EDITORIALE
Nuovo comunitarismo e cooperazione per la salute mentale di comunità
Reputo utile porre una premessa – forse banale – ma che non darei per scontata sulle condizioni che, quarant’anni fa, resero possibile il varo della Legge 180 (e della successiva 833 !).
Riprendendo e attualizzando lo spirito della Costituzione repubblicana, il pensiero basagliano esondava il muro delle pratiche specialistiche per assumere i tratti di un “disegno generale" in cui nozione di salute (mentale) e idea di qualità sociale venivano declinate ponendo in luce relazioni e reciproche influenze.
Allo stesso modo e tempo, il lavoro per la crescita della qualità sociale e per assicurare salute venivano a configurarsi come processi di costruzione e conquista da svilupparsi attorno all’idea che il cambiamento richiedesse una teoria [1], che essa fosse attuabile solo in presenza di una spinta sociale adeguata [2], che quindi fosse necessario lavorare ed agire per creare le più vaste ed estese possibili alleanze sociali e con le Istituzioni [3], da ultimo, che occorresse riconoscere la strumentalità della funzione “ tecnica" della medicina e della psichiatria ad un disegno di costruzione della salute che vedesse protagoniste attive le persone, i gruppi sociali e le comunità [4].
Il punto d’origine (e di definizione) di questa visione era costituito per un verso dalla convinzione che l’istituzione manicomiale e le pratiche di segregazione fossero ingiustificate ed inumane e, per l’altro, che il cambiamento fosse possibile, cioè che tutto fosse nelle mani, nella testa e nella volontà delle persone e della società, nel saper essere allo stesso tempo visionari (cioè dotati di una visione) e concreti, radicali (cioè orientati ad andare alla radice dei problemi) e - se e quando fosse stato impossibile volare - almeno capaci di camminare in avanti.
Di quelle esperienze e di quel tempo, che fu “colorato" anche per noi – che ne siamo stati giovani testimoni, entusiasti partecipi e poi, in qualche modo, pratica conseguenza (la nostra esperienza della socio riabilitazione psichiatrica del Valdarno ha preso origine e spinta dall’esperienza di Agostino Pirella e della de-manicomializzazione di Arezzo) - restano, dal mio punto di vista evidenti, 4 grandi condizioni da richiamare:
1. Eravamo in una stagione di forti spinte al cambiamento e di altrettanto marcata definizione di visioni, culture e programmi per il cambiamento;
2. La strutturazione sociale generava - pur in un contesto in evoluzione e non senza spinte fortemente critiche (basti rammentare i movimenti del 1977) una forte capacità di rappresentanza dei corpi sociali ed intermedi (a cominciare dal sindacalismo confederale) ed una altrettanto marcata convergenza della società sui temi della giustizia sociale, dell’eguaglianza delle opportunità e dei diritti;
3. Basaglia (Pirella e, secondo me, soprattutto Tullio Seppilli) ebbero la capacità di cogliere che il cambiamento si giocava in primo luogo nelle dimensioni culturali e che esso sarebbe conseguito alla capacità-possibilità di coinvolgervi le comunità locali ed i gruppi sociali;
4. Vi fu una grandissima capacità pratica, di coordinamento occhio-mano, di traduzione delle visioni e delle intuizioni in azioni concrete ed incrementali.
Oggi viviamo un tempo assolutamente diverso, come scrive Bodei di passioni grigie (Benasaiag ha usato l’aggettivo qualificativo tristi), connotato dalla frammentazione sociale, dalla crisi profonda della rappresentanza, dal fiorire di spinte particolaristiche, corporative e localistiche, dall’esplosione di linguaggi specialistici, dal crescere e dal fiorire di nuove forme di vulnerabilità, sofferenza ed emarginazione.
Dove c’era apertura ora si avverte bisogno di sicurezza chiusura e controllo ; dove c’era spinta sociale ed un continuo riferirsi al futuro come se esso, di per se stesso, potesse gemmare crescita sociale e civile oggi c’è paura del futuro ed il senso che esso sia un buco nero (Jannacci).
Alle istanze di eguaglianza delle possibilità si son venute a sostituire mille, più o meno costituite di fondamento o vuote, retoriche della differenza, del merito e del valore specifico.
Retorica spesso fondata su poco o nulla, il prevalere del “ cretino “ che viene veicolato dai social media, il senso comune che si sostituisce al buon senso, il bercio (come si dice in toscano) al posto del ragionamento.
Non a caso, in una fase storica marcata dalla paurosa crescita della diseguaglianza e della sofferenza sociale, si è scatenata la guerra tra poveri (con i terzultimi ed i penultimi accaniti contro gli ultimi) e si è inverata, in peggio, la profezia di Huxley: bruciare libri non serve più, ché è passata (è stata fatta passare) l’idea che studiare non serve e che – anzi - il sapere non serve ad interpretare complessa realtà ma, al contrario, a deformarla in modo strumentale.
In questo quadro, all’aumento della frammentazione sociale e del grado di differenziazione della vulnerabilità, della fragilità e della sofferenza sociale hanno corrisposto la restrizione e l’irrigidimento della capacità di risposta del sistema pubblico e – al di là della questione delle risorse – che sussiste ma che spesso viene utilizzata come alibi – il sistema pubblico sembra esposto al rischio di finire schiacciato dall’entropia e dal dilagare di logiche burocratiche.
Come ha evidenziato Airsam nel suo documento del settembre 2017, dove non sembrano profilarsi approcci utilitaristici, autoreferenziali e di ricerca di forme di auto aggiustamento si respira rassegnazione e senso della resa, come se la partita fosse persa e non ci fosse altro da fare che lasciar fare al tempo...
Il lavoro sociale, nelle comunità e nell’intreccio del quotidiano (dei quotidiani) misura questa realtà e con essa, ogni giorno, è chiamato a fare i conti con tutte le spaventose difficoltà del caso e con il frequente senso del “non sense”, della vacuità dello sforzo.
Innanzi la constatazione della varietà, vastità e profondità dei fattori di crisi (economici, sociali, culturali, politici) che nell’intreccio sostanzia la crisi del divenire, la prospettiva del lavoro comunitario e per l’estensione dei contesti abilitanti impone dunque l’esigenza di produrre un nuovo strappo culturale, un salto in avanti che ci porti ad un qualche punto di ripartenza : occorre ripartire dalla constatazione della intollerabilità dello scandalo implicito nel bruciare le esistenze e, in esse, la dignità di ogni esperienza umana, in ogni fase della vita.
A partire dal radicale contrasto alla mercificazione della salute ed al pensiero unico che depriva di ogni valore ciò che non produce utilità e profitto, occorre, nelle comunità, nei concreti quotidiani, riconsiderare la qualità, l’inclusione e l’integrazione come costrutti sociali e, dunque, la decisività delle azioni educative e capacitative finalizzate ad attivare le comunità locali in azioni concrete atte a difendere ed estendere i beni comuni, la salute e, entro essa, la salute mentale.
In coerenza con questa visione, che trae forza dalla ricerca e da molte evidenze empiriche, Koiné ha collocato e si sforza di collocare il proprio agire entro l'orizzonte delle pratiche di sviluppo di comunità, di quelle pratiche e metodologie che mirano a rendere la comunità locale attore di positivo cambiamento sociale.
A partire dall’idea di comunità come aggregato di gruppi sociali (comunità locale, cooperative, scuole, organizzazioni, associazioni di cittadini, imprese) nel quale interessi, aspettative, relazioni, legami organizzativi, culturali ed identitari, vicinanza e co-obbligazioni sono i tratti salienti, abbiamo considerato le azioni per lo sviluppo di comunità sia come una strategia di intervento sociale sia come l’obiettivo dell’intervento stesso.
Ad esempio, nel campo della salute mentale e della promozione della inclusione delle persone vulnerabili, le azioni di sviluppo attuate – con la Ausl ed i Comuni - nei complessi processi di socio riabilitazione relazionale per la recovery e nel Patto locale valdarnese per la salute mentale miravano a (strategia) coinvolgere la comunità per estendere la gamma delle possibilità di abilitazione-riabilitazione-inclusione e, allo stesso tempo (obiettivo dell’intervento) ad animare la comunità e a rafforzarne la coesione e la capacità di convergere su assi valoriali ed identitari positivi.
Tali pratiche originano dalla constatazione (che a noi sembra evidente) del fatto che la gestione di molti problemi sociali così come la ri-alimentazione e la ridefinizione dei modelli di sviluppo a livello locale diviene possibile solo se si è orientati e capaci di agire per definire e diffondere conoscenza, adottando modalità operative flessibili e decentrate, agendo nei contesti della quotidianità per promuovere la nascita di reti e nuove alleanze sociali, intese come sistemi di corresponsabilità tra soggetti diversi che si basano su visioni, valori, programmi e progetti condivisi.
Voglio richiamare, al volo come riferimento /fondamento teorico di questa visione l’idea di salute come bene comune puntualizzata da Tullio Seppilli, che rileva la decisività della partecipazione attiva dei cittadini alla difesa ed estensione dei sistemi pubblici di promozione ed intervento a garanzia della salute dei cittadini.
Che si tratti di promozione della salute o di promozione dello sviluppo locale, di sviluppo imprenditoriale o di gestione delle criticità ambientali, è evidente che ogni azione è destinata alla scarsa efficacia (quando non anche al fallimento) se non vi è la capacità di coinvolgere attivamente i destinatari, l'insieme delle persone e dei gruppi - formali ed informali - di un dato contesto locale nella lettura dei problemi e nella definizione delle strategie per prevenirli o gestirli.
Promuovere e fare sviluppo di comunità - in questa ottica - significa considerare le persone, i gruppi sociali e la comunità come promotori e come attori di cambiamento sociale (Medicina d’iniziativa, RT).
Vi sono questioni emergenti – nell’ambito della salute ed in quello specifico della salute mentale di comunità – che in tutta evidenza non possono essere concretamente affrontate fuori da una visione sistemica di capacitazione della comunità e dei suoi membri e dello sviluppo di pratiche di collaborazione.
Mi limito, quindi, a fare due richiami: ad esempio, la tempesta di sofferenza psicologica e di disturbo psichico implicita nel diffondersi del fenomeno dei “borderliner” adolescenti e giovani non può essere correttamente affrontata se famiglie, scuole, servizi sociali, società sportive, associazioni del mondo della cultura non agiscono (entro le prospettive di promozione dello sviluppo comunitario) per elevare il numero e la qualità dei contesti abilitanti, cioè di spazi ed opportunità che stimolino la capacità creativa, la definizione di autonomi progetti di vita, l’autodeterminazione, la capacità di occuparsi di se stessi e della propria salute.
O, ancora, il dramma della diffusione del gioco d’azzardo (nel nostro territorio la spesa annuale per il gioco ha superato, nel 2016, i 450 milioni di € di cui 252 solo nel settore delle slot ; la spesa capitaria per abitante sfiora gli 800 €), con tutto il suo portato di devastazione del benessere delle persone e delle famiglie, di psicosi e di doppie diagnosi, non si può affrontare senza agire nelle comunità locali azioni educative e capacitative di coinvolgimento delle persone, delle associazioni, dei soggetti sociali.
Il lavoro sociale nel territorio e nelle comunità, il lavoro di rete, il dispiego di percorsi di ricerca azione che coinvolgano attivamente i soggetti sociali, lo sforzo di costruire attorno alla esigibilità dei diritti nuove alleanze sociali costituiscono, dunque, il punto di ripartenza, la traversa che può permetterci di uscire dalla condizione dei sopravvissuti...
Ma, ovviamente, per ripartire, è indispensabile, rigenerare un contesto favorevole, che permetta di attribuire senso e coerenza a queste pratiche.
In primis, rilanciando il valore del fare assieme e della collaborazione, criticando in radice l’idea che il criterio regolatore della nostra vita, della produzione dei beni comuni e dei beni relazionali sia la competizione ed il mercato.
Riassumere come decisivo lo sviluppo di quei processi concertativi e di co-progettazione tra attori locali che costituivano la base della 328.2000 (e che, adesso, sotto il diluvio di logiche mercatiste, sembrano essere scomparsi o ridotti a pura retorica) è l’unico modo possibile per evitare che il dilagare dell’utilitarismo asfissi la capacità delle comunità locali di co-agire e co-determinarsi su ciò che è giusto (invece che sul profittevole).
Ed è necessario – con molta radicalità ed altrettanta onestà intellettuale – entrare nel merito di concrete questioni critiche.
Sul versante delle politiche pubbliche – ad esempio - occorre riconsiderare con forza e coerenza il tema della produzione dei beni comuni, di salute e salute mentale per superare le letture superficiali del codice degli appalti a favore di letture più profonde e competenti che consentano di privilegiare formule come la istruttoria pubblica di co-progettazione e l’appalto concorso senza offerta economica previsto dall’art 97 del codice.
Ancora: occorre rileggere criticamente gli approcci alla gestione degli appalti che interessano le cooperative di inserimento lavorativo di territorio, quelle che agiscono per rendere possibile la pratica dell’approccio recovery nella dimensione del lavoro : se proseguiamo nella strada della concentrazione e dell’astrazione dei negozi dai territori, queste esperienze decisive verranno spazzate via o ridotte ad agire come sub appaltatori di grandi concentrazioni di cui è tutta da dimostrare la vantaggiosità anche economica. Le vicende Consip, palesemente, mettono in dubbio l’equazione concentrazione = risparmio corretto.
Da ultimo, ma per noi è la prima questione, è indispensabile rileggere criticamente anche l’esperienza della cooperazione sociale, che sotto i colpi del dilagare del pensiero unico mercatista ha, in molti casi, smarrito il senso del suo esistere e della sua origine.
Troppa attenzione al mercato per troppo poca attenzione alle persone ed ai diritti delle persone, troppi commerciali e troppo pochi ricercatori, troppi consorzi commerciali e troppe poche alleanze con associazionismo e volontariato locali, troppi investimenti mirati a remunerare il capitale investito e troppo poche scelte di impiego delle risorse mirate a risolvere problemi sociali, troppo scimmiottamento del management profit e troppo poco senso della nostra diversità e distintività, dell’essere strumenti di un disegno di cambiamento e che agiscono per rendere esigibili i diritti delle persone e delle comunità di cui siamo parte.
Nella riforma del TS, che presenta aspetti anche molto criticabili, vi è un punto concreto su cui riflettere e lavorare : l’idea delle fondazioni di comunità come punto di solidificazione dei partenariati sociali a livello locale, di nuovo incontro e nuova ricerca di sintesi tra enti locali, sistema sanitario, cooperazione sociale, scuole, associazionismo e famiglie.
Mi sembra che a questo si debba guardare per disporre dello strumento necessario a lavorare in concreto per una nuova coesione sociale e perché, nelle comunità locali, crescano i contesti abilitanti, la capacità di inclusione ed integrazione, la capacità di fare assieme e di guardare avanti con fiducia.