attività Assistenziale;
  • 5 utenti (equivalenti al 26,31% delle 19 dimissioni) hanno continuato il progetto con il supporto dell'Ospitalità Diurna (un servizio unico in Italia per come è concepito, cioè come opportunità delle CRP molisane di consentire la fruizione di percorsi riabilitativi sovrapponibili a quelli dei residenti, ma esclusivamente diurni);
  • 4 utenti (equivalenti al 21,05% delle 19 dimissioni) hanno continuato il progetto presso il Centro Diurno del CSM;
  • 1 utente (equivalente al 5,27% delle 19 dimissioni) ha continuato il progetto presso il Centro Socio Lavorativo (altro peculiare servizio, una sorta di Centro Diurno sui generis, che contempla l'erogazione di percorsi riabilitativi semi-residenziali, a fianco ad altri propedeutici o di inserimento lavorativo classico);
  • 5 utenti (equivalenti al 26,31% delle 19 dimissioni) hanno continuato il progetto con i servizi ambulatoriali del CSM;
  • 1 utente (equivalente al 5,27% delle 19 dimissioni) è uscito dalla rete del CSM della Regione Molise.

Il paziente grave – ci sembra di poter dedurre anche da questi dati – necessita di un sostegno, ma di quale natura? Facilmente, anche per ciò che riguarda il principio della continuità terapeutica, si potrebbe liquidare la domanda risolvendo il percorso di cura nella sua traduzione più assistenziale, di controllo sociale e rispetto delle prescrizioni farmacologiche. In realtà, esistono alcuni criteri che – qualora soddisfatti – invertono questa tendenza, colorando il percorso residenziale di connotazioni più squisitamente terapeutiche. Ne elenchiamo alcuni:

  • la presenza, già durante le fasi di invio in Comunità, di un pensiero sulla storia del soggetto, le cause immediate e storiche delle crisi, una previsione circa gli sviluppi della permanenza. Ogni caso rappresenta una particolare modalità di relazione con l’Altro, una particolare posizione che rende l’elemento diagnostico dinamico, lungi dall’essere un elenco di sintomi e preludio a un trattamento standardizzato;
  • la costruzione della rete dei curanti, con responsabilità e intensità dell’intervento differenti, che costituisce una mente comune intorno alla storia del paziente all’interno dell’istituzione. Il rischio in caso contrario è quello di dar vita a divisioni, che spesso ricalcano e peggiorano le modalità di scissione e proiezione dei pazienti psicotici. Inoltre, questa modalità di definizione di reti e sistemi curanti scongiura la possibilità di chiusura di ciascun sistema;
  • la costituzione di un Terzo, che è garante del funzionamento non invischiante, seduttivo, onnipotente o promiscuo del curante nei confronti del paziente (come conseguenza del punto b.;
  • in fase di dimissione, la conferma, l’ampliamento dei primi tre fattori e la continuità del pensiero terapeutico centrato sulla mente del paziente, della famiglia, della rete sociale;
  • la calibrazione di gradualità nell’autonomia (non solo pratica, principalmente emotiva). Con ciò intendiamo la costruzione di percorsi di continuità terapeutica che mirino non solo alla generalizzazione di abilità acquisite o riacquisite, ma anche al lavoro intorno al transfert già costituito nei confronti dell’istituzione di cura e dei singoli curanti; solo in quest’ottica si può parlare di continuità terapeutica uscendo dalle secche del mero assistenzialismo.

4. Momentanee proposte di lavoro

Quello attuale è il tempo della formalizzazione: algoritmi che generano profili di personalità, modalità di comportamento, risposte standardizzate alle domande degli utenti; sistemi di inquadramento degli individui entro incasellamenti rigidi. Nell’ambito delle istituzioni di cura questa tendenza si traduce nei protocolli di valutazione, il cui uso è finalizzato alla razionalizzazione delle risorse, ma è ovvio che le conseguenze riguardano non solo l’assetto amministrativo, economico e organizzativo, bensì la relazione con il paziente. Per noi l’obiettivo di ogni processo di cura è rappresentato dal lavoro intorno alla particolarità individuale, prodotto della resistenza del soggetto al suo inquadramento rigido e a doppia matrice: diagnosi secondo la sommatoria di criteri (e relativa proliferazione di diagnosi aggiuntive, comorbidità, ecc.) e classificazione secondo logiche di budget. Ciò attiene all’idea stessa di cosa sia, oggi, un Soggetto.

Un sistema di valutazione chiuso e una contabilità definitiva sono possibili solo partendo dal presupposto che l’oggetto/Soggetto è fondato in sé e per sé, trasparente, naturalizzato e, di conseguenza, completamente misurabile.

I discorsi intorno alla valutazione, la moltiplicazione di strumenti di misurazione e intervento a essi correlati sono solo alcune delle possibilità offerte dalle costruzioni scientifiche di circoscrivere l’esperienza soggettiva; il rischio insito in tali insiemi di teorie e prassi scientifiche è di esagerare le potenzialità di una lente esplicativa, rendendola strumento di comprensione della totalità delle esperienze stesse. Sappiamo invece quanto ogni scienza debba fare i conti con le proprie stesse limitazioni, imposte strutturalmente dal fatto che esse si fondano su linguaggi convenzionali e, dunque, non configurate per esaurire tutto il campo della realtà attraverso una conoscenza formalizzata. Quando si parla di soggetto umano, poi, questi aspetti dovrebbero risultare ancora più evidenti, alla luce delle infinite forme che può assumere una struttura universale nel contesto dell’umano (nuovamente, basti pensare alle tante differenze tra pazienti con diagnosi identica: richiamiamo allora qui la necessità di stemperare uno strutturalismo diagnostico radicale con il “buco” imposto dal singolo caso clinico). Come ovvio, ciò è vero non solo quando si consideri la sfera del mentale, della psiche, ma anche quando si entri in contatto con il Reale del biologico: come affermano E. Alleva e D. Santucci “ […] non vi sono fenomeni “assoluti” in biologia. Ogni cosa è vincolata nel tempo e nello spazio” e, citando E. Mayr “vi è una sola legge universale in biologia: tutte le leggi biologiche hanno delle eccezioni”(2). Il portato di un modello di progettazione, intervento e controllo degli esiti siffatto è l’intima logica pedagogica, rieducativa che mette in campo; le categorie e i funzionamenti sono le strettoie all’interno delle quali ogni particolarità viene devitalizzata, a favore di una uniformità passivizzante. È interessante allora notare – a tal proposito – come aumentino i discorsi intorno alle forme di “devianza” : basti citare il caso dei disturbi dell’apprendimento in ambito infantile. Tutto ciò che non rientra nel fascio dei criteri di inquadramento del “normale” è necessariamente derubricato nell’area del “patologico”, attivando protocolli di intervento standardizzati, che non lasciano spazio al singolo individuo portatore di malessere, ma agendo in maniera unilaterale e generale, muovendo da presupposti riduzionisti (il problema è collocato da qualche parte dentro il soggetto, e questo dentro è organicamente localizzabile) che conduce fatalmente alla somministrazione farmacologica e allo stigma.

Con il prevalere di una cultura dell’efficienza e della distribuzione delle risorse di tipo “aziendalistico” che tutto riduce a costi, centri di costo, produttività, redditività, secondo le logiche economiche della grande produzione di beni materiali e dei mercati, il bene salute e a maggior ragione il bene salute mentale, deve essere garantito, tutelato e promosso con equità e con la ricerca della massima efficacia. Allora nella polarità efficacia-efficienza diviene centrale l’efficacia delle cure e l’efficienza e la buona distribuzione delle risorse (risparmio compreso), che non possono essere regolate esclusivamente dalle logiche “aziendali”. Esse debbono trovare fondamento nei principi culturali ed etici dell’economia della solidarietà e della sussidiarietà sociale che non abbiano nel profitto l’elemento determinante e dinamizzante.

La valutazione di un sistema complesso, come quello di una Comunità Terapeutica, riflette con estrema chiarezza tutte le difficoltà che nascono dall’impossibilità di muoversi secondo un modello univoco della mente. Osservare e valutare relazioni tra soggetto, nucleo familiare, gruppo di operatori curanti, in termini di cambiamento, miglioramento e guarigione è estremamente complesso. Anche pensando al vasto campo delle teorie integrate, può apparire curiosa una presa di posizione che ne denunci alcuni aspetti, intorno ai quali bisognerebbe interrogarsi, piuttosto che assumerli come dati assolutamente incontrovertibili. L’integrazione delle teorie e delle pratiche terapeutiche è un dato di buon senso quando tende a tenere insieme l’analisi del mondo interno e dell’inconscio con quella sistemica, antropologica, delle strutture e delle sovra-strutture; più sospetto risulta invece il tentativo di modificare l’assetto di una particolare disciplina con istanze che non appartengono direttamente al suo campo teorico. In questi casi – ci pare – il meccanismo risponde piuttosto all’esigenza di creare un unico grande contenitore, che accomuni tutti gli interventi sotto denominatori che risultano spesso vaghi (ad esempio l’incontro tra una certa psicoanalisi e le terapie cognitivo-comportamentali intorno al concetto di inconscio, alla categoria delle emozioni, della relazione terapeutica, di un presunto assetto dialogico, non fa che depotenziare il dispositivo psicoanalitico, rendendolo più prossimo alla moda delle terapie C/C).Crediamo, al contrario, che sia opportuno mantenere distinzioni importanti, che vertano non solo su aspetti minimi di teoria e prassi (talvolta funzionali solo a fondare l’ennesima scuola di specializzazione!), ma sull’idea di soggetto che ogni impianto terapeutico intende favorire; la domanda da porre sarà, allora, “ da quale idea di soggetto prende le mosse una certa teoria? E quale concezione di soggetto sviluppa e pone in pratica?”. Il passaggio dalla teoria alla pratica, poi, è importante, perché segnala la portata ideologica della teoria stessa: come si definisce l’intervento terapeutico nella concretezza del setting? Quanto conferma, radicalizza o sconfessa i presupposti di fondo delle teorie di riferimento? Si potrebbe dire che il primo problema consista piuttosto nella necessità di sforzarsi di trovare un linguaggio comune, terminologie condivise, modelli teorici di intervento almeno esplicitati.

Non si sta negando che la Comunità Terapeutica, nel suo intento di cura, sia caratterizzata da numerosi fattori specifici, doverosamente da attivare: il grande alveo del progetto individualizzato, le attività espressive, i programmi di psico-educazione, le psicoterapie individuali e di gruppo, il confronto democratico attraverso le più variegate riunioni, fino alle attività condivise e consapevoli della vita quotidiana (solo per citare quelle cui non è difficile apporre l’etichetta di universalità). Ma affinché vi sia quel transito dalla routinaria erogazione di semplici trattamenti a processi virtuosi in continua evoluzione, il comune denominatore che sottende tutte le attività deve essere l’atmosfera, una sorta di metronomo, un tono di fondo che accompagna ogni momento della vita nella/della Comunità, che rende la permanenza nella casa un percorso, seppur momentaneo e pieno di incognite, sperimentato in serenità/felicità. Essa è caratterizzata da elementi dotati di una validità ritenuta troppo spesso scarsamente scientifica. In realtà, la psichiatria e le scienze psicologiche in genere sono contigue alla meccanica quantistica, nel senso che il ricercatore/valutatore si forma mentre valuta e quindi è influenzato dall’oggetto della ricerca/valutazione; e tale oggetto si modifica in base alle qualità umane, culturali, empatiche di colui che si propone come ricercatore/valutatore. Sembra paradossale, ma le scienze psicologiche da una parte, valutando, sembrerebbero porre a distanza l’oggetto (e ciò fa perdere la maggior parte delle qualità dell’oggetto stesso), dall’altra possono valutare solo facendosi esse stesse modificare dall’oggetto che intenderebbero valutare. Questa influenza/in-formazione di fatto sta modificando già l’oggetto della valutazione e lo stesso ricercatore/valutatore. Se ne deduce l’equivoco, che consiste sia nell’attribuzione di significato parziale a un oggetto parziale, sia a una non corretta interpretazione del risultato, se esso non è considerato come un microspaccato temporale, che comunque rimane parziale nella propria estensione relazionale (3).

Come detto, il presente contributo rappresenta il tentativo di smontare e rimontare ogni indicatore, secondo una logica diversa da quella della quantificazione, utilizzando altri sistemi di analisi e interpretazione: così le interruzioni di un percorso possono anche essere acquisite come fallimenti dei trattamenti residenziali e istituzionali, ma talvolta lasciano ampio spazio al desiderio del soggetto di assumersi la responsabilità di una scelta, che può dimostrarsi positiva. I rientri in struttura, allo stesso modo, devono essere compresi alla luce di specifiche dinamiche chi implicano l’inconscio del paziente, del gruppo curante, dell’istituzione, identificando i momenti di simmetria, di espulsività e seduzione, ma anche le caratteristiche di un luogo di cura che può annoverare tra le proprie prerogative quelle di una accoglienza finalizzata alla ridefinizione identitaria. Sappiamo l’importanza per il paziente psicotico di poter sostare in luoghi del genere, tentando di ricomporre un quadro mentale frammentato e angosciante; l’analisi dei dati della nostra ricerca lascia trasparire che molti casi di revolving-door non riguardano solo emergenze di natura sociale, familiare, abitativa, ma anche e soprattutto il ritorno ad un luogo in cui esiste una tendenza al maternage, ma anche una attitudine terapeutica che può introdurre una cifra di cambiamento e di rottura della ripetizione inconscia in cui si esprime “l’al di là del principio di piacere” di freudiana memoria.

Anche la quantificazione dei tempi di permanenza (su cui non abbiamo modo di soffermarci in questo contributo) – che d’altra parte pone l’accento sull’importanza della chiusura che ogni percorso terapeutico-riabilitativo dovrebbe avere – necessita di considerazioni che ci impongono di aggiungere al tempo cronologico una scansione logica, più prossima al vissuto che il paziente sperimenta della propria esistenza; solo così si potrà rispondere in maniera eticamente e terapeuticamente soddisfacente a questioni come quella dello sviluppo e l’analisi del transfert, la costruzione di “oggetti” mentali e concreti capaci di rappresentare il soggetto nello spazio comunitario e di fungere da supporti per il suo desiderio, e supporre un pensiero sul futuro del paziente stesso.

Il nostro lavoro di ricerca può essere considerato allo stato iniziale. In futuro si analizzeranno i nuovi progetti terapeutici (allargando la forbice temporale dei casi trattati).

Sarà inoltre nostro obiettivo lavorare alla fase di follow-up, la quale rappresenta il vero punto di svolta per la valutazione degli esiti, in quanto è solo grazie all’integrazione con le informazioni circa il decorso dei progetti terapeutici dopo le dimissioni che sarà possibile rivalutare il senso globale del percorso comunitario. Diviene così essenziale istituire un lavoro di rete con gli altri attori del territorio, che in vario modo garantiscono una continuità terapeutica. Consideriamo la “guarigione” (se di guarigione possiamo parlare) come un processo trasversale che coinvolge più spazi e più attori, i quali devono dialogare per ricomporre la specificità del caso, naturalmente non ponendoci supinamente rispetto ad obiettivi di bilancio o di discorsi scientifici intorno a criteri di oggettività di valutazione e trattamento dei pazienti. Principalmente continuando ad interrogarci se il Soggetto vada inserito in un disindividualizzante cul de sac che delira di poter omologare e dire parole definitive. A noi, curiosi esploratori e co-narratori di storie assolutamente specifiche, piace concludere con il noto aforisma di Emile Chartier: “Nulla è più pericoloso di un’idea…quando è l’unica che abbiamo”.


Bibliografia

1) Malinconico A.
Note sulla residenzialità, tra fondamentalismi e fondamento, Rivista Sperimentale di Freniatria”, n. 3, 2005;
«L’Oratore muto e la Comunità: “anche qui dimorano gli dei”», Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie, n. 5,1998, pag. 75-89;
«Extra-ecclesiam nulla salus», Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie, n. 6, 1998, pp. 211-213;
«Vecchi e nuovi sacerdoti nell’approccio comunitario alle psicosi», Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie, n. 14, 2002, pp. 113-120

2) AA.VV., Dalle forze ai codici, 1992, Roma, Manifestolibri, p. 44

3) Malinconico A, Prezioso A (a cura di), Comunità terapeutiche per la salute mentale. Intersezioni, 2015, Milano, Franco Angeli, p.51